Rolling Stone Italia

Nuovo Cinema Coppola

Perché Francis Ford Coppola è sempre stato l’innovatore, lo sperimentatore, «lo studente: io mi considero così ancora adesso, mica un maestro». Da ‘Il padrino’ ad ‘Apocalypse Now’ a, oggi, ‘Megalopolis’, il film che è già leggenda, ancora prima di uscire. Non si può parlare di e con lui senza parlare di ossessione, di passione, di soldi, di rischi. E, soprattutto, di cinema. Che è l’inizio e la fine: oltre c’è solo l’amore. Una conversazione. Anzi: la conversazione

Foto: Fabio Lovino

«Ho appena rivisto One from the Heart», cioè Un sogno lungo un giorno, gli dico io in modalità cinefilo pazzo appena mi siedo accanto a lui sul divano della suite che lo ospita in questi giorni romani. «E quale versione?», mi fa lui, e già qui c’è tutto Francis Ford Coppola. L’innovatore, lo sperimentatore, il cinefilo pazzo anche lui, l’eterno studente, come si definisce lui stesso anche in questa lunga chiacchierata. «Oddio, quella che hanno messo da poco su MUBI», rispondo timidamente io. E lui: «Non lo so… ce ne sono in giro un po’. Credo sia One from the Heart: Encore. Dovrebbe essere quella».

Non si può parlare di e con Francis Ford Coppola senza parlare di ossessione, di passione, di soldi, di rischio che può spingersi fino al fallimento, o che quantomeno il fallimento lo considera, se non addirittura lo corteggia. Non si può parlare del suo ultimo film, Megalopolis, senza parlare di ossessione, di passione, di soldi, di rischio. È il progetto di una vita, ci pensava dal 1977, arriva ora (nelle sale italiane dal 17 ottobre) e, come già è successo la scorsa primavera a Cannes, sarà parimenti amato e odiato, accolto o rifiutato, la gente lo rivedrà molte volte o, chissà, lascerà la sala prima della fine.

Foto: Fabio Lovino

Non si può parlare di Megalopolis senza parlare di One from the Heart, per questo gliel’ho citato subito. È l’altro film fatto di ossessione, passione, soldi, rischio, il film che Coppola si produsse da solo, esattamente come quest’ultimo. Costò 26 milioni di dollari, ne fece 600mila al botteghino (Megalopolis è costato 120 milioni, per ora negli Stati Uniti ne ha incassati 10), e lui fu poi costretto a vendere gli studi della sua American Zoetrope per ripagare i debiti. Ma oggi quell’anti-musical con le canzoni di Tom Waits, la fotografia di Vittorio Storaro e Ronald García, i set costruiti da zero da Dean Tavoularis e Nastassja Kinski acrobata innamorata è un capolavoro riscoperto di abbacinante bellezza.

Ci troviamo all’alba della Festa di Roma, dove ha preso le chiavi della città, la Lupa capitolina consegnata da Gualteri sul solito terrazzino vista Fori, e gli è pure stato intitolato un viale (da vivo!) a Cinecittà; ci troviamo qua, dicevo, per parlare di questa folle e affascinante utopia ambientata in una città tra futuro e passato che si chiama, guarda un po’, New Rome, e dove la gente si chiama Cicero (il sindaco corrotto: Giancarlo Esposito), Crassus (un simil-Trump biondo e cafone: Jon Voight) e Catilina (Adam Driver). Quest’ultimo è l’eroe di questa “favola”, come da dicitura che accompagna il film, l’architetto che – questa è l’utopia – prova faticosamente a progettare un mondo migliore.

In One from the Heart c’è questa battuta: “Lo sai cos’è che non va in America? La luce. È tutto stagnola, tutto finto, tutto fasullo… Non c’è niente di vero”. Quarant’anni dopo, con Megalopolis, siamo allo stesso punto?
Apparentemente sì. Non sono uno storico o un antropologo, sono solo un anziano signore che ha superato gli ottant’anni e che vede che l’essere umano ancora non ha capito chi è e quali sono le sue capacità. E questo succede perché alcuni ci hanno deliberatamente costretti a pensare che l’essere umano non sia grande. Viviamo in un tempo artificiale, totalmente inutile.

Megalopolis è il suo modo per dire che invece l’essere umano è grande eccome.
Perché lo è. Quali altre creature possono fare quello che sappiamo fare noi? La risposta che danno sempre è: “I polpi sono intelligenti, e anche gli elefanti, e i maiali, e certi uccelli”. Ma la loro intelligenza è l’un percento, in confronto a quello che può fare l’homo sapiens. Altri ancora rispondono: “Però l’uomo fa cose molto brutte”, ma neanche questo è il punto, quella è un’altra discussione. L’unico nella Storia a dirlo è stato Pico della Mirandola: l’uomo è un essere grande e va ammirato. I Greci hanno inventato la parola hybris, e da lì in poi siamo stati convinti di non poter pensare in grande. Invece siamo grandi, e dobbiamo riconoscercelo.

Da Megalopolis: “L’artista non deve mai perdere il controllo sul tempo”. Il tempo è un’ossessione?
No, è un fatto. Cos’è l’arte? E intendo: ogni arte. La pittura, che sia quella delle caverne o gli affreschi di Giotto, è fermare il tempo. La musica è organizzare il tempo.

E il cinema?
Be’, una delle sue abilità è controllare liberamente il tempo. Andare avanti, tornare indietro. Ma, riprendendo il discorso di prima, il cinema è anche complice di quello che pensiamo dell’essere umano. Mi fa impazzire l’idea che le persone siano state convinte che ci siano eroi con dei superpoteri che possono volare, o Spider-Man che si arrampica sui palazzi con la sua ragnatela. Credono a quelle cose e non accettano che l’essere umano sia un genio: perché è così difficile? Forse perché arrivano puntualmente certi demagoghi a trattare gli esseri umani come animali. Ma nessun essere umano è un animale.

Dustin Hoffman e Francis Ford Coppola sul set di ‘Megalopolis’. Foto: Phil Laruso

Dal 1977, quando è nato il germe di Megalopolis, all’uscita nelle sale. E in mezzo le riscritture, i soldi… Per lei cos’è Megalopolis oggi?
Una visione – la mia visione – piena di speranza e credo anche di logica di un futuro migliore per i nostri figli. Non trattiamo i giovani con rispetto. Non chiediamo loro cosa dovremmo fare del mondo che gli lasceremo in eredità. Diciamo che gli interessa solo TikTok o la droga, e li escludiamo da tutto. Io ho proposto di dare il diritto di voto ai ragazzi di 14 anni, magari solo un quarto di voto, e poi a 16 anni la metà… È come quando da piccoli gli diamo la bicicletta con le rotelle, e piano piano imparano a pedalare. Magari facendo così inizieranno a pensare di essere parte di un processo. Se chiedi a certi ragazzi delle soluzioni per il nostro mondo, rimarrai sorpreso dalle risposte che ti daranno.

Lei è sempre stato curioso in questo senso, ancora adesso sul set lavora con tantissimi tirocinanti.
Ho sempre avuto degli apprendisti, per così dire. In ogni grande cucina ci sono giovani che lavorano come sous chef, ed è un lavoro durissimo. Ma lo fanno perché sanno che lo chef gli dirà: “Quando faccio la salsa metto mezzo uovo, o un po’ di zucchero: questo è il mio segreto”. Quando lavoro con questi ragazzi, se faccio qualcosa gli spiego sempre il perché di quella scelta. Perché so che un giorno lo diranno a quelli più giovani di loro. È così da sempre, come nelle botteghe italiane. Ecco, l’Italia è un posto molto interessante: contiene tutti gli ingredienti buoni e cattivi del mondo concentrati in un solo Paese.

A lei chi ha tramandato i segreti del mestiere?
Una maestra l’ho avuta, l’unica regista donna nella Hollywood degli anni ’30, si chiamava Dorothy Arzner. Mi ha insegnato tutte le cose che poi ho passato ai miei figli, tutto quello che ho insegnato a Sofia è quello che mi ha detto lei.

Per esempio?
Mettersi sempre vicino alla macchina da presa. Non solo perché da lì tu puoi vedere quello che succede, ma anche perché così gli attori ti vedono: loro stanno lavorando per te, e sono più a loro agio quando ti vedono seduto lì, e magari fai un sorriso…

L’ho sentita dire che fare arte senza rischiare è come pensare di fare figli senza fare sesso.
Be’, è così.

E a lei quanto è piaciuto, e piace ancora, rischiare?
A nessuno piace rischiare. Ma penso che nella scala di misura generale diamo troppo valore ai soldi. Non sappiamo neanche cosa sono, i soldi. C’è un bellissimo libro che consiglio sempre: Debito – I primi 5000 anni (di David Graeber, nda). E uno si chiede: “Come ha potuto esistere il debito per 4000 anni, prima cioè che ci fossero i soldi?”. Perché c’era un altro tipo di debito, che è il debito sociale, quella cosa che ti fa dire: “Devo ai miei genitori la vita”. È importante capire cos’è davvero tutto questo per capire cosa sono i soldi. L’economista forse più importante che ci sia mai stato, John Maynard Keynes, diceva: “Tra cent’anni dobbiamo fermare questa crescita incessante”. Lo diceva cent’anni fa, quindi sarebbe ora di fermarsi. Cos’è invece questa perversione della crescita economica? Si parla sempre di GNP, il Gross National Product (il prodotto interno lordo, nda), ma c’è un altro sistema che è l’HDI, ovvero lo Human Development Index (l’indice di sviluppo umano, nda), e lì dentro c’è l’educazione, la mortalità infantile, tutti quei fattori relativi a un altro ambito che è ancora più difficile da indirizzare, e cioè la felicità. Bisognerebbe chiedersi quanto siamo felici, non quanto siamo grandi. Se cresci e basta, produci un sacco di cose che la gente non vuole, e allora serve un’altra cosa, che è il marketing. E cos’è il marketing? Quel trucchetto per dire alle persone che hanno bisogno di cose che in realtà non gli servono.

Francis Ford Coppola e Adam Driver dietro le quinte di ‘Megalopolis’. Foto: Phil Laruso

Megalopolis è anche una risposta a tutto questo.
Ma è una risposta che non si poteva dare alla vecchia maniera. L’industria del cinema, e anche i critici, hanno creato delle regole che non possono essere infrante. Ma chi l’ha detto? Il cinema non esiste senza rischio. Non è la Coca-Cola, che ha una ricetta immutabile: il cinema cambia sempre.

Quanto è cambiato dai tempi della New Hollywood?
Cosa intendi per New Hollywood?

Lo so, anche queste definizioni sono colpa dei critici. Intendo lei, Scorsese, De Palma, quella generazione, quei film…
Sai, eravamo interessanti perché siamo stati la prima generazione cresciuta non solo con i film di Hollywood, ma anche con il cinema internazionale, con gli autori giapponesi, italiani, svedesi, danesi, messicani. Abbiamo avuto una doppia ispirazione: non solo registi come William Wyler e Lewis Milestone, ma anche Antonioni, Rossellini, Kurosawa, Ozu, Dreyer. Hollywood era finita in un vicolo cieco, non sapevano più cosa fare. Avevano fatto Tutti insieme appassionatamente, West Side Story, e adesso? E allora siamo arrivati noi, abbiamo sfruttato quel momento di confusione e abbiamo detto: “Noi sappiamo come fare un nuovo cinema”. E abbiamo fatto quello che abbiamo fatto.

Quali sono i suoi ricordi più vividi di quel periodo? Prima che esplodesse tutto con Il padrino, voglio dire.
C’erano tante persone che mi ispiravano. Stanley Kubrick, che era stato un fotografo. John Frankenheimer. Orson Welles. Mi ricordo di loro, quelli erano i miei eroi.

Sempre da Megalopolis: “Non c’è nulla da temere rispetto al futuro, se ami o hai amato”.
È il potere dell’amore. Nella fisica ci sono tante cose che non capiamo. Non sappiamo esattamente cos’è la gravità. C’è la teoria di Newton, la mela che cade, e la matematica la conferma. Ma c’è anche la relatività di Einstein, che è completamente diversa. Io penso che l’amore sia la vera forza dell’universo, forse è quello che chiamiamo materia oscura, che dicono costituisca tre quarti dell’universo anche se non interagiamo con essa. Io penso che quella materia oscura sia l’amore, che è una cosa molto più grande del dire “Ti amo”, o “Voglio bene a mio padre”, o “Amo i miei figli”. Quel bellissimo film di Nolan, Interstellar, lo esprime molto bene. Lui non parla molto (ride), ma credo volesse dire esattamente questo.

Francis Ford Coppola nel backstage di ‘Megalopolis’. Foto: Phil Laruso

Quest’anno, un mese prima di presentare Megalopolis a Cannes, è morta sua moglie Eleanor, che oltre alla compagna di una vita è stata anche una collaboratrice, una regista, un’autrice. Il film è dedicato a lei. Qual è stata la forza, la gravità del vostro amore?
Sono stato sposato per sessant’anni. Ho lasciato la mia famiglia e cinque anni dopo ero sposato con Eleanor, e i primi anni li abbiamo vissuti in assoluta povertà. Sono stato sposato per tutta la mia vita, e il matrimonio è una cosa complessa. Eleanor è stata senza dubbio la mia migliore amica. Il mio momento preferito con mia moglie era la mattina, quando ci mettevamo a chiacchierare, discutere, scambiarci idee e consigli. Era una persona molto interessante perché aveva una vita sua, e ai miei tempi alle mogli non era concesso di avere una vita, dovevano restare a casa e occuparsi della famiglia. Ora che se n’è andata non ho più quelle mattine in cui mi confrontavo con lei su qualsiasi cosa. È molto difficile andare avanti adesso che non c’è più.

Ricorda la prima cosa che l’ha ispirata?
Direi vedere Biancaneve e i sette nani quando avevo quattro o cinque anni. Trovavo Biancaneve bellissima, la amavo. Ma amavo anche la regina cattiva! Avevo intuito la grande complessità che è alla base di tutte le favole, forse per questo da lì mi sono appassionato alle fiabe, e ho finito per conoscerle tutte, quelle dei fratelli Grimm, di Andersen… All’asilo ero l’idolo di tutti perché sapevo raccontare queste storie, anche se ancora non sapevo leggere.

Anche Megalopolis è una favola, come ha voluto scrivere sotto il titolo.
Non si può dire che è una favola per adulti perché se no sembra un film per adulti, e certamente questo non è un porno (ride). Ma è una favola, sì, come Scarpette rosse o Narciso nero. O Pinocchio, che di sicuro non è una storia solo per bambini.

Ci sono anche le favole legate al cinema, le leggende che ancora vogliamo ascoltare. Lei e i suoi film siete diventati delle leggende, ma per lei sono stati la sua realtà molto terrena: la realtà di fare Il padrino quando aveva trent’anni, e Apocalypse Now quando nessuno voleva produrglielo…
Io non mi considero una leggenda, sono ancora quel bambino di cinque anni che guardava Biancaneve. Ho avuto la fortuna di avere un fratello di cinque anni più grande (August, il padre di Nicolas Cage, nda) che mi portava al cinema a vedere i film che piacevano a lui. Ha avuto una grandissima influenza su di me, volevo essere come lui, che era così creativo, così bravo a scuola, mentre io andavo malissimo… Io penso di essere la stessa persona, lo stesso bambino di allora. Tutti questi premi, questi onori che ricevo mi fanno un enorme piacere, ma io non volevo diventare il singolo che spicca sugli altri, il maestro: volevo solo essere uno dei tanti artisti che amiamo, una parte del grande gruppo che è il cinema.

Francis Ford Coppola con Aubrey Plaza sul set di ‘Megalopolis’. Foto: Phil Laruso

Guardando Megalopolis, sembra di vedere ancora il Coppola che sperimenta, tenta, prova, e sa che può fallire.
Si vede soprattutto il Coppola di Apocalypse Now, direi, quello che non sa che film sta facendo, che per me è una cosa tutt’altro che negativa. Dopo Il padrino avrei potuto continuare per tutta la mia carriera a fare solo gangster movie, sapevo come e cosa ci voleva per farli, e soprattutto che serve un grande cattivo, che è l’elemento più importante. Ma quando giri un film che non sai come fare, come Apocalypse Now, è il film stesso che a un certo punto inizia a parlarti, ti dice proprio: “Mettici un po’ più di questo, un po’ meno di quello…”. E questo è accaduto anche con Megalopolis, che in qualche modo si è fatto da solo, perché io non sapevo come procedere. Continuavo a pensare: come si gira un film che chiede agli spettatori di fare quello che deve fare l’artista, e cioè gettarsi nell’ignoto senza paura (lo dice in italiano, nda)? Chi può farlo, un film così? Io lo faccio, e lo faccio perché non do valore a niente se non al cinema stesso, e non intendo il mio cinema: dico il cinema. Per me il mio cinema è solo parte di tutto il cinema che è esistito prima e che verrà dopo di me, per questo ho tutti questi apprendisti sul set. In una scena di Apocalypse Now ho messo tutti i miei apprendisti di allora, ed erano tutti giovani registi, avevano già fatto o scritto cose. C’era un ragazzo di origine indiana che di cinema ne sapeva molto più di me, ricordo che mi parlava di Fassbinder… Tutti quei ragazzi sono sempre stati importantissimi per me, e lo sono ancora. Oggi devo fare una masterclass, ma io dico sempre che non faccio le masterclass. Le masterclass le hanno chiamate così solo per via di quello spettacolo su Maria Callas (Master Class di Terrence McNally, portato in scena tra le altre da Faye Dunaway, nda), quelle che faccio io sono delle conversazioni da studente a studente. Io non mi considero un maestro ma uno studente, perché il cinema è una cosa troppo grande per poterla insegnare. E ogni volta imparo più dagli studenti di quanto loro non imparino da me.

Cosa le piace del cinema di oggi?
Il fatto che è e resterà una forma d’arte unica, un’arte che esiste solo grazie alla collaborazione tra persone diverse. Se sei Giotto ti siedi e dipingi, il cinema non lo puoi fare da solo. È questa la cosa che amo, perché è quello che dovrebbe essere anche la vita. Siamo tutti una grande famiglia, chiunque sia vivo oggi è mio cugino, tu sei mio cugino. E tutti hanno un talento, del genio da qualche parte. Ci si mette insieme e si lavora, anzi si gioca, che poi è il verbo che noi usiamo per dire “recitare”.

L’ho sentita citare Epicuro: “Non ho paura della morte…”
“… perché quando sei vivo la morte non arriva, e quando la morte arriva non esisti più”. Perciò vuol dire che la morte non la incontrerai mai.

E cos’è per lei?
Per me è simile a quello che eri prima di nascere, forse addirittura la stessa cosa.

È quella misteriosa materia oscura?
Chissà, forse sì. Forse diventi parte di quella grande massa d’amore. Le persone non sanno cos’è l’amore, ma non sanno neanche cos’è la coscienza, e forse sia l’amore che la coscienza stanno lì. Le cose che ci stanno più a cuore non sappiamo cosa sono.

“Non m’interessa quale sarà il mio posto nella Storia”, si sente dire in Megalopolis. Vale anche per lei?
Sai qual è l’unica cosa che ha valore per me? Quando un giovane artista che ha fatto qualcosa di bello dice che si è interessato al cinema per qualcosa che ho fatto io. Ecco, quello per me è il riconoscimento più grande. Se prendono delle idee da te e da quelle idee traggono ispirazione, allora verrà fuori qualcosa di nuovo, e questo è bellissimo. Non dobbiamo seguire quelle formule che ti dicono: il cinema dev’essere questo, l’arte dev’essere quest’altro. Ogni volta che dicono cosa dev’essere l’arte, arriva qualcuno che rompe le regole, e noi è lui che seguiamo: capiamo che non vogliamo i dipinti dell’Accademia Francese ma i quadri di Matisse, e di quelli che come lui infrangono le regole. Perché? Perché l’arte è una cosa viva, che cambia in continuazione. Adesso nel cinema l’unica preoccupazione è pagare i debiti. Non importa se si fa lo stesso film dieci volte di fila, l’importante è pagare i debiti.

Francis Ford Coppola sul set di ‘Megalopolis’. Foto: Phil Laruso

Lei di regole ne ha infrante parecchie, direi.
Totalmente. Per questo così tante persone sperano nel mio fallimento. Lo vedi questo sentimento che c’è nei confronti di Megalopolis, anche da prima che uscisse? “Sarà un flop clamoroso”, si auguravano. Perché infrange le regole che in tanti non vogliono vedere messe in discussione.

Però, in fondo, tutti la amano.
Lo spero, perché io voglio bene a tutti e sono gentile con tutti, e forse questa cosa poi ti torna indietro. Ma non so se tutti mi amano. Lo sai perché Apocalypse Now è di mia proprietà? Perché nessuno lo voleva. Quando l’ho fatto avevo vinto cinque Oscar e diretto film di grandissimo successo, e comunque non volevano che lo girassi. Se non potevo fare un film del genere allora, quando avevo tutto quel successo, figuriamoci adesso. Sono rimasto quattordici anni senza girare film, e nel frattempo ho fatto un sacco di ricerca sulla recitazione… E adesso che Megalopolis è uscito alcuni lo amano, altri lo odiano, ma la reazione generale è un po’ più la seconda, ma mi va bene così, perché mette comunque in circolo dell’energia.

In tanti dicono che se lo rivedremo fra qualche anno, Megalopolis sarà un film diverso.
Sarà diverso di sicuro, perché è pieno di cose. È come Apocalypse Now, se lo rivedi adesso ci troverai molti più livelli. E all’epoca quel film ebbe la stessa accoglienza, moltissimi l’hanno odiato. Poi però hanno continuato a proiettarlo, e lo fanno ancora adesso, cinquant’anni dopo…

Elia Kazan le ha insegnato che ogni film deve poter essere sintetizzato con una sola parola. La parola, una sola, per sintetizzare la sua vita e la sua carriera quale sarebbe?
Penso che sarebbe: “amore”. Sì, solo l’amore.

Iscriviti