Pierfrancesco Favino, al cinema, è diventato sinonimo di eccellenza. A partire dalla mitica battuta di Max Bruno in Boris (“Ormai i ruoli li fa tutti Favino, mi avevano preso per Spadolini ma ora pare lo voglia fare lui”) per passare agli spettatori che lo considerano il migliore qualsiasi ruolo interpreti. Merito di un percorso fatto di una lunga gavetta, di assenza di snobismi – è il primo della sua generazione ad aver compreso la potenza della tv di qualità – e di sfide al limite dell’impossibile con tutti i registi italiani (e non solo) più importanti. Dopo Craxi (Hammamet di Amelio) e Buscetta (Il traditore di Bellocchio), che gli sono valsi premi, riconoscimenti critici e un plebiscito del pubblico, passando per un irresistibile D’Artagnan (Moschettieri del re di Veronesi e relativo sequel), ora lo ritrovi in un melodramma d’amore, eroe romantico che accarezza lo stereotipo per deragliare e diventare altro in Promises di Amanda Sthers, nelle sale italiane dal 18 novembre distribuito da Vision. Un film delicato e impietoso sui sentimenti – non lontano a suo modo da un’altra opera sottovalutata della sua cinematografia, il bellissimo Cosa voglio di più di Silvio Soldini – in cui lui tira fuori molte qualità e aspetti della sua recitazione insoliti.
Torni a essere diretto da una donna dopo L’uomo che ama di Maria Sole Tognazzi. Di nuovo nei panni di un (anti)eroe romantico, fragile e dolce, pur nei suoi egoismi. Dopo anni di personaggi duri e puri, come ti senti in questi panni?
Ti dirò che quelle dell’eroe romantico sono corde che io ho, ho sempre avuto, lo dico senza problemi. Magari le ho suonate in altri modi e storie. In Craxi, Buscetta e Pinelli (interpretato in Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, ndr), per dire, c’erano momenti romantici e sentimentali. Il punto è che pensiamo che certi toni possano essere toccati solo parlando di vita di coppia, ma amicizie, senso dell’onore, la ricerca della giustizia, il rapporto col potere, sono tanti i campi in cui si può essere eroi romantici. Però è vero che solo con L’uomo che ama avevo vissuto la possibilità di esserlo in modo classico e di sicuro, insieme alla sceneggiatura, è una delle cose che più mi hanno solleticato della sfida.
C’è una scena della tua cinematografia che mi commuove e mi emoziona come la scena d’amore più sentimentale di Love Story. Romanzo criminale, il tuo confronto con Kim Rossi Stuart, il tuo urlo “‘Sta gamba!”. Amore puro.
L’amore si declina in tantissime forme. E non solo perché per fortuna è un sentimento che nel mondo stiamo imparando a vivere con il massimo della libertà e senza schemi ormai grotteschi, ma perché è una forza talmente potente e preponderante che tracima ovunque. Amicizia, famiglia, ideali, l’amore è una spinta ideale che ci nutre sempre e ovunque. Poi ovvio che Kelly Reilly, la coprotagonista di Promises, aiuta.
Perché credi che allora un ruolo così nella tua cinematografia stupisca tanto? Quando fai uscire la tua parte più femminile disorienti pubblico e critica.
Perché ho una sensibilità da sartina nel corpo di un autotrasportatore. A parte le battute, io credo che qualcosa di te esca sempre quando reciti, e spesso da spettatore ami o odi proprio quello scorcio di umanità degli attori. Io questa vena femminile l’ho sempre avuta, e mi sono sempre detto che c’è perché ho vissuto sempre in mezzo alle donne, da figlio, fratello, marito e padre. Ma la verità è che anche mio padre era così. E questa distinzione di gender soprattutto nella creatività è molto limitativa, per me l’attore non ha sesso. Credo però che siamo esseri così sfaccettati che a volte abbiamo dentro anche ciò che il nostro corpo e la nostra apparenza non suggeriscono. Va detto però che nel 2021 usare il reticolo del gender di decenni fa è ridicolo. Abbiamo dentro tutto, bisogna solo farlo uscire.
Lo ammetto. Con Moglie e marito ho iniziato a sentire attrazione per te, con Promises mi hai fatto innamorare.
Ci ho messo un po’, è tanto che ti corteggio.
Prima o poi doveva succedere. Cercare ruoli difficili, scomodi, a volte quasi impossibili fa parte della tua tendenza a evitare ostinatamente la comfort zone? Oppure perché anche quando un film che fai non è riuscito regolarmente tutti dicono “però Favino…”
Non sono un fanatico della comfort zone, è vero. Ma non mi metto in ruoli scomodi per combattere il consenso a volte unanime su di me: gli attori sono come le playmate, di miglior attore italiano ce n’è uno al mese. Non ho questa lucidità nel giudicarmi da fuori, nel valutare le mie scelte in base alle convenienze della mia carriera o del mio posizionamento a livello di comunicazione di massa. Non sono così incentrato su di me. Spesso sono i registi a mettermi in quelle condizioni, vedendo in te capacità che tu non pensi di avere: quando Gianni Amelio mi disse che aveva pensato a me per fare Craxi rimasi basito, non pensavo di essere in grado. Io di mio ci metto un carattere quasi ossessivo: per quel ruolo parlai persino col dentista e l’oculista del leader socialista per capire meglio alcuni tic, alcune posizioni e sguardi che erano diventati suoi marchi di fabbrica, ho una certa mania per il dettaglio. Sarebbe però arido fare scelte perché poi le persone pensino di te questo o quello. La verità è che i ruoli servono a indagare te stesso e capacità che di te magari neanche conosci e anche lati di quel personaggio che non immagini prima di “indossarlo” sul set. La verità è che, quando affronti le storie di persone realmente esistenti o esistite, i bravi narratori sanno, devono individuare le simbologie che riguardano tutti noi. Per intenderci, per me Hammamet è un film sulla caduta del Potere, non su Bettino Craxi; Il traditore non parla di Buscetta ma è fondato su un tema caro a Marco Bellocchio, il paradosso della libertà dell’individuo e del rapporto tra lo stesso e l’istituzione, del rapporto tra padre e figli. Otello mica parla di gelosia, è un dramma dell’identità.
Ho sempre avuto una sensazione guardandoti recitare. L’alta qualità della tua recitazione e delle tue interpretazioni non nasce solo da un grande talento, ma anche dall’affrontare ogni film come un nuovo esordio. In questo, e non solo, mi ricordi Gian Maria Volonté.
Mi piace questa cosa, confesso, che mi vedi come un eterno esordiente. Magari somigliassi a Volonté, già aver vinto il premio a lui intitolato (nel 2020, ndr) a La Maddalena, nel festival La valigia dell’attore diretto dalla figlia Giovanna, l’ho considerato un onore enorme e forse eccessivo, più che un riconoscimento al mio lavoro per me è un pungolo costante a farlo sempre meglio. Io sento che ancora non riesco a fare questo mestiere come vorrei, ho un rispetto talmente grande per quello che faccio – prima citavi quel genio inarrivabile, che in questo senso per me è un faro – che mi chiedo ogni giorno cosa mi manchi per essere dove vorrei arrivare. Ecco perché ogni film è una nuova sfida. E un nuovo esordio, forse sì.
Come mai in questo lungo percorso hai fatto anche il produttore, ma non c’è mai stata la tentazione di una regia?
Dirigerò un film solo il giorno nel quale dovessi sentirne una vera urgenza. Ma più lavoro con grandi cineasti e più mi rendo conto di quanto sia specifico quel talento e quanto sia bello fare l’attore per loro invece di mettersi dietro la macchina da presa. E poi permettimi una piccola polemica. Io pretendo di considerare il fare l’attore come un percorso artistico, creativo, guardo a quello che faccio pensando anche al mio segno espressivo, come un pittore che si evolve negli anni. Lo stesso vale per gli attori, che costruiscono una loro cifra stilistica e poi la rendono più complessa, completa, cambiano profondamente proprio come chi dipinge fa nei diversi periodi della propria vita e carriera. Spesso per quanto riguarda gli interpreti non ce ne accorgiamo perché, essendo all’interno di un mercato e di un’industria, vedi più facilmente l’altro lato, quello della celebrità, della fortuna, del film riuscito o meno, che agli occhi di tutti nasconde la parte più importante. Ogni occasione di lavoro, invece, è un’opportunità per chiarire a se stessi dove sei nel tuo percorso di segno, cosa stai esprimendo e come, dove stai. Io so qual è la mia direzione artistica, ma ci vuole tempo per arrivare dove vuoi. Soprattutto se sei uno come me che non ama tornare dove è già stato. La mia fortuna è aver fatto molta gavetta, aver affrontato un percorso serio di preparazione che mi ha reso quello che sono, la mia non è una velleità virtuosistica, è che mi interessa troppo quello che faccio, mi diverte ancora troppo. E infatti, prima di iniziare un film, ancora oggi dopo decine di personaggi e set, io non dormo la sera prima. Non ho fortunatamente la sicurezza in me stesso che mi dice “tanto me la cavo”. Prima di tutto per rispetto del pubblico. Mi serve la passione di sentire mio il film, io non recito mai pensando a “salvarmi”. Per me questa è autorialità, e la si può avere anche da attore, nella comprensione del lavoro del regista, della scrittura, del lavoro sul ruolo, del set che ti tira fuori sempre qualcosa di inaspettato. Mi piace che sia un lavoro che si fa insieme alle persone e che le troupe, i gruppi di lavoro cambino sempre.
Tornando a Gian Maria Volonté, ti proponessero un biopic su di lui lo faresti?
Gian Maria Volonté? Non potrei mai farlo. Per lo stesso motivo per cui non interpreterei mai Francesco Totti. Troppo, per me.
E chi vorresti interpretare ora? Un personaggio storico?
Un altro? Attenzione che sto diventando il reuccio del biopic e questa etichetta non mi sta tanto bene. Il punto è che ci sono tantissimi personaggi che mi piacerebbe interpretare, ma confesso di essere sempre stato affascinato dalle vite dei santi. Perché al di là delle agiografie rassicuranti che arrivano a noi, indagando nelle pieghe delle loro esistenze scopri vicende molto meno leggiadre, leggere ed estatiche di quello che pensiamo. Se le leggi scopri ossessioni, percorsi “ostinati e contrari” come quelli di San Francesco e Sant’Antonio, tante figure che nel dolore, nella lotta, nel conflitto con il divino, si definiscono. E quella sofferenza, quelle contraddizioni si tramutano spesso in un patimento fisico, nell’impossibilità di domare una cosa più grande di loro. Nell’iconografia dei santi non troviamo spesso quella sfida con se stessi e quanto li abbia consumati il fuoco del sacro. Sono figure estremamente interessanti. E poi aiutano anche una narrazione di genere, a volte quasi horror. Penso alle laude di Jacopone da Todi, vere e proprie bestemmie nel suo parlare con Dio, in cui lo affronta dicendogli “Ma proprio a me doveva capitare di sentirti in modo così forte da lacerarmi il corpo?”.
Ho un’idea. Uno spin-off dell’Ultima tentazione di Cristo tutto incentrato su Giuda interpretato da te.
Sono d’accordo, mi piace. Martin (Scorsese, ndr) lo chiami tu? Per me va bene. Mi tengo libero.
Figurati io lo vedo ogni giovedì, ceniamo insieme e poi vediamo il Napoli.
Sì, so che lui ha la maglietta di Anguissa.
E Francis Ford Coppola quella di Veretout. E Spadolini, invece, quando lo fai?
(Ride di gusto) Quella battuta la trovai geniale, peraltro fatta in un momento in cui non era neanche tanto vero. Avevo già fatto Bartali e Di Vittorio, mi pare, è vero, ma quel monologo di Max Bruno in Boris fu profetico. Ma non mi ha mai dato fastidio, veniva da amici. Di sicuro è una delle cose più riprese sui social, ma non è un qualcosa su cui io imposto la mia carriera ovviamente. Detto questo, senza nulla togliere ai ragazzi di Boris, la battuta più divertente in proposito la fece l’attrice e sceneggiatrice Stefania Montorsi su Facebook quando uscì Hammamet. Scrisse: “Quando incontri uno sconosciuto per strada, sii gentile. Potrebbe essere Pierfrancesco Favino”.
Ti emoziona il ritorno in sala?
Certo. Molto. Penso proprio a Promises, che alla Festa di Roma è diventato qualcosa d’altro rispetto a quello che sentivo perché c’erano le persone che lo guardavano. E noi troppo a lungo abbiamo dato quest’esperienza per scontata. Sulla commedia è più evidente: se cento persone ridono guardandolo a te sembrerà più divertente, ma la sala è il respiro che cambia il film. Qualsiasi film. Visto a casa o visto in sala cambia tutto. E in Promises la partecipazione emotiva, emozionale è fondamentale, sento che sta ancora crescendo, a ogni proiezione. E poi il talento della regista, la scrittura, le bellissime interpretazioni dei miei colleghi in quel luogo magico risaltano ancora di più.
Giochiamo. Tra 007, Capitan America e un ruolo comico demenziale quale sceglieresti?
Il cattivo di 007, possibilmente demente. Mi attrae, scherzi a parte, più il villain che combatte Bond che fare 007. Diciamocelo, è un ruolo molto più figo e anche più riposante perché le scene d’azione più complesse le fanno tutte i tuoi scagnozzi. Tu al massimo sei seduto su una poltrona e accarezzi un animale domestico. E poi hanno sempre una cicatrice in faccia, sono brutti, posso avere più possibilità. Con Craig al massimo posso condividere il sarto. Anzi, ho un’idea.
Quale?
Io faccio il cattivo e Jean Reno James Bond. Ci ho recitato qui in Promises (Reno interpreta il nonno del personaggio di Favino, ndr) e l’ho trovato un uomo e un attore straordinario, senza pudore gliel’ho anche detto: “Facciamo in modo di lavorare di nuovo insieme”. Chiami sempre tu Barbara Broccoli?