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Per non sentire il peso delle aspettative Colapesce e Dimartino hanno fatto un film

Un po' 'Non ci resta che piangere', un po' 'Get Back', esce in sala per tre giorni (20, 21 e 22 febbraio) 'La primavera della mia vita' di Zavvo Nicolosi starring il duo canoro. Che diventa anche cinematografico (vedere la clip in esclusiva per credere)

Foto: Vision Distribution

La primavera della mia vita, che in lavorazione aveva un titolo sublime e per pochi (Mandorlo amaro), è una di quelle opere che se la leggi come news su un sito pensi che possa essere una follia autolesionista per chi la mette in scena e che poi, invece, te la ritrovi davanti e non puoi non adorarla. Per un motivo semplicissimo: quello che a te sembra una paracula operazione di marketing – per la serie “del successo non si butta via niente”, e probabilmente c’è pure questa dinamica, perché è anche giusto così – diventa un’operazione raffinata e divertentissima, (in)dolente e pazza. E il segreto è in quel duo stralunato e ironico, con la faccia un po’ così di chi in fondo sa e può far tutto, ma così a suo agio non si trova da nessuna parte. Di chi, come gli indiani “contrari”, gli heyoka, fa e dice le cose giuste prendendo strade contromano. I videopodcast da Sanremo, fin da Musica leggerissima, già avevano raccontato al grande pubblico che i due, come attori e commedianti, nel senso più letterale e storico del termine, avessero un gran talento.

Meno potevamo immaginare che potessero tirar fuori, con pretese minori e dovute proporzioni, un Non ci resta che piangere un po’ “Sicilia coast to coast” e un po’ Get Back. «Va sottolineata una cosa a cui teniamo: l’idea del film nasce prima del successo musicale, arriva durante il lockdown, e anche se ci sono state collaborazioni fondamentali come quella dello sceneggiatore Michele Astori, che ha preso le nostre idee confuse e ha dato loro una forma, e poi ovviamente di Zavvo (Nicolosi, il regista, nda), abbiamo avuto un controllo totale, dalla sceneggiatura alle musiche». Splash: dopo averlo detto, si sente il buco nell’acqua di chi già malignava su un film ovviamente ancora non visto.

Foto: Vision Distribution

«Nella Primavera della mia vita ci sono diversi piani di lettura», sottolinea Lorenzo Urciullo, in arte Colapesce. «Anche quello di posizionamento, dal mio personaggio che vuole fare i soldi, vuole il pop, vuole vendersi, e Antonio che fa quello fricchettone, duro e puro. E poi il road movie è una grandissima opportunità per raccontare una Sicilia diversa, psichedelica, a metà tra Jodorowsky e Franco e Ciccio». Con dentro pure Byrne e Wenders: anche grazie al lavoro di Zavvo Nicolosi, di fatto il terzo affatto incomodo della coppia (collaborano da dieci anni), le suggestioni sono tante e tutte centrate. Citazioni, ispirazioni appoggiate con lieve raffinatezza, la stessa con cui probabilmente i due, investiti da un successo inaspettato, lo esorcizzano in un’opera bizzarra e tenera, un apologo sull’amicizia, sul sodalizio artistico, sulla bellezza. «Sì, è un film che esorcizza molte paure», confessa Dimartino, Antonio. «Parla di personaggi che si chiedono quale sia il loro posto nel mondo e così viene messo in discussione tutto, l’uomo e l’artista, e sì, pure il nostro rapporto personale e creativo. Che, ricordiamolo, è basato sulla sfiducia».

«E comunque: magari Get Back», interviene di nuovo il sodale, «è uno dei nostri documentari preferiti degli ultimi anni, un capolavoro assoluto pieno di aneddoti, senti l’intimità del talento e della loro visione del futuro, è qualcosa di unico». Ma nella Primavera della mia vita manca una Yoko Ono, sebbene nel film non si racconti la fine di un gruppo, ma una riconciliazione. Il film racconta proprio questo: i due in piena tournée si sono lasciati, Antonio dopo una lite è sparito per poi unirsi a una setta – “Cu minchia sugno i semeniti?!” (perdonatemi, siciliani, per la pessima resa del vostro meraviglioso dialetto, che era pure quello del mio adorato nonno Manlio, nda) – che ora dà loro l’opportunità di ripartire da un progetto passato, un piccolo sogno dimenticato, un libro sulle leggende siciliane, da ultimare però in pochi giorni. Meno di quelli a disposizione dei Beatles per il loro ultimo spettacolo.

«La mia Yoko Ono è Lorenzo, le altre le allontaniamo», chiosa Antonio. Non lo è neanche, la loro Yoko, il regista storico, l’uomo che da sempre li traduce in immagini. «Lorenzo e Antonio», ci racconta Zavvo, «si mettono e ti mettono molto in discussione, ti stimolano e ti spiazzano, non accettano mai supinamente una decisione e questo però è bellissimo, ti porta sempre altrove». E a dispetto della sicilianità e di una certa svagatezza geniale alla Battiato, rivendicano una totale assenza di Centro di gravità permanente, nel film e nella trama, a favore di tante intuizioni sgarrupate, assurde e geniali (le leggende, Dimartino che dorme in piedi, Colapesce con l’armadio degli psicofarmaci enorme e diviso secondo depressioni di vario tipo), e il gusto di un racconto sempre originale. «In questo racconto ognuno ha la sua verità e questo film vuole provare a capire tutti, anche le cose più strane», incalza Dimartino. E Colapesce conclude: «È una storia verosimile perché incrocia leggende che hanno tutte degli studi anche molto seri alla base, pensa solo alla parte di Roberto Vecchioni sul fatto che William Shakespeare fosse siciliano. Ci ha scritto pure un libro a riguardo».

Roberto Vecchioni in ‘La primavera della mia vita’. Foto: Foto: Vision Distribution

La cultura, l’identità, sono valori assoluti, ma anche squisitamente relativi, un’ambivalenza meravigliosa che è alla base della creatività comune di questi due artisti. E infatti il film è come Musica leggerissima: quando stai pensando che sono due irresistibili cazzoni, ti hanno già preso l’anima con un testo e delle riflessioni che ti macerano anima e cuore, che quel sorriso lo trasformano in pensiero potente che ti inchioda al muro delle tue fragilità. E quando La primavera della mia vita ha le sue gag alla Troisi e Benigni, ti ha già preso dentro con lo sguardo profondo e soavemente perdente di due picareschi nomadi della vita e dell’arte. «Siamo noi che siamo fatti così. Siamo i cavalli di Troia di noi stessi, in una confezione leggera, leggerissima, pop, fatta di strani balletti e di lustrini: è così che finisci per raccontare la depressione. La grande truffa della confezione pop è che ha in sé molto altro». Lo dicono quasi in coro, come spesso accade finiscono le frasi l’uno dell’altro. E quel cupio dissolvi che senti in tutto il film, nelle loro battute, nel loro punzecchiarsi, lo ritrovi. Quasi che abbiano messo in scena tutto ciò che hanno paura potrebbe succedere davvero. Un po’ di buona vecchia catarsi.

«Navighiamo a vista, facciamo cose che ci piacciono, volutamente non c’è un contratto, un legame legale tra noi, continueremo a fare le carriere da solisti rimanendo anche una coppia. Un po’ come i conviventi che non si sposano per paura di lasciarsi». Non si sposeranno, quindi. Ma, se dovessero farlo, per il Fantasanremo e per far dimenticare Fedez e Rosa Chemical, c’è sempre Sanremo 2024. «Il Festival di Sanremo pure l’anno prossimo? No. Nel 2024 non ci torniamo, ce ne andiamo alle Maldive». E su questo punto sembrano seri. Anzi, serissimi. Parole senza mistero, allegre ma non troppo, almeno per te, caro Amadeus.

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