L’assenza di John Woo non poteva durare ancora.
Il padrino del gun fu, che ha diretto una serie di action cinesi pieni di proiettili e coreografie – tra gli altri: A Better Tomorrow, The Killer e Hard Boiled – prima di portare il suo talento negli Stati Uniti, veniva da quattro successi hollywoodiani consecutivi. Per primo è arrivato Senza tregua starring Jean-Claude Van Damme, un reboot di Pericolosa partita; poi, con John Travolta, Nome in codice: Broken Arrow, su un terrorista ribelle armato di una bomba nucleare; Face/Off – Due facce di un assassino, che abbina un Travolta sempre sul pezzo con un Nicolas Cage ancora più sul pezzo; e Mission: Impossible 2 con Tom Cruise, che al box office ha portato a casa 550 milioni di dollari e rimane il suo maggior incasso.
Quindi, all’apice della sua fama e con la possibilità di realizzare qualsiasi film volesse, Woo scelse di dirigere Windtalkers, un’epopea da 100 milioni di dollari sui code talker Navajo che aiutarono le forze americane a vincere una serie di battaglie cruciali contro il Giappone durante la Seconda guerra mondiale. Lo Studio (e la censura) hanno fatto tagliare a Woo 20 minuti di film, ed è stato un flop. Poi è arrivato Paycheck, un adattamento di Philip K. Dick con Ben Affleck, che è stato un flop ancora peggiore. Dopodiché le sceneggiature hanno smesso di arrivare. E John Woo, uno dei migliori registi della sua generazione, divenne persona non grata a Hollywood. E allora lui è tornato in Cina, dove ha diretto l’acclamato film epico di guerra in due parti La battaglia dei tre regni, sulla caduta della dinastia Han, e alcuni film d’azione di successo.
Dopo vent’anni di assenza, Woo è finalmente tornato in America con Silent Night – Il silenzio della vendetta. Ed è in ottima forma. Il film è incentrato su Brian Godluck (Joel Kinnaman), un padre il cui figlio viene ucciso da un proiettile vagante durante una sparatoria tra gang alla vigilia di Natale. Quando il suo primo tentativo di vendetta fallisce e Godluck si ritrova in ospedale con una ferita da proiettile alla gola, trascorre l’anno successivo a fare riabilitazione e ad allenarsi e, alla successiva vigilia di Natale, decide di uccidere tutti i gangster di Los Angeles responsabili della morte di suo figlio. È un action che tiene con il fiato sospeso senza una sola parola di dialogo. Per citare John Wick: “Sì, penso di essere tornato!”.
In un’intervista-fiume con Rolling Stone, Woo ha parlato del divario di vent’anni tra i suoi progetti hollywoodiani, della collaborazione con Tom Cruise e Nicolas Cage e dell’emergere dai bassifondi cinesi per diventare una leggenda del cinema.
Cosa ti ha spinto a tornare in America dopo vent’anni di lontananza?
Dopo Paycheck non sono più riuscito ad avere sceneggiature buone, quindi sono andato in Cina per realizzare un paio di film. Alcuni hanno funzionato, altri non tanto, ma stavo ancora cercando un nuovo copione da dirigere. Quando sono tornato in America, circa quattro anni fa, ho ricevuto la sceneggiatura di Silent Night. Ero così gasato. A Hollywood mi ero affermato come regista di “grandi film”, e ci sono così tante buone sceneggiature più piccole che non mi sono mai arrivate. Il mio socio diceva sempre “John, sei un grande regista! Questi sono troppo piccoli per te!”, ma mi piace provare cose più piccole e più personali. E non solo d’azione. Mi piace davvero raccontare una storia umana, ma non ci riuscirò mai. Volevo affrontare Silent Night come mio primo film del mio nuovo corso qui perché ero entusiasta del fatto che non avesse dialoghi. Mi ha permesso di usare la mia tecnica visiva e il suono per raccontare una storia. E adoro le sfide, non mi importava del budget o cose del genere.
Mi è sembrato simile all’arco narrativo di Sean Archer in Face/Off in termini di trauma della perdita di un figlio. C’è anche una scena in cui il personaggio di Joel afferra un bambino e pensa che sia suo figlio morto.
Non me n’ero accorto, ma penso che tu abbia perfettamente ragione. Mi sono davvero immedesimato nella storia: un ragazzo innocente è stato ucciso da un gangster, ed è triste. Ho pensato che avrebbe potuto succedere a qualsiasi famiglia.
Soprattutto in America.
Soprattutto in America. Ho provato a cambiare un po’ il mio stile che, solitamente, è fantasioso e, per quanto riguarda l’azione e i personaggi, un po’ esagerato. Per questo, volevo renderlo più realistico. In questo film il nostro protagonista, Joel Kinnaman, non è un supereroe. È un uomo comune, un tuo vicino di casa.
È un tuo vicino di casa se vivi vicino a una palestra.
(Ride) Penso che Joel abbia fatto un ottimo lavoro nel film. Ha approfondito il personaggio e ha lavorato molto duramente. Avevo visto solo uno dei suoi film, Child 44 – Il bambino n. 44. Ma ho davvero ammirato la sua professionalità. E ha fatto tutte le sequenze action da solo.
Hai scelto Kid Cudi – Scott Mescudi – come detective nel film. Ascolti la sua musica?
Sì, mi capita. Abbiamo provato a trovare qualcuno per il suo ruolo e sorprendentemente ha detto di sì quando il nostro produttore lo ha contattato, perché amava i miei film. Voleva soltanto due pistole, e io gli ho dato due pistole! I giovani mi adorano. Joel è una persona così umile, gentile e collaborativa. Nessuna posa da star.
Vengo da una famiglia mista e in Silent Night e al centro di molti altri tuoi film, da Mission: Impossible 2 a Costretti ad uccidere e Il grande colpo, ci sono coppie interrazziali. Non è ancora una cosa molto comune da vedere nei film degli Studios, e certamente non lo era allora. È stato intenzionale?
Oh sì, era esattamente quello che intendevo fare. Cerco di lavorare con persone di ogni origine, e alcune di loro non hanno abbastanza possibilità. Il mio prossimo progetto è un film drammatico sul primo immigrato cinese che arrivò negli Stati Uniti come bracciante – uno schiavo – lavorando per le ferrovie, e che proveniva da una famiglia mista. È una storia vera, ed è speciale. Era un ragazzo cinese e, dopo aver lavorato per il suo “padrone” per oltre dieci anni, andò alla Columbia University di New York per fondare un centro di apprendimento culturale cinese. Dato che ho avuto l’opportunità di lavorare in America, mi vedo come un ponte da Est a Ovest. Sarà il mio progetto più ambizioso.
Quando parliamo di inclusione nei tuoi film, mi viene in mente anche Windtalkers. Quando uscì, nei primi anni 2000, nessuno stava davvero realizzando grossi titoli che offrissero ad attori nativi americani in ruoli importanti, e certamente non stavano facendo film che mettessero in risalto il contributo eroico dei nativi americani agli Stati Uniti e alla loro Storia. E questo accadeva in un momento in cui probabilmente avresti potuto fare qualsiasi film avessi voluto.
Ero entusiasta di quel progetto. Gli esseri umani, indipendentemente dalla loro razza, hanno tutti qualcosa di molto speciale, e hanno dato un grande contributo al Paese. E soprattutto questa storia sul popolo Navajo era speciale. [L’esercito americano] usava la loro lingua come codice durante la Seconda guerra mondiale e, grazie a quel codice, salvarono molte vite umane e molti soldati americani. Volevo lavorare con veri nativi, non come nei soliti film di Hollywood in cui c’è un uomo bianco che interpreta un nativo americano. Non va bene. Avevamo bisogno del vero popolo Navajo, che parlasse quella lingua. Alcuni degli attori Navajo non erano professionisti, ma hanno fatto un ottimo lavoro.
Per tornare al fatto che non hai ricevuto sceneggiature dopo Paycheck: avevi realizzato così tanti successi per Hollywood e ci sono voluti solo due film di minore successo perché l’industry ti voltasse le spalle. Ritieni di essere stato trattato ingiustamente?
Pensavo fosse mancanza di comprensione. La gente mi vede solo come un regista d’azione e ne ho abbastanza. Ero stufo dei film ad alto budget, hanno sempre problemi più grossi. I numeri sembrano fantastici, ma quando entri sul set devi far funzionare tutto. Inoltre ci sono troppe persone coinvolte, tutti hanno i loro consigli, i loro appunti da farti. E quando volevo avere una sceneggiatura più ridotta e una storia più umana, non arrivava mai. Ero un po’ turbato e deluso, ed è per questo che per un po’ ho smesso di fare film a Hollywood e me ne sono tornato in Cina.
Quando parli di troppe persone coinvolte nei film degli Studios, mi viene in mente Mission: Impossible 2. Ho sentito che Tom Cruise ha cercato di escluderti dal montaggio: è vero?
In realtà non poteva farlo ma, una volta finito il film, è andato in Australia per le vacanze e poi ha voluto mettere una telecamera nella sala di montaggio per vedere il nostro lavoro perché voleva sapere cosa stavamo facendo, e noi non glielo abbiamo permesso. Ha cambiato idea. Gli ho detto che dovevo tagliare il film senza alcuna interferenza e lui ha capito.
Volevo chiederti della parodia degli MTV Movie Awards che Ben Stiller ha fatto con te e Tom Cruise in Mission: Impossible 2. Ben Stiller appare come controfigura di lunga data di Cruise, e c’è una scena in cui Stiller sostituisce Cruise su M:I 2 mentre viene preso a pugni ripetutamente in faccia e la telecamera ti inquadra e tu dici: “Più forte!”.
(Ride) Era divertentissimo! Un’idea di Ben Stiller, voleva che lo facessi con loro. Non sono un bravo attore, sono timido. Ma lui ha insistito perché lo facessi e mi ha dato un paio di battute. È stato molto divertente. Tom era felice, lo erano tutti.
Face/Off è uno dei miei preferiti, tra i tuoi film. Com’è stato per te quando Nicolas Cage ha mollato il copione e ha improvvisato? Ho letto che lo ha fatto nella scena iniziale, in cui è travestito da prete che fa headbanging e si comporta da pazzo.
Mettiamola così: mi sono divertito moltissimo a lavorare con Nicolas Cage. Nella sequenza in cui cerca di convincere sua moglie (interpretata da Joan Allen, nda) che è suo marito, è stato molto doloroso perché lei non gli credeva. E poi mi ha parlato di questa battuta che condividevano quando erano giovani, il fatto che lei fosse andata dal dentista e le avessero tolto il dente sbagliato. Non gli è piaciuto quello che c’era scritto in sceneggiatura, quindi ha suggerito: “Che ne dici se, quando parlo della battuta, lo facessi addolorato, con le lacrime agli occhi? Posso?” E io ho risposto: “Certo che puoi farlo. Sei un attore. Devi avere libertà. Puoi fare ciò che vuoi”. Ha provato un’altra ripresa in cui recitava una battuta con gli occhi lucidi, e ha scelto di fare lo stesso anche in quell’altra scena. Ricordo che mi ha detto: “È fantastico! Di solito gli Studios non permettono a un attore di fare modifiche del genere, ci sono così tante regole per gli attori”. Gli ho risposto: “Non nel mio film! Puoi fare ciò che vuoi, sentiti libero”. E quando abbiamo girato la scena iniziale in cui è travestito da prete e fa il matto, ho pensato: “Quello è il diavolo”. Piaceva a me e piaceva a lui. Gli attori nei miei film si sentono liberi di fare ciò che vogliono, e io li incoraggio sempre a provarci. In Mission: Impossible 2, Tom pensava che i suoi capelli sarebbero stati bellissimi se fossero stati lunghi e si fossero mossi al rallentatore.
Da dove nasce l’idea della face waterfall in Face/Off? Lo fai ai tuoi figli o qualcosa del genere?
È stata una mia idea. Ci sono due attori che cambiano identità, quindi a volte è Sean Archer e a volte è Castor Troy, e sono molto diversi. Temevo che il pubblico avrebbe avuto difficoltà a capire chi è chi. Quindi ho creato il gesto della mano per la famiglia di Sean Archer: la mano che tocca il viso per simboleggiare la felicità e confortarsi a vicenda. Il pubblico l’ha adorato!
Il tuo primo film che ho visto è stato Senza tregua. Sono curioso di sapere come è stato lavorare con Jean-Claude Van Damme, con cui è notoriamente un po’ complicato avere a che fare. Ho sentito che, durante tutte le riprese, ti ha chiesto di avere una macchina da presa separata puntata su di lui che riprendeva i suoi muscoli in primo piano. È vero?
(Ride) Sì, è vero. Teneva così tanto al suo aspetto. Ha sempre voluto apparire bene sullo schermo, e ogni volta che lottava o scalciava era perfetto. Non ci ha causato troppi problemi. Voleva solo essere figo!
C’è una scena in Senza tregua in cui Jean-Claude Van Damme tiene un serpente con una mano e poi gli dà un pugno in testa con l’altra. Di chi è stata l’idea?
Mia, ed era un serpente finto. Mi piace sempre mettere un po’ di umorismo nei miei film. Crescendo a Hong Kong, ho visto tanti film inglesi: li adoro, e molti di loro avevano molta ironia e mi facevano molto ridere. Credo che in ogni tipo di film – che siano di guerra, melodrammi, d’autore – ci sia posto per il senso dell’umorismo. I film di Hong Kong sono stati influenzati da tutti i film inglesi, quindi hanno tutto: azione, drammaticità, romanticismo, umorismo. E il pubblico di Hong Kong ama ridere.
Mi viene in mente The Killer, che ha grandi momenti di umorismo che spezzano le sanguinose scene d’azione. La prima volta che l’ho visto, da bambino, avevano fatto un pessimo lavoro nel doppiaggio in America, tanto da rendere il film confuso dal punto di vista dei toni. I personaggi si chiamavano l’un l’altro “Dumbo” e “Topolino”, e io pensavo: “Che diavolo sta succedendo?”
Oh sì, e ci sono rimasti molto male. I film di Hong Kong non avevano un grande mercato in termini di distribuzione mondiale, e a nessuno importava davvero [del doppiaggio], quindi chiedevamo a persone a caso di prestare la propria voce. Quando A Better Tomorrow e The Killer hanno attirato così tanta attenzione nel mondo occidentale siamo rimasti molto sorpresi, perché non era mai successo prima. E abbiamo provato a sistemare il doppiaggio, ma era troppo tardi.
Hai già visto The Killer di David Fincher? Ti ha chiesto se poteva intitolare il suo film come il tuo?
No, ma ho sentito che il suo film è stato adattato da un fumetto, sai? E ha lo stesso titolo. Dev’essere una coincidenza.
Hai ancora intenzione di fare un remake americano del tuo?
Ci sto lavorando adesso, torneremo a Parigi a gennaio per finire il resto. Ho deciso di farlo perché lo sceneggiatore è venuto da me con l’idea di rendere l’assassino una donna. È Nathalie Emmanuel (la Missandei di Game of Thrones, nda), meravigliosa. Così diretta e così coinvolta dal personaggio, è quello che mi ha entusiasmato. E la storia ha un piccolo cambiamento: non sarà un finale tragico, ma un lieto fine. Le cose sono cambiate: ai vecchi tempi poteva esistere un finale tragico, ma ora la gente vuole l’happy ending.
Sei un fan dei film di John Wick? Hanno preso parecchio da te.
A essere sincero, mi piace guardarli e mi piace il loro stile, in particolare l’uso del colore. La fotografia è molto elegante. Ci sono lunghe scene di combattimento che sembrano un fumetto che mi divertono molto.
Come sei diventato un regista? Sei cresciuto in un quartiere di case popolari in Cina, non dev’essere sembrato pensabile girare film a Hollywood.
Quando ero giovane ho realizzato parecchi film sperimentali. Il mio sogno era diventare un art director o un direttore della fotografia, mi sarebbe bastato. Non ho mai sognato di fare il regista! Nel 1973, un mio amico ottenne un finanziamento per realizzare un film ma non sapeva come, quindi mi chiese aiuto. All’epoca ero assistente alla regia per Chang Cheh. In realtà non ero ancora pronto. Ero troppo giovane – avevo solo 26 anni – ma non avevo paura di provarci. Quindi ho realizzato un film di kung fu con un budget molto basso [The Young Dragons]. Jackie Chan era uno dei coordinatori degli stuntman. Sfortunatamente, una volta terminato il film, è stato censurato perché era troppo violento. Ma i capi [del Golden Harvest Studio] lo adoravano. Mi hanno assunto e mi hanno fatto firmare un contratto per la regia di tre anni. Ero felice!
Dietro di te vedo la locandina di Frank Costello faccia d’angelo di Jean-Pierre Melville. Ho letto che è stato proprio quel film ad avvicinarti al genere gangster.
Sì, era il mio film preferito di sempre. Ho provato a realizzare qualcosa di simile per 10, 15 anni, ma lo Studio non me lo permetteva. Il mercato all’epoca era kung fu o sesso, era tutto quello che potevi fare, nient’altro. Ma sono molto influenzato da Jean-Pierre Melville. Fu solo nel 1985, dopo che il mio buon amico Tsui Hark produsse A Better Tomorrow e divenne un enorme successo, che il mio film successivo, The Killer, mi permise finalmente di rendere omaggio a Le samouraï. (il titolo originale di Frank Costello faccia d’angelo, ndt).
All’inizio della tua vita volevi diventare prete. Che ruolo ritieni che la religione o il cristianesimo abbiano nei tuoi film?
Sono cristiano, lo sono davvero. Ma quando lavoro e dirigo un film, dimentico di esserlo. Sono solo il regista del film. Non ho mai avuto alcun conflitto nella mia mente o nel mio cuore. Ho semplicemente fatto un film. L’altra cosa è che, quando ero bambino, amavo davvero la chiesa. Poiché sono cresciuto in uno slum, venivo picchiato dai gangster. E ogni volta che venivo picchiato, andavo in chiesa e lì mi sentivo al sicuro. Tutti quei sacerdoti hanno aiutato un sacco di poveri, hanno dato loro conforto e amore. Ero così commosso dal loro comportamento e volevo fare la stessa cosa in futuro. Volevo provare ad aiutare le persone. Quando ero al liceo, frequentavo una scuola cristiana. C’era una grande biblioteca lì, con molti libri d’arte e film. Quindi, quando avevo 17 anni, ho provato a diventare prete. Ma i miei compagni di scuola, specialmente quelli che studiavano nella classe dei missionari, mi hanno detto: “John, hai una mente troppo artistica, devi andare a studiare arte”. Perché andavo pazzo per i film. Volevo parlare solo di quello: della Nouvelle Vague francese, dei vecchi film di Hollywood, dei film tedeschi, italiani e svedesi. Ero ossessionato.
Abbiamo parlato del remake di The Killer e del tuo film su uno dei primi immigrati cinesi negli Stati Uniti, ma ci sono altri progetti non realizzati che non vedi l’ora di realizzare?
Un grande western, epico. Ho già ricevuto una sceneggiatura meravigliosa. Non è uno spaghetti western, è proprio un western puro, alla Sam Peckinpah. È una storia più umana.