Non so perché, ma quando nel corridoio dell’hotel sento battere un certo ritmo di camminata dinoccolata so per certo che dalla porta della sala riunioni apparirà Nino Frassica. Cioè, non è che sono un oracolo, un appuntamento con Frassica ce l’ho davvero, ma tra tutto il viavai degli ospiti della struttura il suo passo mi suona quasi familiare. Una volta che ero ammalato mi sono recuperato di seguito una trentina di segmenti di Novella Bella, il suo spazio all’interno di Che tempo che fa, e alla fine non sapevo più se stavo vaneggiando per la febbre alta o se avessi solo appreso il suo modo di parlare folle e stropicciato. Di certo ho imparato a riconoscere la sua camminata.
Nato sotto la stella di Renzo Arbore con il quale ha rivoluzionato la tv grazie a programmi che ne hanno fatto la storia come Quelli della notte e Indietro tutta!, Nino Frassica è una delle massime espressioni della comicità surreale del nostro paese («il più surreale rimane Totò»). Non c’è italiano che non rida delle sue storpiature, capriole lessicali che mirano a disinnescare le regole della letteratura italiana. Per gli stranieri è un altro discorso, si è visto infatti quando Sofia Coppola lo ha scelto per il ruolo del presentato ai Telegatti all’interno di Somewhere, convinta che lui rappresentasse davvero quel genere di televisione; la nostra Sofia non aveva capito che l’esagerazione era semplicemente una cifra stilistica. Buon film comunque.
Quest’anno Frassica, che ne anni ne ha 74, festeggerà 40 anni di carriera. Una carriera solida che l’ha visto lavorare al fianco dei più grandi (Arbore, Pozzetto, Abbatantuono, Troisi, Faletti, Sordi, giusto per citarne alcuni) in tv come al cinema e in radio. Ancora oggi, al fianco di Fabio Fazio, costruisce settimanalmente uno dei pochi momenti di pura comicità televisiva a Che tempo che fa. Al contempo, però, è da vent’anni il punto di comunione tra i millennial e le proprie nonne con il suolo del maresciallo Cecchino nella fiction dei record, Don Matteo. Un successo che gli ha garantito la presenza costante nei film per famiglia, i cosiddetti family («ma che rottura!» ammette), dove la sua comicità dell’assurdo non è ben apprezzata e spesso messa a tacere: «Mi sento come un chitarrista in chiesa che non può suonare. Però non è che fuori c’è molta alternativa». Ma sulla questione di chi ha il «coraggio» di rimanere stoico al proprio umorismo di nicchia, resta molto onesto: «I soldi hanno un valore, facile fare l’eroe quando non ne hai bisogno».
Quando Frassica entra nella sala riunioni prenotata per l’intervista siamo in un lunedì mattina di gennaio. È da poco stato annunciato il suo ritorno al Festival di Sanremo, stavolta in vesti di co-conduttore della serata di mercoledì insieme a Bianca Balti e Cristiano Malgioglio (forse questi tre nomi di fila sono la cosa più surreale della sua carriera), e la Rai in quel momento gli ha chiesto il silenzio assoluto sull’argomento («avranno paura che gli faccia pubblicità»). E allora sarò io a parlarne, e non lui, così da non rischiare che venga eliminato dalla kermesse come Emis Killa.
Il pretesto dell’intervista è comunque un altro, il suo nuovo libro Piero di essere Piero, che, come dice il titolo, è un libro che ambisce a parlare dei Pieri di tutta Italia. Tra le pagine ci sono, ovviamente, anche Piero Pelù e Piero Angela qui coinvolti in uno scambio di personalità. Grande assente è Alex Del Piero, ma si sa che a Frassica del calcio non è mai interessato: «Da ragazzo al bar gli altri parlavano di calcio e motori, io di musica e donne».
Non penso ci sia bisogno di una introduzione più ampia su Nino Frassica. Ma nel caso vi consiglio Wikipedia. Ora devo andare, Nino mi sta parlando.
Te l’hanno detto che non posso parlare di Sanremo, vero?
Sì, nemmeno di quelli passati, pare, forse rischiavi di svelarmi il vincitore del 1985.
Guarda, non capisco. Cioè, è la notizia del momento e non posso parlarne. Ma non sarebbe un bene per loro? Forse hanno paura che gli faccia pubblicità.
Però io non posso avere lei di fronte…
Dammi del tu.
Scusi, cioè, scusa. Non posso averla di fronte e…
Ah di nuovo!
Scusami, dicevo, non posso sedermi di fronte a te e non dirti che io ti ho conosciuto tramite uno dei miei momenti preferiti della storia di Sanremo, ovvero la gag di lei, cioè, di te, con il bambino che interpretava il Sindaco di Scasazza, il più giovane sindaco d’Italia. Anno 2003, Sanremo numero 53. In casa mia è una memoria storica, offenderei qualche parente se non la citassi qui.
Bellissima, quel bambino era vispo, una saetta! L’avevo incontrato sul set di un telefilm dove accompagna il fratello. Sto bambino era fantastico. Così per un po’ me lo sono portato dietro e quando facevo la promo per Don Matteo dicevo che era mio figlio. E a Sanremo anche… ma sai che ho dovuto lottare per poterlo avere a Sanremo? La Rai non voleva che ci fosse un bambino. Ho insistito tanto perché mi faceva ridere, era surreale. Alla fine ce l’ho fatta anche se non mi ascoltavano quando glielo spiegavo.
E chi ti ha dato il via libera?
È stato Baudo, nessuno può dire no a Pippo Baudo.
Siamo usciti indenni dalla questione Sanremo direi, niente denunce spero. Quindi partiamo dall’evento appena precedente. Hai pubblicato un nuovo libro: Piero di essere Piero. È difficile portare una comicità come la tua in forma scritta?
Dopo tanti anni mi ci sono abituato. Però è stato molto faticoso quando ho fatto il primo libro, il Libro di Sani Gesualdi, dove parlavano di un santo inesistente (reso celebre in Quelli della notte con Renzo Arbore) con un nome al plurale. Quando la Longanesi mi ha proposto quel libro ai tempi manco ci avevo pensato si potessero fare libri del genere. Però andò bene, grandi vendite. Lì ho capito che con un adattamento certe cose possono fare ridere anche se non c’è l’espressività fisica e vocale e non c’è la spalla; si può colorare di più, c’è un altro ritmo. Alcune cose lette però non funzionano perfettamente in tv, che ha un ritmo più frenetico (da quando è arrivata Italia Uno) e bisogna sempre stringere. Walter Chiari faceva sketch da 15 minuti, oggi è tutto stringato. Lo capisci da come faccio Novella Bella.
E come mai secondo te?
Perché comanda il telecomando e l’emittente ha paura che le persone cambino canale. Facci caso, non ci sono nemmeno più le sigle dei programmi, che una volta duravano un minuto e mezzo.
Pensiamo che tu e Arbore con una sigla avete fatto un successo che tutti sanno canticchiare ancora oggi come Sì, la vita è tutt’un quiz da Indietro tutta!.
Eh sì, ora invece bisogna passare subito all’azione. Come per le fiction che partono ai mille all’ora, deve morire qualcuno subito se no si cambia. Sono trucchetti. Come chi grida nelle pubblicità.
Ho riguardato un po’ di episodi di Quelli della notte e Indietro tutta!; avevano un altro tempismo, un altro ritmo. E inoltre si vede che andavate spesso a braccio.
Esatto. Arbore è stato la rivoluzione. Prima di lui la tv era prove su prove. E gli sketch quando sono troppo provati rischiano di arrivare meccanici. E io non riesco mai a fare cose ripetute. Arbore è stato la rivoluzione perché non voleva saper niente dei miei sketch, voleva avere una reazione naturale al mio umorismo. È questo è molto evidente in Indietro tutta!, dove ero il presentatore, perché a Quelli della notte avevo uno spazio preciso per il mio sketch. È stata una bella lezione di televisione. Ma tu quanti anni hai?
35.
Ah, allora non eri manco nelle idee de tuoi genitori ancora. E dove l’hai visto?
Su Rai Play, ci sono tutte le puntate.
Cose come Rai Play e YouTube sono fondamentali in questo senso. Una volta per rivedere la replica di uno sketch dovevi aspettare l’estate e Techetechetè.
Che rapporto hai con la nostalgia? È il sentimento di quest’epoca dove tutto viene recuperato e etichettato come cult.
Sì, c’è una grande confusione. Ora tutto è cult. Ma cult è sinonimo di qualcosa di vecchio e di qualità, non solo di vecchio. Sono stati rivalutati tutti: ma cosa rivalutiamo se già all’epoca certe cose non facevano ridere? Mi piace la nostalgia se è un’occasione per i giovani di riscoprire qualcosa di qualità, ma deve essere di qualità. È come l’improvvisazione.
In che senso?
Non è che se è una cosa è improvvisata significa che è di qualità. C’è anche la brutta improvvisazione tipo quella che faceva Enrico Papi a Buona Domenica. Entrava in studio, buttava un secchio d’acqua, uscita. Improvvisava, diceva. Ma che improvvisazione è se non fa ridere? La scuola Arbore era quella di scegliere improvvisatori e non solo attori. Perché l’improvvisatore è sia attore che autore, deve saper inventare la battuta sul momento. Anche se spesso – diciamo la verità – si fa fede al repertorio: se si parla di ombrelli e so che ho battuta bella sugli ombrelli, che fa ridere, la recupero dal repertorio e la uso. Ora ti spiego perché ho perso a LOL.
Dove ti sei auto-eliminato facendoti ridere da solo per due volte.
Sì, ho perso perché finché dicevo delle cose che già sapevo, premeditate, era ok. Ma quando mi uscivano delle cose improvvisate sul momento diventavo spettatore di me stesso, mi autocompiacevo, e così ridevo. Se andassi ora potrei anche vincere perché adotterei un’altra strategia.
Parlando di improvvisazione, quale è stata la tua formazione umoristica?
Il bar e la noia. Nel mio paese mi annoiavo più degli altri perché non amo né i motori né il calcio, gli argomenti tipici dei ragazzi di paese. Per socializzare parlavo di donne o dovevo trovare gli appassionati di musica, che da utente è una cosa che preferisco rispetto a leggere o andare a teatro. In paese era fondamentale fare gli scherzi. Lo scherzo è già teatro perché lo prepari, lo organizzi, lo metti in scena e hai un pubblico, anche se di pochissimi. Penso a Giorgio Bracardi che spesso faceva degli scherzi di cui io ero l’unico spettatore per il pur gusto del teatro. Una volta avevamo fatto uno spettacolo di teatro a Sanremo, all’Ariston…
Attento non puoi parlare di Sanremo!
Ah, vero! Ma era teatro! (lo dice avvicinandosi al registratore come se ci fossero degli agenti segreti della RAI ad ascoltarci, nda)
Ok, allora possiamo procedere.
Allora eravamo in treno per Roma: e lui – solo per far ridere a me – ha passato tutto il viaggio ad alitare sul collo del signore seduto di fronte, un tipo un po’ rigido che poteva sembrare un preside di una scuola. Gli alitava senza motivo, e ogni tanto questo signore sentiva il caldo e non capiva da dove arrivasse questo fastidio. E io dovevo stare al gioco e non potevo ridere perché ci avrebbe scoperti. E lui lo sapeva, voleva mettermi in imbarazzo. Lo scherzo è questo, è una rappresentazione. Anche quello era un momento di teatro. Tornando alla tua domanda: al bar rompevamo il cazzo a furia di scherzi. Goliardia e cazzeggio. Cose dette per dire, per divertirti e far divertire, per passare il tempo.
E c’è qualcuno che consideri il tuo maestro?
Renzo Arbore, Gianni Boncompagni, Giorgio Bracardi e Mario Marenco quando facevano Alto gradimento. E Cochi e Renato. Mi faceva impazzire quella loro libertà. La comicità in cui frantumi i luoghi comuni e le frasi fatte mi fa sentire libero, senza il peso di stare appresso l’italiano. Le storpiature fanno ridere, anche se poi bisogna saper costruire attorno. Non rispettare l’italiano è una forma di libertà. Che cazzo me ne frega se una cosa non si dice così, io la voglio dire come me la sento. Non rispettare le regole è una forma di libertà. Pensa che mia madre non voleva nemmeno che parlassi dialetto perché diceva che sembravo maleducato.
Inoltre sia in Arbore che in Cochi e Renato c’è una grande presenza di musica.
È vero. Ma sai perché mi piacevano? La comicità prima di loro, quella di Walter Chiari e Gino Bramieri, aveva delle regole. Loro invece sconquassavano la logica e mi facevano ridere moltissimo. Comunque ero uno ragazzo di 17 anni a cui piaceva Ionesco, ero un ragazzo strano. Io volevo fare teatro dell’assurdo, ma non se ne faceva molto in Italia.
«Ora tutto è cult e sono stati rivalutati tutti: ma cosa rivalutiamo se già all’epoca certe cose non facevano ridere? »
Ora faccio un azzardo, ma leggere la tua comicità scritta mi ha ricordato alcuni episodi letterali del primo Woody Allen.
Eh magari…
Avevi anche dei maestri all’estero?
No, Woody Allen ad esempio l’ho scoperto tardi. Ma non c’erano molti programmi esteri in televisione. Il Benny Hill Show prima, Mr. Beam dopo. Ah, un altro mio mito era Totò, che era totalmente surreale. È l’unico che ha fatto il surrealismo in Italia. Ci sono stati poi alcuni tentativi di portare la comicità surreale al cinema, penso a Lo svitato di Dario Fo, o alcune cose di Tino Scotti. Ma non c’era pubblico, né prima né adesso. Ed è una paura: se fai ridere poca gente a Zelig non ti prendono mica. Ci vuole coraggio per fare certa comicità, il coraggio di accontentarsi di una nicchia e continuare con il proprio umorismo. Ma i soldi hanno un peso, e quindi allargare la propria comicità per un pubblico può portare un guadagno. E se i soldi ti fanno comodo è difficile rinunciare. Facile fare l’eroe quando non hai bisogno.
Però tu resisti da 40 anni.
40 anni in tv, con 15 di gavetta alle spalle. Non ho avuto successo da giovane, l’ho avuto in ritardo, a 34 anni. E tu nei hai 35. No?
Sono in ritardo!
Dai, solo di uno, ma almeno lavori per una rivista importante.
Anche questo è vero. Comunque nella tua carriera sei riuscito a tenere sempre un ottimo livello…
No, questo non è vero. A volte ho dovuto accontentarmi o accontentare. Spesso mi sono dovuto trattenere al cinema o in tv. Ma io mi ribello alla banalità. Anche se a comandare è sempre il regista. Ma io me li liscio un po’ tutti, non accetto di lavorare con un regista che non mi fa aprire bocca. Vogliono conoscerne l’intelligenza. Però se devi fare i family, non hai troppo spazio di manovra. E sono molte le occasioni perse.
Ad esempio?
Un film come Improvvisamente Natale con Diego Abbatantuono e Michele Foresta, il Mago Forest; due grandissimi. Di questo film c’è un sequel in cui al cast si aggiunge anche Elio (di Elio e le storie Tese). Un quartetto che poteva sparare davvero delle bombe ma che alla fine non ha potuto perché ci siamo ritrovati a fare quello che ci era chiesto, un family, e la storia da raccontare era un’altra. Che rottura i family! Storie per bambini in cui devi far ridere i bambini, davvero non li capisco, i bambini devo ridere altrove.
Ma allora perché li fai? Mancanza di alternativa?
Sì, non c’è molta alternativa. Quando mi ha chiamato Maccio Capatonda infatti sono andato di corsa, per due lire. Sapevo che andavo a fare una cosa intelligente, divertente, unica. Con uno che fa la mia comicità, qual è l’alternativa? Quale film comico è uscito che vale la pena? I produttori sanno che faccio sto genere, ma qualcuno ha mai proposto un film in cui poter liberare la comicità surreale?
Un film del genere lo hai fatto nel 1986. Il Bi e il Ba con regia di Maurizio Nichetti.
Sì, ma era troppo per quel periodo. Forse l’avessi fatto ora avrebbe avuto un altro successo. All’epoca si aspettavano una cosa facile, più legata alle storpiature. Resta un film amato dai fan del genere, che è comunque poca gente. È un fatto di numero: potrei far un film surreale ora, qualcuno lo vedrebbe e riderebbe, ma non farebbe mai gli incassi dei cinepanettoni. Il problema è il pubblico, che è poco. C’è gente che è disarmata, che non capisce questa comicità, e tu mica puoi andare a casa a spiegarglielo. Questo è il motivo per cui mi piace andare da Fazio.
Perché hai un pubblico che ti capisce.
Sì, esatto, ho il mio segmento, sono la ciliegina sulla torta. La gente mi capisce. Mi sceglie. Lo si vede dai numeri dei video su YouTube e sui social. Che sono più di quelli che guardano la tv, anche c’è chi sta sveglio ad aspettare quel momento. Mi piace ci siano degli affezionati. Però sai, dopo faccio anche Don Matteo, è il mio lavoro.
E non ti va ora, dopo tutta sta carriera, fare solo cose in contesti cui saresti capito?
Me lo potrei permettere, ho guadagnato abbastanza. Però è un peccato: ti offrono dei soldi e tu rifiuti per far solo la tua comicità? Mi direbbero stattene a casa. Non posso imporre quando non c’è mercato, quindi mi accontento. Io ho quei 10 minuti a settimana da Fabio, che è una spalla perfetta, dove posso fare quello che voglio. Sono soddisfatto di questo.
Però con Renzo Arbore c’è stata la possibilità di portare quella comicità al pubblico generalista.
Con Arbore non facevamo cose estreme, ma la gente godeva a guardarci perché eravamo in diretta e improvvisavamo. Non era solo una cosa d’élite, ma un fenomeno culturale. Era qualità e quantità e fare numeri e qualità è una cosa da fenomeni. Sono pochi i casi in cui qualità e quantità funzionano. Mi viene in mente la Gialappa. Hanno un gran gusto. A Zelig ci sono quelli che fanno ridere e quelli che non fanno mai ridere. Dalla Gialappa c’è qualità. Pensa al loro periodo d’oro: Aldo, Giovanni e Giacomo, Antonio Albanese, Teo Teocoli, Fabio De Luigi, il Mago Forest.
Ci sono comici giovani che ti piacciono?
Qualcuno c’è, ma non so manco come si chiamano. Ma qualcuno una risata me la fa fare. Mi piace guardare la Gialappa, togliendo qualche comico (di cui non farò mai il nome) sarebbe un programma perfetto.
Ci sono invece comici che senti che ti devono molto?
Certo, ma sono loro i primi a dirlo. Ma non copiano me, fanno parte del genere. Anzi qualcuno che mi ha copiato c’è, ma mi piace pure. Certe volte in televisione vedo dei comici, che non per forza mi piacciono, che fanno delle cose che ho fatto io in passato. Il problema è che se poi le rifaccio io sembra che sia io che abbia copiato sti qua. E chi glielo va a spiegare al pubblico? Ma siccome andrò in pensione – prima o poi – sono felice che ci sarà qualcuno che farà le cose che mi piacciono. È un bene che ci siano eredi.
Torniamo ai maestri. Lo scorso anno ho intervistato uno di quelli che hai citato prima, Renato Pozzetto…
Lui è il numero uno. Peccato che si sia ritirato, quanto aveva ancora da dare. Io e lui abbiamo fatto degli sketch in radio assieme su Rai Due in un programma chiamato Programmone, ma sono passate un po’ inosservate. Sono delle cose incredibili, improvvisate. Per me averci lavorato assieme è una medaglia. Come aver lavorato in radio con Mario Marenco, Giorgio Bracardi e Alfredo Cerruti degli Squallor. Sono soddisfazioni.
Sei stato anche in un film con Sordi.
Sì, ma non ci ho avuto rapporti; la mia carriera attoriale è piuttosto modesta.
Hai anche lavorato con Troisi.
Sì, Troisi lo abbiamo perso troppo presto, era il nuovo Eduardo De Filippo. Ance se De Filippo era vero quando recitava.
Visto che abbiamo parlato di un grande del teatro, tu che da lì sei partito, ti piace andarci da pubblico?
Mi piace quando la recitazione è vera, e non teatrale; devo credere a quello che sto vedendo. E quando vado a vedere gli spettacoli i primi dieci minuti vorrei sempre andarmene. Poi dopo mi adeguo al linguaggio e spesso lo spettacolo mi piace. È come nei film stranieri con il doppiaggio: noi ci siamo abituati alla dizione dei nostri doppiatori, che sono bravi, ma restano comunque finti. È finto, è una recita, ma oramai l’abbiamo accettato.
Un altro surrealista dell’umorismo è stato Felice Andreasi, compagno di Cochi e Renato, forse il più “dimenticato” ad oggi.
Pensa che quando volevo fare l’attore all’Accademia di arte drammatica ho presentato un pezzo di Andreasi. Tutti portavano Pirandello e Shakespeare, e io mi presento con La moglie bruciata di Andreasi. E questi mi guardano strano, “ma che cavolo fa sto qua?”. E questo mi faceva riflettere: perché io da siciliano avevo un gusto così continentale? Così milanese? Non so.
Sai la prima volta che ho conosciuto Pozzetto gli ho detto «maestro…» e lui mi ha risposto: «ma che maestro, guarda che anche tu fai la comicità come la nostra». È stato come prendere la patente, essere promosso. Come per Abbatantuono, anche con Pozzetto c’è stata una grande occasione persa. Ho lavorato con lui in una miniserie (Case e bottega, 2013). Nella serie lui era un imprenditore che stava fallendo e voleva ammazzarsi. Anche qui la libertà era limitata. Ci sono state due scene che non abbiamo potuto mettere, ma che ci hanno fatto ridere mezz’ora.
Ce le racconti?
Certo. In una dovevamo recuperare una auto dal garage, un’auto che lui non usava da tempo. E quindi lui voleva far star scena dove arrivavamo alla macchina e mi diceva “Sai dov’è la chiave? L’ho nascosta”, ma la chiave era lì bella visibile sul sedile. Capisci, era una cosa assurda in quel contesto. A me ste cose fanno davvero ridere. Ma il regista ci guardava e non capiva. Era una fiction, cosa cazzo possiamo fare in una fiction?
E la seconda?
Nell’altra invece l’ho fatto ridere e ne sono davvero orgoglioso. Nella serie c’era questa dipendente della sua azienda che doveva partorire. Nella scena dovevamo arrivare in ospedale per incontrare la mamma e il bimbo. E io gli ho detto: «Perché non le dici “questo il giorno più bello della mia vita”?». Che è una frase a caso, perché lui non c’entrava niente con lei e con questo bambino nella storia. A noi sono queste le cose che fanno ridere. Ma naturalmente non abbiamo potuto mettere niente di questo perché bisognava stare attenti a essere sempre comprensibili e non far nulla di strano. Sai quante volte a Don Matteo mi devo trattenere? Tanto anche se faccio certe cose al montaggio me le tolgono perché considerate troppo. Però certe poi me le riciclo altrove se non vengono usate. A volte mi sento un uomo in chiesa con la chitarra elettrica. Sì, mi sento come un chitarrista in chiesa che non può suonare.
Hai citato Don Matteo quindi devo nominare una delle tue migliori spalle, Francesco Scali.
Siamo amici nella vita. Scali è sintonizzato con me, ha i tempi perfetti. Noi recitiamo con realismo, ma con picchi di surrealismo. Lui mi viene appresso. In radio le nostre chiacchierate diventano sketch. Conducevo e dicevo che lui era la mia valletta. Improvvisavamo molto. Tornando alla similitudine sulla musica: io e Scali suoniamo assieme. È difficile trovare una spalla giusta. A Don Matteo recito con tantissimi attori e ti posso assicurare che è difficile, sono duri come un muro.
Le spalle sono fondamentali nella comicità, sono i gregari dei grandi ciclisti.
Pensa a Fazio, come dicevo. Bravissimo. Mi viene in mente invece quando ero ospite di Gianni Minà. Lui rideva sempre, gli piacevo moltissimo, io parlavo, lui rideva, ma così non andavmoa avanti. Rideva sempre, ma si perdeva il ritmo così. La bellezza di Arbore era invece la lucidità di aver tutto sotto controllo, è uno che ha sempre saputo dare i tempi. E una coppia che mi fa impazzire son Lillo e Greg, bravissimi. Ok, però basta, parliamo male di qualcuno o qualcosa adesso?
Sentiti libero. C’è qualcuno che non ti fa proprio ridere?
Le donne mi fanno ridere meno, credo che la comicità maschile sia più forte e quella femminile più indietro.
E come mai dici questo?
Non lo so, non l’ho capito bene, ma da spettatore rido meno. Forse perché non mi immedesimo? Sono rare quelle che mi fanno ridere. È quello che sento, non ci posso fare niente. Posso ammirare la bravura, il virtuosismo, ma anche da ragazzo non ricordo ridessi per Loretta Goggi, Bice Valori o per la Marchesini. La Marchesini era bravissima, ma la bravura e la capacità di far ridere sono due cose diverse.
Che rapporto hai invece con i commenti online?
Ora coi social tutti scrivono, commentano, criticano; ma chi sono sti qua? Una volta valeva il critico. Il critico ha il diritto di criticare: ha visto e studiato mille cose e può fare un confronto. È un lavoro astratto il nostro, ma qualcosa di oggettivo c’è. Il fioraio che dice il suo parere e decide se faccio ridere o no, se recito bene o no, non ha valore. Cioè sia nel bene che nel male. Il pubblico sui social fa numero, è un potere contrattuale, lo so, ma non ha potere di critica. Sui commenti positivi però non ci sputo eh…
Sul fatto che tutti scrivono non dirlo a me che faccio il giornalista…
Nel vostro mondo oramai ci sono cani e porci. Non c’è una regola: un giorno uno si sveglia e stabilisce che parlerà di cinema. Ma come si fa? Perché per altri lavori serve una gavetta, una scuola, un corso almeno e nello scrivere no? Visto che il mondo dello spettacolo è astratto, e non è concreto come il calcio che se fai goal è un goal, sembra che tutti si sentano in diritto di poter scrivere. Però alcune cose sono oggettive. Ok, ma ho parlato troppo ora, che vuoi sapere ancora tu?
Volevo tornare un attimo su La moglie bruciata di Andreasi. Quando ho rivisto lo sketch qualche giorno fa ho pensato: questa comicità forse non si potrebbe più fare così oggi. Ho come la sensazione che un comico di oggi si censurerebbe a scrivere un pezzo come quello.
Parli del politicamente corretto perché in quello sketch lui è cattivo e violento? No, non si possono avere limiti in queste cose. Non è cronaca, non è che ha davvero bruciato la moglie, è fantasia.
E tu come ti rapporti al politicamente corretto?
Oggi sono arrivati questi limiti che hanno portato una certa paura. Non si può dire niente che si viene subito etichettati come razzisti, omofobi o altro. È come pensare che Alberto Sordi fosse uno stronzo perché nei film faceva sempre la parte lo stronzo. Lui, nelle sue interpretazioni, condannava quella gente. La commedia all’italiana è quella in cui si mostrano i difetti degli italiani. Mica era lui a essere stronzo.
Non c’è il rischio che il comico più giovane si tiri un po’ indietro per questa ragione, invece di osare?
I nuovi comici fanno stand up, hanno spazi molto più lunghi dove spesso esagerano. Non andando in televisione possono esagerare, e non devono stare attenti. A volte vanno fin troppo in là. A me quando la comicità diventa sgradevole mi infastidisce. Odio le battute sulla pedofilia o sui ciechi. Non so perché, mi fanno paura. Certe cose mi fanno paura. Ci sono delle cose da rispettare, come non si scherza sulla gente quando è appena morta, quando il dolore è fresco. Tipo una volta quando è morto Pasolini… ti ricordi in che anno è morto?
No, adesso così al volo no.
Ah! Che brutta figura, hai fatto una brutta figura. (ride)
E l’ho pure registrata…
Esatto. Ecco una volta avevo registrato un pezzo in radio in cui scherzavo su Pasolini, però poi poco prima che andasse in onda lui è morto e l’ho fatto tagliare di corsa. Anche con Dalla capitò. Però ecco, il comico deve essere irrispettoso, ma mantenendo un certo rispetto di base. Non bisogna essere bigotti, ma nemmeno di cattivo gusto. Però ecco scherzare sulla Chiesa per me è oro, ma perché non ci credo. Però non posso scherzare sul Papa. Non ho censure, ma non gradisco. Non bestemmio, ma mi piace un po’ scherzarci. Come quando faccio i santi protettori da Fazio.
«A volte ho dovuto accontentarmi o accontentare. Ma io mi ribello alla banalità»
Tu ti diverti ancora a fare questo mestiere?
Sì, con Novella Bella moltissimo. È un giornale vero, puoi chiamarmi collega. (ride) Mi diverto proprio a costruirlo e quando lo porto in tv, da attore, devo rispettare il me autore. E se una cosa non fa ridere quel pubblico, ma fa ridere me, la riciclo; è un peccato buttar qualcosa che fa ridere solo perché non è capita. Ma questo vale solo per certe cose perché io non faccio satira, non faccio attualità. Perché l’attualità e la satira fanno ridere in quel momento. La satira, ad esempio, è pesante, bisogna studiare. Non puoi essere ignorante, devi essere preparato. Crozza la fa molto bene: il suo è virtuosismo. Ha un programma costruito molto bene.
E i Guzzanti?
I Guzzanti? Virtuosi anche loro. Ma nella satira Crozza è il numero uno. E tornando al discorso di prima lui ha una spalla bravissima, che ingigantisce la bravura di Crozza. Non ricordo il nome, non so come si chiama, anche se lui lo nomina sempre…
Non mi sta venendo nemmeno a me, Andrea…
Ahia, nemmeno questa sai? E siamo a due, finiamo qua! (ride)
Anche perché stiamo parlando da un’ora e mezza, ti ho praticamente rapito.
E va bene, ma il mio libro l’hai letto?
Sì, certo.
Ecco, bravo! Quello fa ridere. Andiamo va che piove.