Lo status di WhatsApp di Fabio D’Innocenzo dice solo AUATC, che è una canzone di Bon Iver che a un certo punto fa “You know a burden ain’t a bust / You are the only way to trust ya”. Ed è una cosa sui pesi, sui fallimenti, sul dare fiducia solo a sé stessi. E anche una cosa che dice molto dei Fratelli D’Innocenzo, e sicuramente di Dostoevskij, la loro prima serie – anche se per loro è «un filmone» – che dopo la Berlinale e l’uscita nelle sale l’estate scorsa arriva adesso su Sky e NOW (dal 27 novembre). L’untrue detective Enzo Vitello (gigantesco Filippo Timi) deve indagare, in un’imprecisata provincia metafisica, sui delitti di un serial killer che si firma appunto Dostoevskij. Ma anche sul nero che ha dentro – e che vediamo anche in queste bellissime foto, scattate sul set dai D’Innocenzo stessi – e che lo riporta a interrogarsi sui suoi fantasmi, sul rapporto con la figlia Ambra (gigantesca Carlotta Gamba) e coi colleghi (fra gli altri: Gabriel Montesi e Federico Vanni), sul suo riconoscersi, o disconoscersi, come poliziotto, padre, uomo. Ma basta coi preamboli, facciamo parlare loro. Del loro nero. Di ricordi, fallimenti, passato, futuro, sogni (quelli che sperano loro di esaudire), fallimenti (quelli che tanti altri sperano per loro). La chiacchierata sarà lunga.
In Dostoevskij c’è tutto del vostro mondo: l’infanzia, i padri e i figli, il nero in cui ci si inabissa e in fondo ci si specchia. Ma, più di tutto, mi sembra che abbiate fatto, ancora più che con i precedenti, il film che davvero piace a voi, e che per questo parla così tanto di voi.
Damiano: Molti temi già li hai sviscerati tu, allora io ti dico che Dostoevskij mi ha ricordato, anzi mi ha proprio imposto, di tornare come prima coordinata geografica e sentimentale ai libri. Dostoevskij senza i libri che abbiamo letto non avrebbe avuto quella gravitas che invece c’ha, bello o brutto che sia: per me è bellissimo. Ci siano circondati di libri che magari non abbiamo manco mai aperto, però l’importanza capitale della pagina scritta in Dostoevskij è evidentissima, e mi ha fatto rincontrare questo amore che negli ultimi anni si era un po’ distaccato a favore dell’amore per le immagini, per l’audiovisivo. Da dopo Dostoevskij, la percentuale di libri che leggo e di film che vedo è 80 a 20, e sono felice di questo perché trovo nei libri una verticalità che molti film moderni si sognano. E quando dico verticalità non parlo di bellezza o di bruttezza, ma di profondità, di scendere giù. Le regole più che Sky ce le hanno dettate gli scrittori che avevamo sul comodino mentre scrivevamo. Penso a William Goldman, un genio assoluto, o ad Antonio Moresco, autori che magari hanno esagerato e che per molti sono degli sconfitti o dei perdenti perché i loro numeri sono impietosi rispetto alla loro bravura e al loro impegno. Ma sono dei militanti, degli scrittori che scrivono libri perché amano la paura. Dostoevskij è pieno di paura, ed è una paura però liberatoria, perché ti dà lo spazio per poterti muovere, per permetterti di farti una radiografia.
A voi di Dostoevskij cosa faceva paura?
Damiano: Sicuramente la mole di ore. I nostri primi tre film sono tutti di 90 minuti perché, non provenendo da una famiglia d’arte o da scuole di cinema, abbiamo voluto essere un po’ prudenti nell’esporci: 90 minuti era già fin troppo. In Dostoevskij la sproporzione è assoluta, sono cinque ore e mezza. Quella paura viene dal nostro retaggio periferico: a quest’industria non apparteniamo, prima per impossibilità e adesso per scelta. Perciò abbiamo fatto quello che abbiamo voluto. Mentre giravamo, portavamo nei vari hotel – più che altro pensioni – una frappa di libri che pesavano più dei vestiti. E quei libri ci ricordavano: “Non dovete essere televisivi, dovete essere complessi”.
Filippo Timi e Carlotta Gamba: cos’hanno dato a Dostoevskij che non c’era già, e cosa a voi?
Fabio: A me in particolar modo hanno dato la voglia di esser genitore, e la paternità era una cosa lontanissima dal mio pensiero. Quando sei sul set, vedi due attori così bravi che scalciano in maniera così prepotente le verità della vita, ed è tutta energia. Poi, quando rivedi il film al montaggio, subentra il lato più razionale. Da spettatore comprendi tutto meglio: Dostoevskij l’ho visto in sala sei, sette volte e non mi ha mai stancato, non mi è mai venuta una crisi di rigetto come invece accadeva sempre prima. Favolacce, ad esempio, non riuscivo a guardarlo dopo averlo finito e montato. Ed è riguardando Dostoevskij che ho scoperto che mi piacerebbe essere padre, che mi piacerebbe avere qualcuno che ti guarda negli occhi e ti dice “Hai sbagliato”, ma con amore. Tutti te lo possono dire, ma l’amore col quale te lo può dire un figlio o una figlia non ha valore.
Damiano: Ti racconto com’è nata con Filippo, perché a posteriori fa ridere. Abbiamo iniziato i provini per Dostoevskij a fine 2021 e sono durati tantissimo, nove mesi. Prima di iniziare quella fase ci vediamo sempre in un bar con i nostri direttori di casting Davide Zurolo, Gabriella Giannattasio ed Eleonora Barbiero – lavoriamo con loro dal primo film – e facciamo questo giochino: ognuno porta le foto stampate dei primi attori che vorrebbe provinare, e un po’ tutti avevamo messo Filippo. Poi Filippo è arrivato, e io e Fabio abbiamo subito avuto il presentimento che sarebbe stato quello che poi è stato. Al provino è stato di una bravura sconvolgente, e non parlo solo dell’attore, ma dell’umanità che si porta dietro. Noi siamo registi che fanno i provini, e abbiamo preso Filippo e Carlotta perché hanno fatto i provini migliori, ma anche a livello umano. Hanno un’aderenza con il nostro immaginario, con i nostri misteri, i nostri segreti e i nostri ricordi che in certi momenti ha del vergognoso. Ogni tanto io e Fabio ci guardavamo e dovevamo abbassare lo sguardo perché vedevamo le stesse cose l’uno negli occhi dell’altro, e questa è una cosa che con mio fratello mi capita tutti i giorni, ci sono abituato, ma non credevo che con Carlotta e Filippo ci sarebbe potuto essere questo dialogo senza parlarsi, soprattutto nei momenti in cui le cose si facevano difficili. Le scene più complesse di Dostoevskij – il lungo piano sequenza al mare e la scena nel motel – appartengono a Filippo e Carlotta, e spesso sono in tandem. Prima e dopo quelle scene penso che ci saremmo detti in tutto sette parole, perché non serviva, perché c’era già stato tutto.
In una telefonata a parte, chiedo a Filippo Timi questa cosa dei ricordi, dei segreti. E lui comincia dall’aranciata al centro di una scena chiave di Dostoevskij. «L’aranciata che vuole Ambra, quella “originale, non fake”, è sicuramente un ricordo dei Fratelli. Quell’aranciata appartiene a loro, e l’ho capito da come guardavano Carlotta e me quando giravamo quella scena. Non è tanto questione di primi piani, ma di saper raccontare i luoghi interni. Nel cinema dei Fratelli non c’è né il primo né il secondo piano: ci sono i pianerottoli esistenziali, come li chiamo io. Hanno capito che per sfiorare certe profondità di analisi, di emozione, e anche estetiche, devi guardare il deserto o l’inferno che hai dentro. Loro lo mettono in conto, sempre. Vanno a scavare in qualcosa che non è il segreto, ma l’arcaico. Tutti nella nostra infanzia abbiamo avuto quella stessa disperazione. Appartiene a tutti il primo abbraccio mancato. La prima volta che tua mamma ti ha detto una bugia ed è crollato il mondo: lei, da cui mi faccio persino mettere le supposte di glicerina in culo, dice una bugia a me! Lavorando con loro rivivi quella disperazione primordiale, per osmosi o per empatia senti che risuona ancora in te. E poi aggiungici il loro sguardo, la fotografia di Matteo Cocco, e Bach nella colonna sonora. Vedi Dostoevskij e ti immagini Bach che viene nella tomba e urla: “Sììì”».
Parliamo del vostro pubblico. Chi vi guarda è gente che dal cinema in parte non ti aspetti, e l’ho visto quando abbiamo presentato insieme Dostoevskij quest’estate. Le ragazzine che vi portavano i braccialetti alla Taylor Swift coi vostri nomi, le signore vestite da cowgirl, gente giovanissima, gente vecchissima…
Fabio: Alla fine uno scopre in quelle situazioni che i film che fa, le serie che fa, qualsiasi storia che racconta deve essere digerita dal pubblico. È lì che capisci cosa hai realizzato: solo e solamente quando te lo racconta qualcun altro. Il film è molto più di chi lo guada che di chi lo fa, e so che può sembrare un paradosso, un’esagerazione, ma è veramente così.
Damiano: In questi – quanti sono? – otto anni da quando abbiamo iniziato a fare questo lavoro, molte persone che io incontro e quindi pochissime, perché non esco mai di casa… ma ecco, quando le incontro per strada e mi fermano mi rendo conto che amano i nostri film perché sentono che non c’è uno scarto di registro rispetto a quello che siamo nella realtà. Che siano film magari non compiuti, non riusciti, le persone riconoscono comunque un lessico che non è costruito, mediato, compromesso. È un lessico che continua ad essere selvaggio, selvatico, sparuto, a volte anche completamente disadattato. Per esempio, ieri eravamo alla festa di Dostoevskij e io volevo fa’ parte no d’aa tappezzeria, ma proprio delle pentole che stavano nella cucina dietro. Ogni volta che sento qualcosa di celebrativo, come tutti i ladri tendo a volè scappà, “Cazzo, m’hanno beccato, che si fa adesso?”. Sento che tutto quello che ha a che fa con l’ostentazione mi è poco avvezzo, motivo per il quale spesso quelle che seguono i nostri film sono persone curiose, strambe, vivaddio, e io mi ritrovo tantissimo in loro.
Fabio: È così, ed è bello. Anch’io quando esco pe’ strada c’è quello in motorino che te lancia un grido de sostegno, ma anche la signora che vedi al supermercato e te dice “Andate avanti così”, come se veramente fosse una nonna, ed è bellissimo riuscire ad essere trasversali in questo modo. Non credo che avremo mai certi numeri di autori che sono forse più immediati, più nazionalpopolari, che risuonano con una maggior semplicità per tutti. Però in ogni fascia di età e in ogni estrazione sociale e politica chiunque riesce in qualche modo a dialogare col nostro cinema. Non saranno numeri giganteschi, ma è un bacino a suo modo vastissimo.
Ma i numeri – tornando anche a quelli “impietosi” degli autori che prima citavate – davvero non vi interessano?
Damiano: Zero. Per noi il numero è sempre il 6-, che era il voto che prendevamo a scuola. Venivamo promossi sempre con tre debiti, e ci siamo diplomati all’alberghiero con 60 e 61. Ciò che per noi è essenziale è che il numero sia quantomeno sufficiente a farci fare il film successivo. Autori come me e Fabio vivono anche del mondo critico, della qualità del film più che di come va a livello di box office. Se faccio la conta dei miei amici una mano mi basta e avanza, e questo è legato anche al cinema che facciamo. Io e Fabio siamo persone molto schive, e lo siamo anche come registi. Recentemente, mentre camminavo col mio cane, ho compreso che i film che piacciono a tutti sono i film che non parlano a nessuno. I film che hanno un consenso così largo e popolare temo che siano quelli che non puntano il dito verso nessuno, ma non per forza un dito aggressivo, anche una carezza. Mi pare che non appartengano a nessuno, motivo per il quale tutti vanno a vederli: perché non dovranno tornare a casa e rifletterci. E per me questo è destabilizzante, perché per me l’arte, alta o bassa che sia, deve essere scomoda, devi darti un po’ di prurito, altrimenti vatte a fà ’n massaggio.
Fabio: Questa ossessione per i numeri ha creato grandissime disgrazie. Uno pensa che i film se possono fà con la calcolatrice, e non è così. Tutti i progetti che nascono per piacere al pubblico sono come certe persone che quando si presentano ti fanno un sorriso a trentadue denti, e se sente subito la puzza de fake. Idem al cinema con quelle storie studiate a tavolino, dimenticabili, piene di frasi fatte. Il cinema non è McDonald’s, non è Starbucks, non è Spotify. Uno sogna di fare cinema, ma solo quando scopre che fare cinema vuol dire raccontarsi, allora può iniziare a farlo davvero. Poi se arriverà a pensare “Ora voglio incassà 40 milioni di euro e comprare la villa con la piscina” va benissimo. Ma io spero che questo pensiero non mi raggiunga mai.
È il mondo, senza le piscine, di chi sta fuori dal mondo, o che s’è inventato un altro mondo. Ancora Timi: «Forse l’aggancio tra noi è quello tra figli sbagliati. Mi viene in mente un episodio di tanti anni fa con Sabrina Ferilli. Vedo La grande bellezza, chiedmi o alla mia agente di avere il suo numero – cosa che non faccio mai – e la chiamo per dirle che è stata bravissima, che sembrava Anna Magnani. E lei mi fa: “A Fili’, grazie, ma noi siamo uguali: c’abbiamo la tristezza negli occhi. La ferita”. È nelle ferite che ci si sente vicini, e così è stato anche coi D’Innocenzo. Nel dolore. Nel sentirsi fuori posto. Io già appartenevo a loro, ancora prima di incontrarli. I Fratelli si sono creati il loro posto, come anch’io il mio. Non assomigliavo a niente, e allora mi sono dovuto creare il mio posto, sono dovuto diventare un po’ autore di me stesso. Alcuni attori sono più esecutori, altri più autori, e un regista deve saper riconoscere in questi la consapevolezza autoriale».
Damiano diceva del sentirvi ladri. E capisco il senso, ma questo forse ha dato agio ai miei colleghi di definirvi – e di continuare a farlo anche oggi – due improvvisati, i registi venuti dal niente che un po’ gli è anche andata di culo, quando invece vi siete sempre preparati, e arrivate sul set tutt’altro che improvvisati.
Fabio: Vedo tanti improvvisati che c’hanno pure cognomi blasonati e altisonanti e fanno film demmerda. Noi siamo ancora adesso degli outsider e lo siamo perché questo è il nostro Dna: non possiamo forzarci a cambiarlo, e a me in primis non me ne frega nulla. Io credo che l’irruenza che io e Damiano abbiamo portato dentro un tipo di cinema che era iper statico, immobile e anche – e lo dico nell’accezione negativa – di una borghesia terrificante l’abbiamo scardinato, l’abbiamo preso a cazzotti, e adesso vedo invece quanti film simili a Favolacce sono stati fatti, con quella rincorsa al fantastico, allo screanzato, all’eccentrico, al bizzarro, al macabro; oggi ci sono tantissimi film così, girati anche dai “figli di” e dalle “figlie di”. Non è tanto il discorso dell’essere improvvisati o no, è che semplicemente quando arriva qualcosa di nuovo è sempre visto con l’occhio cattivo, con lo sguardo giudicante, perché fa paura, perché è sconosciuto. Quando una persona si avvicina non pensi mai che ti dirà che sei bellissimo, pensi: “Mi chiederà dei soldi, oppure da magnà”. Siamo sempre predisposti alla paura davanti agli incontri con gli sconosciuti, e con noi è successo questo: siamo arrivati non vaccinati, come dei gatti randagi.
E quando siete stati ammessi alla massima istituzione del cinema italiano – cioè il concorso di Venezia – e America Latina è stato accolto così così, in tanti in fondo ci hanno goduto.
Damiano: Sì, è proprio così. Detto ciò, me ne frega poco perché abbiamo sgamato questo gioco molto presto.
Con La terra dell’abbastanza dicevano: “Che belli, che dolci che so’, sembrano due gatti bagnati che hanno fatto un film caruccio preso un po’ de qua e un po’ de là da Caligari”, con tutto il rispetto per il maestro assoluto che è Caligari, a cui dobbiamo solo lustrare le scarpe. Quelle erano le pareti a cui si appigliavano le persone che avevano paura non di noi ma del cambiamento, di perdere la seggiolina de legno e i David che avevano messo dietro in bella mostra, nelle loro case volgari. Poi con Favolacce hanno iniziato a dirci: “Bello, però sono i gemelli Gucci, e il film piace a chi è mezzo matto, a chi è un po’ strano”. E poi America Latina: “Ah, che bello che non hanno vinto un cazzo, magari adesso si danno una ridimensionata”. Ma io so benissimo qual è la mia dimensione, non c’ho bisogno di fare un film per alimentare il mio status. Quello che m’interessa è quello che tu hai segnalato con grandissima precisione e anche presunzione, ma è perfetto: tu hai detto che noi facciamo film che ci devono piacere, ed è esattamente questo. Noi facciamo i film che ci piacciono, di conseguenza non abbiamo una reverenza verso lo sguardo altrui. Che non significa che me ne frego di come vengono presi i nostri film, di quanto vengono amati o meno. La realtà è che io li faccio per Fabio e Fabio li fa per me. Noi siamo i più severi del mondo verso noi stessi, motivo per cui quando un film esce è stato passato al setaccio più severo e più rabbioso, che è quello mio e di mio fratello. Se siamo stati bravi il film sarà bello, se non siamo stati bravi il film sarà niente di che. Ma tutto ciò che è accessorio – come appunto l’etichetta, le semplificazioni del tipo “Quelli sono due che te possono menà” (mai toccato neanche una mosca), “Quelli rispondono male sui social” (io me li so’ levati, Fabio ce gioca) – piano piano sta un po’ a finì, stanno un po’ a finì i possibili appigli. Detto ciò, io in questi anni tra i registi e gli sceneggiatori ho conosciuto delle persone straordinarie, che sono diventate per me dei grandi riferimenti soprattutto umani, perciò non voglio fare una generalizzazione. Riesco benissimo a capire chi me fa un sorriso pensando che non vede l’ora che moriamo artisticamente e chi invece è veramente felice quando esce un nostro film. Parimenti, quando un nostro collega fa un film meraviglioso e alza l’asticella per tutti io so’ felicissimo. Quando qualcuno vince un premio so’ felicissimo, perché quel premio è per tutti noi, non rendersene conto non è solo stupido, è anche un autogol.
Fabio: Nel nostro cinema è arrivato quel miracolo incredibile di Alice Rohrwacher, per esempio. E c’è quel meraviglioso gentleman dei sentimenti che è Jonas Carpignano. E Alain Parroni e Simone Bozzelli, che hanno appena iniziato e già hanno una loro cifra, un modo di essere. E Maura Delpero, che ha fatto un film bellissimo [Vermiglio] con grandissima grazia e con un grandissimo lavoro di intarsio, di precisione millimetrica.
Come si fa a diventare di moda essendo e volendo restare, come vi definite spesso voi, fuori moda?
Fabio: Credo con la resistenza. Se quando fai solo due film hai già altri film “alla D’Innocenzo”, ti chiedi: come cazzo è possibile? Nemmeno io ancora so chi sono. La resistenza sarà quella che consentirà a me e Damiano negli anni che verranno di continuare con il nostro processo, qualsiasi esso sarà. Possiamo cambiare completamente genere o stile, oppure semplicemente storia, ma sento che il nostro pubblico si sta allargando, e lo sta facendo con la dinamica più redditizia, ovvero: è il pubblico che ti scopre e che si avvicina a te, non tu che fai un passo verso il pubblico. Il pubblico ti amerà o ti odierà, ma lo farà da solo: se non è imbeccato, si sente libero, perché sa che il nostro cinema non è il frutto di previsioni e di calcoli. È accaduto e basta. Non arriveremo mai alla grandezza di Paolo Sorrentino, perché è un filmmaker inarrivabile e perché è di un’abilità e di un’onestà con sé stesso incredibili, ma Sorrentino non ha mai cambiato il suo modo di fare cinema, non ha mai detto: “Amatemi”. Il pubblico è arrivato ad amarlo perché ha sempre riconosciuto il fatto che fosse sé stesso senza compromessi, e adesso quando esce un film di Sorrentino andiamo tutti al cinema perché vogliamo vedere cosa ha fatto anche se non ci piacerà. Essere sé stessi è la cosa più complicata nel cinema.
Essere sé stessi anche nel male, nel nero. Anche nelle paure. Così dice Dostoevskij. E ci dice anche che forse è nella paura che sta la vera libertà, anche quella dei D’Innocenzo. Prima però lo chiedo a Filippi Timi, e lui mi risponde: «La paura è un coefficiente della libertà, e io la associo alle possibilità: se hai la possibilità massima, allora avrai il terrore massimo. Oggi per me sentirmi libero vuol dire aderire a quello che sento, essere congruo a me stesso. È un desiderio di profondità, la stessa che ho trovato nei Fratelli. Per questo sono diversi da tutti gli altri. Ragionano come me. Ormai ho capito che il punto è: invece di chiedere di essere accettato, magari accettati tu».
Lo chiedo anche a voi, rubando le parole a Filippo Timi: la libertà è sempre un coefficiente della paura?
Damiano: La libertà senza la paura è proprio la morte: solo quando uno schiatta non ha più paura. In questo momento la libertà per me e Fabio è scrivere per altri registi, cosa che abbiamo fatto in quest’anno in cui dovevamo promuovere Dostoevskij e volevamo lo spazio per farlo. Abbiamo scritto quattro film per altri registi, e spero che si faranno. Io e Fabio non siamo registi che devono andare sul set per forza, tanto per fare un altro film. Avendo per nascita, a livello economico, un baricentro medio basso, non abbiamo bisogno di farci le vacanze da ventimila euro. Viviamo con poco, e in questi anni una casa a testa ce la siamo comprata. C’è tutto il mutuo da pagà, certo, ma quello senza troppe cazzate se paga. La fortuna incredibile è poter scegliere quando fare un nuovo film, e in questo momento lo stiamo cercando. Ed è proprio qui che subentra la paura. La paura che non ritroverai la medesima paura, anche. Che non troverai la storia che ti va di raccontare e a un certo punto dovrai accontentarti, dovrai girare una storia che non avrà quel tipo di schiocco che noi cerchiamo anche nei fallimenti. Magari il prossimo film sarà un disastro assoluto, ma deve alimentare in me e Fabio quella paura che poi fa sì che si crei la bellezza. Io non credo che la bellezza si crei senza la paura. È la paura che ha forgiato i più grandi scrittori, i più grandi registi. E pure le più grandi storie d’amore.