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Pablo Trincia racconta Rigopiano: «In questi anni ho imparato che nulla ti fa star male come la mancata giustizia»

Arriva su Sky ‘E poi il silenzio’, l’ultima docuserie del “poeta maledetto del podcast”. Lo abbiamo incontrato per capire come fa a trovare la giusta distanza quando affronta tragedie come questa. E perché lui e la sua voce sono ormai diventati un brand

Foto: Sky

La superstar dei podcast. The King of Spotify. E ci sta, per carità, perché se è vero che un podcast ormai non lo si nega più a nessuno, solo Pablo Trincia macina quei numeri da capogiro. La sua voce è un marchio di fabbrica, i suoi lavori una tappa esistenziale per qualsiasi iniziato allo streaming audio. Tuttavia, questa è solo una parte del fenomeno Trincia: al di là del cumulo di click, like e binge audio compulsivi, c’è quel nome, Pablo, che spiega molte più cose dell’algoritmo. Sua madre lo scelse perché amava il poeta Neruda: era una sorta di omaggio artistico. Di buon augurio. O forse una piccola profezia. Perché quelle che Trincia propone come storie sono delle poesie nere, intinte nella tragedia greca e nei fiori del male di Baudelaire. E lui è il poeta maledetto del podcast.

Se piace così tanto, è perché fa cronaca cercando il passo della narrazione cinematografica e la ritmica della metrica. Silenzi compresi. Anzi, soprattutto quelli. Va a caccia di ingiustizie (l’ultima è la tragedia di Rigopiano, sviscerata nella docuserie E poi il silenzio – Il disastro di Rigopiano, in onda dal 20 novembre su Sky TG24, Sky Documentaries, Sky Crime e in streaming su NOW), le chiama con il proprio nome e restituisce alle vittime ciò che spetta loro: la propria voce. Forse anche per questo è un accanito studioso di lingue: parla persiano, tedesco, inglese, spagnolo, francese, portoghese e svariati idiomi africani. Adesso è in fissa con il sumerico («È un viaggio nel genere umano»). Parla la lingua di tutti. Come nessun altro sa fare.

Oggi punti i riflettori sulla tragedia di Rigopiano, ma prima ancora ci sono stati i podcast Veleno, Dove nessuno guarda e Il dito di Dio, dove hai parlato rispettivamente dell’inchiesta dei diavoli della Bassa Modenese, dell’omicidio di Elisa Claps e del naufragio della Concordia. Hai chiaramente una grande sete di giustizia. Il tuo è più un tentativo disperato, o conti di poter (e dover) fare la differenza?
Ho sempre cercato storie di ingiustizia o di mancata giustizia, probabilmente per via della storia di mio nonno, che, negli anni ’80, fu incarcerato in Iran per le sue idee politiche. Era un uomo straordinario: un poeta, un intellettuale e uno scrittore. Il suo arresto e poi la sua morte hanno segnato la mia vita. Probabilmente la fascinazione per il tema della giustizia sociale nasce da lì. Tuttavia, ho smesso da tempo di credere di poter fare la differenza. L’ho capito quando, a 32-33 anni, ho iniziato a lavorare per Le iene: un sacco di gente si rivolgeva a noi, dicendo “Siete la nostra unica speranza”. Noi andavamo, li aiutavamo, scoperchiavamo dei casi clamorosi, dove ti aspettavi che venissero presi provvedimenti, invece… niente. Non succedeva praticamente mai. Tutto restava come prima. Mi ricordo, per esempio, che uno dei miei primi casi fu quello di una ragazza minorenne molestata dal suo psichiatra. Eravamo riusciti a incastrarlo: lui aveva confessato e lei aveva registrato tutto, quindi non c’erano dubbi su come fossero andate le cose. A quel punto pensai: “Ok, questo ha finito di lavorare”. Invece fu solo sospeso e, dopo un po’, ha ripreso a esercitare. Lì ho iniziato a capire che è raro vedere una giustizia vera, ed è quello che poi mi ha depresso nel corso degli anni. Nella mia carriera ho incontrato persone che hanno subìto la qualunque, dalla morte del figlio – che considero il lutto più pesante – in giù, ma non c’è nulla che ti fa star male come la mancata giustizia: è una consapevolezza che ti devasta, quasi più del dolore.

Però tu non molli. Della serie: se succede, non sarà in mio nome.
Non voglio essere una pecora, questo è certo. E poi sono convinto che le storie abbiano un potere terapeutico sia per chi le ascolta sia per chi ne è stato realmente protagonista. Creano empatia, ti elevano, promuovono la conoscenza. Ed è fondamentale, perché se perdiamo queste cose perdiamo anche la speranza, e a quel punto si smetterebbe di vivere: si vegeta.

Pablo Trincia con la co-autrice Debora Campanella nel giorno della commemorazione della tragedia di Rigopiano. Foto: Sky

Quindi, quando hai definito la tragedia di Rigopiano “la moderna Pompei di montagna, ma anche un monito”, non ti stavi rivolgendo ai giudici che il 27 novembre si riuniranno presso la Corte Suprema per discutere del ricorso sulla sentenza di secondo grado?
No. Per quel poco che ho visto nella mia esperienza personale, poco e niente influenzano i giudici. Il loro è un mondo a sé, regolato da dinamiche diverse dalle nostre, che hanno a che vedere con le tempistiche, con cosa è dimostrabile e cosa no. Semmai è un monito per noi: viviamo in un’epoca segnata dal riscaldamento globale dove la situazione andrà via via sempre peggio. Lo abbiamo visto in Emilia-Romagna, in Spagna… Chi occupa posizioni politiche e amministrative deve ricordarsi che la sicurezza delle persone deve venire prima di qualunque altra priorità. Per esempio, una carta valanghe può essere costosa o esporre a critiche politiche, ma è determinante per salvare vite umane.

Tua mamma è iraniana: un commento sull’attuale scenario internazionale?
Gaza ormai è una macelleria. Quanto alle altre aree del mondo, non sono e non sarò mai fan dell’Iran perché il regime islamico mi ha portato via un pezzo di famiglia, però la responsabilità di Israele, in tutto quello che sta accadendo negli ultimi mesi, è centrale. Ormai ci siamo ridotti a un bombarda tutti e ammazza tutti. Questo non farà altro che creare più odio, più tensioni, più lanci di missili…

Nella docuserie dici che “superficialità, ignoranza, negligenza e arroganza sono fiocchi di neve che, se si uniscono, diventano una valanga”. Visti i requisiti necessari, l’Italia si candida a patria delle valanghe?
Diciamo che non ci facciamo mancare nulla, però non sono tra quelli che dicono: “In Svezia si vive meglio”. Superficialità, ignoranza, negligenza e arroganza abbondano ovunque: basta vedere quello che succede in America. Nel caso specifico di Rigopiano, la valanga è politica ed è incominciata 25 anni prima: siamo stati noi a non fermarla.

Una scena della docuserie. Foto: Sky

Spesso nei podcast resti zitto, prendendoti delle pause anche lunghe. Il silenzio è una dimensione che andrebbe recuperata nel flusso, continuo e martellante, della comunicazione moderna?
La narrazione è l’arte dell’utilizzo dei silenzi: sono le pause che ti permettono di prenderti quel tempo per assorbire, per respirare, per capire. Se le ometto, finisce che ti bombardo di informazioni che ti rimbalzano addosso e la tua mente e il tuo corpo non recepiscono nulla. I mezzi di comunicazione dovrebbero concedersi degli attimi di riflessione e di silenzio. Ogni tanto una pagina bianca non guasterebbe in un giornale. So che è anti-economico, ma dopo aver parlato di un femminicidio o di un genocidio o di qualcosa di molto importante che riguarda l’ambiente, una pagina bianca sottolineerebbe ancora di più quello che è stato appena raccontato.

Quando si parla di cronaca nera, il confine tra fascinazione e diritto di cronaca, curiosità e morbosità è sempre molto labile. Nelle tue inchieste c’è una cosa che fai sempre, e una che invece non fai mai, per riuscire a mantenere distinti tali confini?
Mi limito a essere me stesso. Quando per esempio si va a intervistare qualcuno che ha perso una persona cara, ci sono le classiche domande rubinetto come: “Ti manca?”. Ecco, quelle non le faccio mai: sono le domande che pone il giornalista insicuro, che ha bisogno delle lacrime per far funzionare il servizio. Io invece mi relaziono come farei con una persona cara: cerco di avere rispetto, di usare tatto. Ci sono poi colleghi che vanno sullo splatter, affondando nella “carne”: devono farsi la doccia nel dolore. A me tutto questo non interessa. In tal senso Le iene è stato una palestra fondamentale: la prima cosa che ti insegnano è dare del tu alle storie e alla vita, cercare di creare empatia.

Pablo Trincia insieme a uno dei testimoni intervistati per il podcast e la docuserie. Foto: Sky

Non mi sembra però che brillino per tatto e sensibilità…
Dipende dai servizi. Giulio Golia o Marco Berry trattano le persone con molta empatia e vicinanza. Quando dico “dare del tu” alle storie intendo che non vai lì con l’idea che tu sei il giornalista che sta sopra di loro e si pone con un certo distacco. La vicinanza umana deve sempre esserci e non toglie nulla alla professionalità: alla fine siamo prima di tutto due esseri umani davanti a una telecamera, chi se ne frega dei ruoli.

Ti senti un po’ il poeta maledetto del podcast?
Questa tua definizione mi piace un sacco: me la rivenderò sicuro al primo incontro pubblico, con copyright D’Angelo. Da bambino ho letto tantissime poesie, soprattutto di Neruda. Dalla poesia ho sicuramente preso l’attenzione alla metrica e alle parole essenziali: i versi insegnano la sintesi, a racchiudere tutto in una riga, in una metafora. Pur parlando di cronaca rifuggo il mero linguaggio giornalistico.

Jennifer Lopez si è fatta assicurare il suo lato B. Pensi di fare altrettanto con la tua voce, ormai iconica?
Ma sai che mi hai dato un’idea? In questi tempi di Intelligenza Artificiale, meglio se la brevetto.

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