Pedro Pascal, giù l’elmo
Il cinema come strumento per assorbire la cultura pop americana, il sogno ad occhi aperti di ‘Game of Thrones’ e ‘Narcos’, il futuro da villain Eighties di ‘Wonder Woman 1984’. Nella serie di 'Star Wars', l’attore di origine cilena si carica sulle spalle il peso di un franchise colossale senza mai nemmeno mostrare il volto. Ma non è ancora convinto di avercela fatta davvero
Foto: Beau Grealy per 'Variety'
Quando Pedro Pascal aveva più o meno quattro anni, la sua famiglia lo portò al cinema a vedere Superman, il kolossal del 1978 con Christopher Reeve. I genitori di Pascal si erano trasferiti, ancora giovani, a San Antonio, dopo essere fuggiti dal loro Paese natale, il Cile, a causa della salita al potere del dittatore Augusto Pinochet nella metà degli anni ’70. Portare Pedro e la sorella maggiore al cinema – spesso anche più di una volta alla settimana – era diventato una sorta di rito di famiglia, un modo per assorbire più cultura pop americana possibile. A un certo punto di quella serata, Pascal dovette andare in bagno, e i suoi genitori lo lasciarono andare da solo. «Non avevo ancora imparato a leggere bene», dice Pascal con quel ghigno da Stregatto che ha conquistato i fan di Game of Thrones, quando vestiva i panni dell’astuto (ma destinato alla sconfitta) Oberyn Martel. «Non sono più riuscito a tornare nella sala in cui davano Superman».
Il piccolo Pedro si ritrovò dunque in un’altra sala. Oggi è convinto che il film proiettato lì fosse Kramer contro Kramer: ma, appunto, aveva solo quattro anni. Disorientato e spaventato, si sedette in una poltrona vuota e si addormentò. Quando si svegliò, il film era finito, la sala era vuota, e i suoi genitori erano in piedi davanti a lui. Sembravano sorprendentemente calmi, ma è un altro il dettaglio che oggi colpisce di più. «Avevano finito tranquillamente di vedere il loro film», dice, scoppiando in una risata. «Mia sorella cercava di provocarmi urlando: “È successo questo, e poi quello, e poi Superman ha fatto quest’altra cosa, e poi c’è stato il terremoto, e il pianeta è andato in tilt…”». Di fronte a un simile sfottò, Pascal fece la cosa che gli sembrava più logica: «Ho detto: “È successo anche nel mio film”».
All’epoca naturalmente non poteva saperlo, ma più di quarant’anni dopo Pascal ha avuto l’occasione di prendere parte a un film su un supereroe DC Comics (per non parlare della battaglia contro gli Stormtroopers e dello scontro con uno dei più formidabili guerrieri di Westeros). Dopo il successo di Game of Thrones, è diventato il volto che tutti volevano, meglio ancora se nella parte dell’uomo d’azione risoluto ma taciturno: vedi le tre stagioni di Narcos, su Netflix, in cui dava la caccia ai narcotrafficanti, e The Equalizer 2, in cui si confrontava con Denzel Washington.
È però questo l’anno in cui Pascal si trova di fronte al passaggio cruciale della sua carriera, al momento che forse aspettava da una vita. Il 30 ottobre tornerà nella seconda stagione di The Mandalorian, la serie di Disney+ spin-off di Star Wars che ha ottenuto 15 nomination agli ultimi Emmy, tra cui quella per la migliore serie drammatica. E il giorno di Natale (in Italia il 14 gennaio 2021, ndt) – Covid permettendo – presterà il volto al perfetto cattivo dei fumetti Maxwell Lord in Wonder Woman 1984, accanto a Gal Gadot, Chris Pine e Kristen Wiig. I due ruoli sono diversissimi tra loro, ma proprio per questo capaci insieme di mostrare il talento così versatile di Pascal. In The Mandalorian deve nascondere la sua faccia – e, in alcuni episodi, l’intero corpo –, tanto da regalare una performance contenuta e minimalista, per non dire quasi ascetica. In Wonder Woman 1984, invece, tratteggia uno di quei villain eccessivi che popolavano i filmoni di quando eravamo bambini. «Il fatto che gli diano così spesso il ruolo del tipo serioso continua a stupirmi», osserva la regista di Wonder Woman 1984 Patty Jenkins. «Pedro è una delle persone più affascinanti che abbia mai conosciuto. È quello che vorresti sempre intorno, quello con cui hai subito voglia di attaccare bottone, con cui vorresti passare ogni serata».
Provate a parlare con Pascal anche solo per cinque minuti – persino quando sta correndo in macchina a fare le ultime commissioni prima di imbarcarsi su un volo per Budapest, direzione: un set con Nicolas Cage – e capirete subito quel che intende Jenkins. Prima che la nostra intervista cominci davvero, Pascal mi fa notare, via Zoom, che il mio cane gli sta leccando le parti basse sullo schermo. «Non lo fermare!», dice. «Lasciagli vivere la sua vita!». Nel corso delle nostre tre chiacchierate complessive, diventerà anche chiaro come l’umorismo di Pascal sia stato al tempo stesso il modo per reagire alle difficoltà, ma anche il motivo per cui fa ancora fatica a metabolizzare un successo così sospirato.
Prima ancora che Pascal sapesse qualcosa di The Mandalorian, lo showrunner e produttore della serie Jon Favreau lo aveva già scelto come protagonista. «Fa l’effetto di una star del cinema d’altri tempi, per il suo fascino e il suo stile di recitazione», sostiene Favreau. «E sembra anche uno di quelli che prendono il lavoro molto sul serio». Favreau sentiva che Pascal possedeva il carisma e la capacità necessari e mettere a segno un personaggio – Din Djarin, ma quasi tutti lo chiamano Mando – che passa tutto il tempo con un elmetto in testa, come da protocollo dei mandaloriani. Convincere qualsiasi attore a nascondere il suo volto per tutta la durata di una serie sarebbe stato un’impresa impossibile. Per convincere Pascal fin dal loro primo incontro, Favreau l’ha portato dietro le quinte di The Mandalorian, in una stanza piena zeppa di tutti gli storyboard della prima stagione. «Non appena è entrato, gli è sembrato tutto piuttosto surreale», dice Favreau. «Di solito un attore non sa se quello che gli viene proposto è un ruolo giusto per lui e se ha senso prendere parte in quella produzione. In questo caso, era già tutto preparato nei minimi dettagli». Il piano ovviamente ha funzionato. «Non voglio passare per quello che si considera molto sveglio, ma ho accettato di fare questa serie perché l’impressione che ho avuto, quando ho incontrato Jon la prima volta, è che sarebbe stata davvero una figata», dice Pascal sorridendo.
La determinazione di Favreau di avere Pascal nel cast ha messo l’attore in una situazione spiacevole. Gli impegni già presi da Pascal – il set di Wonder Woman 1984 a Londra e una nuova versione di Re Lear a Broadway accanto a Glenda Jackson – si scontravano col calendario di produzione di The Mandalorian. Alcune sequenze della serie – e addirittura un intero episodio – hanno dunque approfittato dell’anonimità del personaggio principale più di quanto non fosse già stato previsto, con due stuntmen – Brendan Wayne e Lateef Crowder – a “interpretarlo” sul set e Pascal a doppiare i dialoghi molti mesi più tardi. A Pascal era già stato chiesto di nascondere il viso, uno degli strumenti fondamentali nel mestiere di un attore e cosa mai successa prima, per una star a cui veniva chiesto di caricarsi sulle spalle il peso di un franchise così colossale (immaginate Robert Downey Jr. che recita nei panni di Iron Man indossando una maschera per tutto il tempo: non ce la fate, vero?). Ora doveva lasciare anche il corpo di Mando in mani altrui. Alcuni colleghi se ne sarebbero andati sbattendo la porta. Pascal non l’ha fatto.
«Se ci fossero state più scene da girare in questo modo, e non solo un paio di pagine del copione, mi sarei sentito forse a disagio, nel lasciare tutto ad altri», dice lui. «Ma si è rivelato tutto molto più pratico. Quando hai a che fare con una produzione così grossa, ti senti un semplice passeggero: vai dove tutti gli altri ti portano. Voglio dire: è Star Wars. Sei un ingranaggio di una macchina più grande di te». (Pascal dice di essere stato molto più presente sul set della seconda stagione, anche se ha lasciato spesso la scena agli stuntmen di Mando.) The Mandalorian è stato davvero “una figata”, ha contribuito al lancio di Disney+ e a far guadagnare alla piattaforma 26.5 milioni di iscritti nelle sue prime sei settimane. Considerato che i film di Star Wars sono “congelati” fino al 2023 (almeno), gli faccio notare che al momento è il volto dell’unico grande franchise pop globale. Pascal non può fare a meno di alzare gli occhi al cielo. «Eddai, non mi si vede neanche in faccia!», dice con una risata un po’ forzata. «Se dici “Sei la sagoma di un grande franchise”, allora ci sto». Fa una pausa. «Possiamo smettere di parlare di questo e parlare solo del Bambino?».
Ah, certo, il Bambino. O, come lo chiama il resto della galassia, Baby Yoda. Pascal ha visto per la prima volta quell’adorabile creaturina durante l’incontro con Favreau, quando lui gli ha mostrato gli storyboard. «I miei occhi correvano di qua e di là e poi, boom!, sono arrivati alla fine del primo episodio: ed ecco Baby Yoda», ricorda. «E allora ho detto: “Vabbè, avete vinto tutto!”». Baby Yoda è senza dubbio la vera star di The Mandalorian, ha ispirato un’infinità di meme e persino un finto torneo di basket. Ma la serie non avrebbe funzionato se gli sceneggiatori non avessero dato spazio all’evoluzione emotiva di Mando, e alla connessione che stabilisce fin dall’inizio col Bambino. «È lui a portare avanti l’arco psicologico di quella relazione», osserva lo showrunner. «Sono le sue emozioni a farci ripensare a quel momento per tutto il corso della serie». (Come sempre accade con Star Wars, tutte le questioni più specifiche sono censurate per volontà dell’Ordine Galattico degli Spoiler.)
Anche se Pascal non è sempre “dentro” il corpo di Mando, non lascia mai il personaggio, è sempre consapevole del fatto che questo mercenario che viaggia di pianeta in pianeta osserva con sospetto anche ciò che sembra troppo bello (e troppo tenero) per essere vero. «Che tutto possa essere effimero o precario è una cosa che mi è molto familiare, sai?», dice. «Per me non è stato difficile capire che sotto quell’armatura c’è una grande complessità». Quando Pascal aveva quattro mesi, i genitori lo portarono a vivere insieme alla sorella da una zia, così da potersi nascondere ed evitare di essere arrestati in quanto oppositori del regime di Pinochet. Dopo sei mesi, riuscirono finalmente a scavalcare il cancello dell’ambasciata del Venezuela e a chiedere asilo politico; da lì la famiglia venne rilocata, prima in Danimarca e poi a San Antonio, dove il padre di Pascal trovò lavoro come fisico. Pascal era troppo piccolo per ricordarlo e, per gran parte della sua infanzia, il suo tormentato passato cileno rappresentò quasi una vita parallela rispetto a quella negli Stati Uniti: strade separate, ma ugualmente importanti, che non si sono mai davvero incrociate. Quando Pascal aveva otto anni, la sua famiglia poté finalmente fare un viaggio in Cile, e Pedro poté conoscere i suoi 34 cugini. Ma di tutto questo non parlò mai con i suoi amici americani. «Non mi ero mai reso conto che i miei avevano un accento straniero finché un mio compagno non mi chiese: “Perché tua madre parla così?”. Ricordo di aver pensato: “Così come?”». Nonostante questo, amava la sua vita a San Antonio. Se lui e sua sorella avevano fatto tutti i compiti, il padre li portava a vedere le partite degli Spurs. E Pedro disse una bugia a sua madre pur di andare a vedere Poltergeist nel multisala vicino casa. Guardava tutto quello che passava sulla tv via cavo: lo speciale HBO di Whoopi Goldberg registrato a Broadway fu un colpo. E ricorda che, quando vide Henry Thomas in E.T. – L’extra-terrestre e Christian Bale nell’Impero del sole, pensò che anche lui avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di finire dentro una di quelle storie.
Poi suo padre trovò lavoro in California, a Orange County. Si traferirono lì quando Pascal finì le elementari, e fu uno choc. «Furono due anni davvero tosti», confessa. «Venivo bullizzato in continuazione». Sua madre trovò una scuola superiore specializzata in arti drammatiche, e Pascal si rifugiò ancora di più nelle sue ossessioni, divorando qualsiasi pièce o film gli capitasse sottomano. Durante l’ultimo anno, un’amica di sua madre regalò a Pascal il suo biglietto per uno spettacolo in due parti in scena a Los Angeles, al quale lei non sarebbe riuscita ad andare. Quello spettacolo era Angels in America. «Mi ha trasformato», dice in tono quasi mistico. «Mi ha totalmente trasformato». Dopo aver studiato alla Tisch School of the Arts di New York, Pascal è finito dentro una serie di produzioni di successo, da Undressed su MTV a Buffy l’ammazzavampiri. Ma la morte improvvisa di sua madre – alla quale era stato permesso di rientrare in Cile solo pochi anni prima – mise un freno alla corsa di Pedro. Finì col perdere il suo agente, e la sua carriera si ritrovò in una fase di stallo completo. Come omaggio a lei, decise di cambiare il cognome da Balmaceda, quello del padre, a Pascal, quello della madre. «E anche perché gli americani facevano sempre fatica a pronunciare Balmaceda: non ne potevo più». Pensò anche di cambiare Pedro in Alexander, in omaggio a Fanny e Alexander di Ingmar Bergman, uno dei film più importanti per la sua formazione. «Avrei fatto qualsiasi cosa pur di lavorare di più», rivela. «E se a non convincere le persone che facevano i casting era il nome Pedro, sarei stato pure disposto a cambiarlo. Ma non funzionò».
Fu un periodo orribile per Pascal. Riuscì ad ottenere una particina in un episodio di Law & Order, ma perlopiù tirava a campare insieme ai suoi amici della scena teatrale newyorkese. Come Oscar Isaac, che conobbe in uno spettacolo Off Broadway. I due diventarono presto amici fraterni, condividevano le stesse passioni e le stesse frustrazioni. «Pian piano le cose cominciarono ad andare meglio, ma il più delle volte venivamo scelti in ruoli molto connotati solo perché eravamo latinos», dice Isaac. «In quante altre gang di strada mi chiederanno di finire ancora sullo schermo?». Come accade a moltissimi colleghi, fare il lavoro che avevano sognato fin da quando erano bambini era superato dalle necessità della vita di tutti i giorni. «Il vero sogno era riuscire a pagarsi l’affitto», aggiunge Isaac. «Non c’era nessuna strategia. Ci arrabattavamo come potevamo, e basta. Fare quello che più ci piaceva sembrava un’impresa insormontabile».
Come invece accade a pochissimi colleghi, quel sogno cominciò a prendere vita quando un’altra amica comune carissima, Sarah Paulson, girò alla sua amica Amanda Peet, moglie del co-ideatore di Game of Thrones David Benioff, il provino di Pascal per la parte di Oberyn Martell. «Era un provino-selfie registrato su un iPhone, il che era piuttosto insolito», ricorda Benioff. «E non era uno di quei nuovi iPhone con l’obiettivo strafigo. Era davvero una merda: girato in verticale, molto grezzo. Tranne che per la performance, che era intensa, credibile, perfetta». In un batter d’occhio, Pascal si ritrovò a Belfast, seduto nella sala del trono della Fortezza Rossa nei panni di uno dei giudici convocati per il processo contro Tyrion Lannister per l’omicidio di re Joffrey. «Ero tra Charles Dance e Lena Headey, con una visuale incredibile su tutto quel cazzo di set», dice Pascal con gli occhi che brillano anche solo a ricordare quella scena. «Non potevo credere di essere lì in mezzo, e senza nemmeno un costume scomodo addosso. Ero semplicemente seduto lì, con di fronte tutto quello». Sospira. «Era come vedermi davanti ciò che avevo immaginato fin da bambino e che, fino a quel momento, mi ero convinto non sarebbe mai successo». E invece, da lì, è successo tutto.
All’inizio del 2018, mentre Pascal era alle Hawaii sul set del thriller prodotto da Netflix Triple Frontier accanto al vecchio amico Oscar Isaac, ricevette una telefonata dal produttore Charles Roven, il quale gli disse che Patty Jenkins voleva incontrarlo a Londra per parlare di un ruolo in un film a cui anche lui stava lavorando: Wonder Woman 1984. «Era un’offerta della madonna», dice Pascal ancora incredulo. «Non potevo credere che Patty volesse parlarmi di una parte da propormi, e non di un ruolo che ero stato io a cercare a tutti i costi. Non ero ancora pronto a tutto ciò». Pascal aveva già girato con Jenkins l’episodio pilota di una serie che non andò mai in onda, realizzata poco prima della chiamata sul set di Game of Thrones. «Ho lavorato con Patty tre giorni, e quando ho finito ho pensato che non ci saremmo mai più rivisti. Non potevo credere al fatto che lei ancora si ricordasse di me». Invece si ricordava benissimo. «Avevo lavorato con lui, dunque lo conoscevo già», dice Jenkins. «Non doveva dimostrarmi più niente. Mi piaceva il suo modo di fare e di lavorare, e in più mi sembrava un casting inaspettato, perché non ha l’aria del classico cattivo». Nell’interpretazione di Jenkins, Max Lord – uno storico personaggio DC Comics che ha una relazione piuttosto intricata con Wonder Woman – è un magnate viscido e mitomane con il vizio della manipolazione e un sottofondo di sincero pathos. È il genere di personaggio larger than life che a Pascal non era mai stato offerto, perciò ha fatto qualcosa di totalmente non ortodosso: ha trasformato il copione in una specie di album di scarabocchi pop-art, l’ha riempito di immagini fotocopiate del Max Lord originale e poi ha manipolato quelle stesse immagini secondo una lente del tutto personale.
Le pagine che Pascal mi mostra via Zoom sono già piuttosto rivelatrici. Una, in cui si vede Max con uno smoking elegante e il solito viscidissimo ghigno, è cosparsa di buchi, di cui uno sull’occhio del personaggio. Su un’altra pagina c’è Max contornato da balloon dentro cui Pascal ha scritto fitto fitto, con una calligrafia minuscola: «Sei un fottutissimo pezzo di merda!». «È come se questa cosa mi avesse risvegliato», dice. «Mi sembra il modo più pratico per mettermi nei suoi panni. Invece di tornare a casa e piazzarmi davanti a Netflix, provo a capire come entrare fisicamente nel personaggio. Mi metto a scarabocchiare e ci penso su». Jenkins è così entusiasta della performance di Pascal che pensa potrebbe far esplodere la sua carriera nello stesso modo in cui nel 2003 Monster, sempre diretto da lei, ha cambiato la traiettoria di Charlize Theron. «Non lo avrei mai preso per la parte dell’eroe solido e imperturbabile», dice Jenkins. «Quelli che hanno in mente il Pedro di Narcos in Wonder Woman potrebbero quasi non riconoscerlo. Non sembra la stessa persona. Ma penso che proprio questo potrebbe cambiare il suo destino».
Quando il pubblico potrà vedere Wonder Woman 1984 rimane un mistero, visto il caos che la pandemia ha generato a Hollywood. Sia Pascal sia Jenkins sperano che il 25 dicembre resti la data d’uscita confermata, ma nulla è sicuro. Forse è per via dell’incertezza generale, o forse è perché ha passato una vita intera lontano dal sogno che ora sta vivendo, ma Pascal non condivide lo stesso ottimismo di Jenkins. Non crede che Wonder Woman 1984 potrà aprirgli molte altre porte. «Una cosa come questa non accadrà mai più», dice sospirando. «È stata unica». Dopo tutto quello che ha fatto in così pochi anni, perché Pascal non vede tanti altri ruoli all’orizzonte? «Non lo so!», urla alla fine, in modo quasi liberatorio. «Forse mi sto solo proteggendo psicologicamente. È tutto troppo bello per essere vero».
Questa intervista è stata pubblicata su Variety
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