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«Non esiste un modo perfetto per onorare la storia»: dietro le quinte di ‘A Real Pain’ con Jesse Eisenberg

L'attore, sceneggiatore e regista racconta perché il suo road movie/buddy comedy è estremamente personale, come l'ha scritto e , soprattutto , come ha ingaggiato Kieran Culkin

Foto: Agata Grzybowska/Searchlight Pictures

Jesse Eisenberg era bloccato. Poi l’illuminazione è arrivata grazie a sette parole.

L’attore, sceneggiatore e regista aveva cercato di adattare Mongolia, un racconto del 2017 che aveva scritto per Tablet Magazine, per il cinema e, per sua stessa ammissione, si era scontrato con un muro di gomma. Un racconto su due amici del college, uno con i piedi per terra e l’altro impulsivo e bohémien cercatore di emozioni, che viaggiano nell’Asia orientale alla ricerca “dell’esperienza della vita” e finiscono in una yurta in un centro di ecoturismo: questo breve character study sembrava la base perfetta per un film. Gli piaceva la dinamica da strana coppia tra i due. Ma più cercava di catturarla in un modo che giustificasse la durata di due ore, più gli sfuggiva. «Avevo scritto 30 pagine della sceneggiatura», ricorda Eisenberg, seduto in una stanza d’albergo appena fuori Central Park. «E lentamente mi sono reso conto che non funzionava, non andava bene. E se avessi continuato nella speranza che in qualche modo le cose sarebbero migliorate, mi sarei ritrovato con 60 pagine di qualcosa che era due volte peggio».

Era pronto a dichiarare sconfitta e a cercare una nuova idea che potesse seguire il suo debutto alla regia del 2022, Quando avrai finito di salvare il mondo. Poi sul browser del suo computer è apparso un annuncio pubblicitario. Non diversamente dal viaggio narrato nel suo racconto, prometteva anche un’esperienza indimenticabile. C’era qualcosa nella formulazione del testo che l’ha colpito: “Visite guidate ad Auschwitz, con pranzo incluso”. All’improvviso, la lampadina sopra la sua testa si è accesa e ha iniziato a lampeggiare.

«L’ho letto e ho pensato: “Oh, è così…”», Eisenberg scuote la testa, lo sguardo nei suoi occhi oscilla tra l’incredulità e la gioia morbosa. «Voglio dire, in sette parole, riassume tutto ciò che penso dell’essere un sopravvissuto di terza generazione, ovvero: non c’è un bel modo di vivere questa esperienza. Non esiste un modo perfetto per onorare la Storia, perché qualsiasi cosa tu faccia rientrerebbe nel contesto del privilegio moderno».

A Real Pain attinge a quella sensazione specifica, così come all’assurdità intrinseca di quella pubblicità e al dolore e alla pietà dell’industria del “turismo delle atrocità”, in un modo che si fonde con la voce sarcastica e leggermente ironica che Eisenberg ha usato nelle sue opere teatrali (ne ha scritte quattro) e nei suoi scritti di narrativa in pubblicazioni come Tablet e New Yorker. I due potrebbero ora essere cugini anziché amici del college e, invece che la Mongolia, la loro destinazione è una piccola città della Polonia. Ma il rapporto tra questi due personaggi un tempo intimi e adesso un po’ estranei rispecchia la dinamica tra cicala e formica degli improbabili compagni di viaggio del racconto. L’organizzatore del viaggio, David, è un dipendente del settore tecnologico con moglie e figlio che desidera ardentemente organizzazione e ordine; è lui che ha prenotato per loro uno di quei tour condotti da una guida un po’ stramba. Suo cugino Benji è uno sballato dallo spirito libero che reagisce a tutto come farebbe un bambino, nel bene e nel male. L’unica sorpresa è che avrebbe voluto interpretare lui stesso il ruolo di Benji.

Invece ha deciso di impersonare David e si è affidato ai consigli di una sua parente nella vita reale per quanto riguarda la ricerca della mina vagante del film. «Avevo scritto la scena in cui Benji in un certo senso spinge tutti nel gruppo ad andare a scattare una foto su questo monumento», racconta Eisenberg. «È irriverente e un po’ nervoso, e c’è persino qualcosa di un po’ antagonistico nel modo in cui lascia che sia David a scattare le foto coi telefoni di tutti. Quella sera più tardi ho visto mia sorella e le ho chiesto: “Potresti leggere questa cosa? Secondo me è divertente”. E mi ha risposto che c’era solo una persona sul pianeta che avrebbe potuto interpretare quella parte: Kieran Culkin».

«Mi sembrava tutto così giusto», continua con entusiasmo. «Voglio dire, quando ci siamo finalmente incontrati sul set, dopo che lui – letteralmente – ha cercato di abbandonare il film più volte, be’, mi è sembrato che fosse il mio partner di recitazione perduto da tempo!».

«Quindi Jesse ti ha detto che non aveva mai visto nessuno dei miei lavori prima di scegliermi?», mi chiede Culkin, parlando al telefono il giorno dopo. «In realtà è vero solo in parte, perché a quanto pare aveva visto Mamma, ho perso l’aereo. Siamo arrivati ​​al dunque circa un giorno fa. “Oh, quindi mi avresti visto quando interpretavo un bambino che faceva la pipì a letto a sette anni. Capito”. Ho anche scoperto ieri che nel frattempo ha visto Margaret, in cui ho una piccola parte. Ma mentre montava il film, mi ha detto che non mi aveva mai visto in nessun ruolo prima di scegliermi».

«Sono ancora sconcertato», aggiunge ridacchiando. «Perché qualcuno dovrebbe fare una cosa del genere? E lui continua a pensare che sia normale che non mi abbia fatto un provino e che non abbia praticamente mai visto il mio lavoro. Ha soltanto seguito il consiglio della sorella? Questa sì che è massima fiducia. “Be’, sai, ci siamo già incontrati” – sì, ma tipo, due volte di sfuggita! Forse tre, però sono state interazioni volanti. Anche quando la metto giù come lui, Jesse pensa ancora che sia perfettamente ragionevole scegliere qualcuno in base al fatto di averlo incontrato e che ci sia una sorta di vibe. “Qualcuno ha detto che eri bravo”. Non è così che si assume qualcuno per un lavoro. Quindi alla fine ho detto: “Ok, fanculo”».

Kurt Egyiawan, Will Sharpe, Kieran Culkin e Jesse Eisenberg in ‘A Real Pain’. Foto: Searchlight Pictures

E sebbene Culkin confermi di aver tentato di ritirarsi numerose volte prima dell’inizio della produzione, riconosce anche che, intuito o meno, c’era qualcosa che lo aveva colpito immediatamente in questo progetto.

«Era una sceneggiatura incredibilmente precisa, praticamente perfetta», dice Culkin. «Mentre la leggevo, ridevo a crepapelle, cosa che non capita mai. E l’altra cosa che non succede mai è pensare subito: posso interpretarlo bene questo tizio. So chi è, senza dover fare alcuno sforzo extra. Era proprio lì, sulla pagina. Il passo successivo era semplicemente parlare con Jesse. Voglio dire, hai chiacchierato con lui: è molto intelligente e parla molto velocemente. Ho pensato subito: “Sì, potrebbe funzionare”. Sapevo che era un attore molto bravo. E la sceneggiatura era fantastica. L’unica cosa che mi lasciava ancora un po’ perplesso era: come sarà da regista? Così ho visto il suo primo film, che era molto bello, e poi ho pensato: “Va bene, spero che andremo d’accordo in termini di recitazione”. E quello che ti ha detto è giusto: è stato tutto istantaneo. Sembrava che tutto scorresse davvero velocemente e facilmente».

In effetti, guardando A Real Pain, si potrebbe pensare che Eisenberg l’abbia scritto appositamente per entrambi. David sembra una versione più gentile e amorevole dei personaggi nevrotici e a volte ansiosi che ha sempre interpretato, da The Social Network ai due Zombieland. Culkin incarna alla perfezione il tipo di santo folle perennemente solare e affascinante che non ci pensa due volte a rubare gli spuntini al cugino o a commentare “Oh, cavolo!” quando uno dei suoi compagni di tour gli dice che viene dal Ruanda. Alla domanda se si sia ispirato a qualcuno in particolare per il mix di entusiasmo sconfinato e mancanza di limiti di Benji, Culkin racconta che sua moglie si è girata verso di lui durante una proiezione e gli ha sussurrato all’orecchio il nome di un conoscente. «E io ho pensato: “Oddio, ha ragione”», ha ammesso. «Quando l’ha detto, all’improvviso l’ho riconosciuto. Ma l’influenza è stata inconscia. Questa persona non era nei miei pensieri mentre giravamo».

Per Eisenberg, il film attingeva a molti legami personali, non solo con il suo personaggio, ma anche con il luogo. Alla première del film al Sundance a gennaio 2024, lo sceneggiatore e regista ha detto che la piccola e anonima casa che è la destinazione finale del viaggio dei cugini un tempo apparteneva alla sua defunta zia Doris. È qui che è cresciuta, nella città di Krasnystaw, prima di dover fuggire dai nazisti. Nel film, il posto appartiene alla “nonna Dory”, alla quale entrambi i personaggi erano molto legati. In realtà, l’idea alla base del viaggio di David e Benji nell’Europa orientale era quella di onorare le loro radici e – si spera – di riallacciare nel frattempo i loro rapporti. (Questo comporta la visita al campo di concentramento di Majdanek, che la produzione ha utilizzato per le riprese. Per non «feticizzare il dolore», Eisenberg ha semplicemente installato le telecamere e ha fatto camminare il cast attraverso le stanze. Le reazioni di shock e orrore degli attori, aggiunge, erano reali.)

Si basa tutto su un vero viaggio che Eisenberg ha fatto nel 2008, non con suo cugino ma con sua moglie. Ha promesso alla zia che, se mai fosse stato in Polonia, le avrebbe scattato una foto della casa. Al suo ritorno negli Stati Uniti, Eisenberg le ha relegato la foto. Questo ha portato, ricorda, alle altre parole che hanno ispirato A Real Pain.

«La sua reazione è stata sostanzialmente: “Oh sì. Qui c’è tutto”», dice Eisenberg. «E la cosa divertente è che ce l’ho fatta. Ho capito. Quando sono tornato in Polonia per girare questo film, siamo andati in luoghi che erano rilevanti per me, che si trattasse del campo di concentramento che si trova a cinque minuti da dove viveva la mia famiglia o di riprese nella casa in cui la mia famiglia ha vissuto fino al 1939. Ovviamente per me era qualcosa di molto personale».

«Ma quando ero fuori da quella casa nel 2008, la mia reazione è stata: perché non provo qualcosa di più profondo?», aggiunge. «Ero un po’ sconcertato dal fatto di non avere alcun legame con questo posto. Com’è possibile che la mia famiglia abbia vissuto qui più a lungo che nel Queens, e che io non abbia alcun legame con quel luogo? Quindi credo che sia anche questo che mi ha fatto pensare a questa storia quando ho deciso di fare un secondo film. Stavo cercando di chiudere un po’ il cerchio. E infatti il ​​17 novembre scorso ho ottenuto la cittadinanza polacca. Quindi mi sono impegnato a comprendere questa storia in un modo che ora mi sembra molto appagante per questo motivo».

Da Rolling Stone US

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