«Abito qui da più di cinquant’anni, da tutta una vita, e ora dovrò andarmene perché lo stabile è stato ripreso dalle suore. Ironico, no?». È così che mi accoglie nella sua casa nel quartiere Ticinese di Milano Renato Pozzetto, con quel piglio sarcastico e furbo che l’ha reso un’icona della cultura pop italiana e con quegli occhi un po’ sempre a mezz’asta, oggi (che ha 83 anni) come ieri, in cui rivedo un po’ il mio sguardo, e quello di mio nonno. Cinquant’anni giusti, dicevamo, come gli anni passati dal suo primo film come attore (Per amare Ofelia), punto di divisione perfetto tra il Pozzetto del cabaret degli anni ’60 e ’70 e il Pozzetto attore che segnerà gran parte del resto della sua carriera.
Nei dieci anni prima di Per amare Ofelia, Pozzetto e il suo inseparabile amico d’infanzia Cochi Ponzoni («ci conosciamo da quando eravamo piccoli, le nostre famiglie erano scappate dalla guerra a Gemonio, un paese poco distante dal Lago Maggiore») sono al centro della movimentata scena artistica milanese che porterà alla nascita del cabaret. Come Cochi e Renato iniziano esibendosi nelle osterie e nei circoli operai («i nostri posti preferiti», scriverà) mischiando canzoni popolari di lavoro e libertà. Attorno a loro Milano brulica di talenti che faranno presto la storia della cultura italiana: Giorgio Gaber (che dei due diventò insegnante di chitarra), Dario Fo (il Premio Nobel li aiutò a perfezionare il mestiere firmando anche la loro Mamma vado a Voghera), Piero Manzoni («ci invitò a casa sua in Brera per aiutarlo a creare le sue Linee»), Lucio Fontana («vivace, elegante, generosissimo») e Enzo Jannacci («il nostro faro»). Sarà proprio la conoscenza con Jannacci a cambiare le sorti del duo. Il musicista li seguirà dagli esordi del cabaret al Cab ’64 e al Derby Club fino ai programmi Rai, musicando tutti i brani del duo (e quindi tutti i cinque dischi), unendosi a loro nel collettivo formato con Bruno Lauzi, Lino Toffolo, Felice Andreasi, il Gruppo Motore. E sarà proprio a Jannacci che un giovane Pozzetto farà leggere la sceneggiatura di Per amare Ofelia, ricevendo come risposta: «È una cagata!».
I cinquant’anni dopo quell’evento spartiacque saranno invece quelli del successo nazionalpopolare con decenni – come gli anni ’70 e ’80 – in cui Pozzetto si trova a recitare anche in 4-5 film l’anno. «Non credo di essere riuscito a trasferire il mio umorismo, quello surreale, dal cabaret al cinema», mi racconta. «Al cinema volevano che la comicità fosse sempre legata al sesso, ma per me non funzionava». Parentesi a parte Il ragazzo di campagna, un ruolo, quello di Artemio, che sembra essergli cucito addosso da Castellano e Pipolo e che ancora oggi lo riempie d’orgoglio. «Sai, non hanno mai smesso di fermarmi per strada e recitarmi quelle battute del film a memoria». Dopo un breve ritorno teatrale con Cochi, un ultimo film nel 2021 – Lei mi parla ancora di Pupi Avanti – che gli vale un Nastro d’argento. L’altro unico Nastro d’argento l’aveva vinto proprio con Per amare Ofelia cinquant’anni prima. E poi il ritiro.
Così Renato Pozzetto ha finalmente trovato il tempo di fare quello che gli amici di una vita gli consigliavano da sempre: scrivere un’autobiografia. Ne uccide più la gola che la sciarpa (Rizzoli), questo il titolo, è come una chiacchiera in un’osteria, senza una linea temporale o un ordine preciso di eventi, quanto piuttosto un balzare nel tempo dei ricordi con la leggerezza di sempre.
Come mai ha scelto di pubblicare proprio ora quest’autobiografia?
Ho avuto molte proposte da vari editori nell’arco degli anni, ed era da un bel po’ che i miei amici mi consigliavano di scriverla. Era forse l’ultimo momento buono. La struttura del libro non segue una linea temporale precisa, ma salto di palo in frasca, ricordando quello che mi veniva in mente, come un gruppo di amici che si ritrova in osteria a raccontarsi le storie vissute assieme.
Proprio un’osteria è uno dei luoghi principali della sua formazione, parliamo de L’Oca d’Oro a Milano. Che clima c’era?
Lì in via Lentasio trovavi me e Cochi a strimpellare la chitarra, con i nostri amici che dicevano cazzate e cantavano con noi, artisti che venivano a mangiarsi un piatto di pasta, a bersi un bicchiere di vino. L’oste (Pino Pomé) era molto simpatico, un anarchico bestiale che mi ha suggerito di ascoltare delle canzoni di lavoro e di libertà, di anarchia, che noi poi intonavamo nell’osteria insieme alle altre cose, soprattutto popolari, che conoscevamo.
Come è nato il rapporto lavorativo tra lei e Cochi?
Siamo cresciuti assieme. Ci conoscevamo già da quando eravamo piccoli perché le nostre famiglie erano scappate dalla guerra a Gemonio, un paese poco distante dal Lago Maggiore. Poi siamo rientrati a Milano. Eravamo sempre assieme, ogni giorno. Ci piaceva cantare, per puro divertimento. Lui sapeva qualche accordo, io lo seguivo.
Altro luogo fondamentale in quei giorni era la galleria d’arte La Muffola, vero ritrovo culturale di una certa Milano.
Tinin Mantegazza e sua moglie Velia ebbero la brillante idea di aprire una galleria d’arte vicino all’Oca d’oro. Era aperta la sera, a volte apriva anche alle 22, così che i frequentatori dell’osteria – che erano soprattutto musicisti e artisti come Lucio Fontana e Piero Manzoni – potessero raggiungerla dopo cena. Praticamente ci si incontrava davanti a un bicchiere di vino e si continuava poi in galleria. E lì iniziarono ad arrivare anche Enzo Jannacci, Giorgio Gaber, Maria Monti, Dario Fo, che trovavano me e Cochi a suonare e cantare come dei disperati, soprattutto durante i vernissage. E così anche loro iniziarono a cantare le loro canzoni che già avevano un certo successo.
E da qui partono due storie. Una tra lei, Cochi e Gaber.
Sì, Gaber gradiva le nostre canzoni ma voleva insegnarci a suonare la chitarra un po’ meglio. Cochi era portato, migliorava, io invece no, non combinavano nulla e gli dissi: “Guarda Giorgio, meglio che la smetta di romperti le balle”.
L’altra con un amico con cui lei e Cochi avete collaborato a lungo, Enzo Jannacci.
Enzo si era incuriosito al nostro modo di scrivere, di raccontare, e soprattutto al nostro modo di proporre le storie nelle nostre canzoni. Aveva visto qualcosa in noi. Ci aiutava a scrivere, musicava i nostri brani. Veniva spesso al Cab ’64, il primo cabaret in cui abbiamo iniziato a esibirci sempre aperto dai coniugi Mantegazza, spesso per darci una mano. Era il nostro faro. Un caro amico.
Con Jannacci condividevate anche una certa vena surreale che ha contraddistinto la vostra cifra stilistica nel cabaret.
Avevamo modi di proporci non molto distanti. Noi avevamo iniziato ad azzardarci a scrivere delle canzoni. Enzo ci ha ispirati, soprattutto nel modo di raccontarsi, nella pulizia, lui che aveva un’impostazione abbastanza seria. E spesso capitava che nei pomeriggi dove si facevano le prove ci si trovasse a parlare del nostro mestiere o a sviluppare nuove idee per uno o l’altro progetto.
Da dove arrivava la vostra ispirazione?
Da noi stessi, dal nostro mondo. Ognuno di noi aveva dei modi peculiari. A volte invece prendevamo in prestito delle espressioni di qualche amico o di qualche disperato che ci frequentava, come il mio celebre “taaac!“, che era un modo di dire di Mario Valera, un assiduo frequentatore del Derby Club: tutto faceva brodo. A noi ci piaceva incontrarci e cantare, così sperimentavano.
Vorrei tornare alla vostra comicità e alle sue venature surreali. La vostra convivenza con artisti del mondo dell’arte come Lucio Fontana e Piero Manzoni vi ha aiutato a sviluppare una visione differente di esprimervi e raccontare? Mi viene in mente ad esempio la descrizione del mare in A me mi piace il mare: “Tutta una roba piena d’acqua, ma non fissa come al Palazzo del ghiaccio, essa è tutta semovibile. Semovibile, alto, basso”.
Sì, è vero, certi momenti di quel pezzo sembrano la descrizione di un quadro di arte contemporanea. Sai, L’Oca d’Oro aveva capito che poteva avere questa clientela di artisti e musicisti in cambio di qualche panino o un bicchiere. Forse scambiare parole con loro, con il loro modo di pensare e di parlare, ci ha aiutato a sviluppare ancor più questo nostro modo di fare surreale, astratto. E si vede che in me e Cochi c’era una curiosità per questo modo di raccontare.
«Gaber gradiva le nostre canzoni ma voleva insegnarci a suonare la chitarra un po' meglio. Cochi era portato, io non combinavano nulla. Gli dissi: “Guarda Giorgio, meglio che la smetta di romperti le balle”»
Un’altra cosa molto importante nel vostro cabaret era l’utilizzo del corpo, penso ad esempio alle coreografie delle vostre esibizioni, una su tutte quella de La canzone intelligente.
Provavamo a casa e al Derby. La nostra gavetta consisteva nello sperimentare. Aver avuto un’amicizia come quella con Dario Fo è stato utile. Andavamo a vederlo a teatro anche se non avevamo mai soldi, ma Dario Fo era una cosa speciale da vedere. Da lui abbiamo imparato anche ad utilizzare la voce in un certo modo e – come con Jannacci – a continuare lo sviluppo di quel nostro linguaggio surreale.
E dopo il primo cabaret, il citato Cab ’64, è stato il turno del Derby Club, altro luogo fondamentale per lei e per la scena culturale milanese. Pensiamo solo che il Derby ha lanciato artisti come Diego Abatantuono, Massimo Boldi, i Gatti di Vicolo Miracoli, Gino e Michele, il Dogui, Teo Teocoli e il Gruppo Motore, il collettivo composto da lei, Cochi, Jannacci, Lino Toffolo, Felice Andreasi e Bruno Lauzi.
Al Derby siamo partiti con un pubblico di 20 persone, e poi siamo arrivati a più di 100. Gianni Bongiovanni, il proprietario, continuava a mettere tavoli e sedie per far star più gente. Noi sul palco ci buttavamo, facevamo le nostre cose, anche perché prima di ogni serata Bongiovanni stilava una scaletta in base a chi era più gradito dal pubblico. C’era chi cantava, chi suonava, chi faceva cabaret.
Il cabaret a Milano, come ci ha già accennato, non è una storia solitaria, ma collettiva. Anche lei parla spesso al plurale, usando il “noi”.
Al Derby quando qualcuno di noi si esibiva, gli altri gli facevano le luci. Giusto per spiegarti il clima. Facevamo tardi assieme, ci fermavamo dopo lo spettacolo a mangiare un piatto di spaghetti e poi rientravamo che era l’alba e c’era la fiera di Senigallia, il mercato dell’usato storico di Milano. Ma questo clima è durato per un bel po’, anche nelle tournée e durante i periodi in televisione.
Tra l’altro il Derby era un locale per il cabaret, ma immagino che nessuno di voi avesse idea di cosa fosse il cabaret, l’avete praticamente inventato.
Il cabaret nasceva allora, c’erano stati davvero pochi esempi prima di noi. Noi gli abbiamo dato un bel colpo. Sai, ci bastavano davvero due oggetti – una chitarra e una sedia – e il gioco era fatto.
Da dove arrivava la scelta di veicolare la comicità attraverso le canzoni?
Le canzoni avevano il vantaggio di poter essere riascoltate anche a casa o nei ritrovi dei ragazzi. Erano altri tempi.
Così arriva il successo, e la Rai.
Sì, la voce ha iniziato a girare. Con il Gruppo Motore abbiamo lanciato uno spettacolo chiamato Saltimbanchi si muore, che veniva gente da tutta la Lombardia e il Piemonte per noi. Così gli autori Rai – alcuni dei quali frequentatori del Derby – si sono incuriositi dal nostro modo di raccontare e ci hanno presi e abbiamo fatto Quelli della domenica con Paolo Villaggio, nel ’68, e il primo varietà da noi condotto, Il buono e il cattivo, nel ’72. Abbiamo fatto presa sui giovani, i ragazzi delle scuole cantavano le nostre canzoni.
Ricorda quando ha realizzato che non era solo più un divertimento per un certo pubblico milanese ma un vero successo nazionale?
Non ricordo il primo autografo, ma posso dirti questo. In quel periodo si andava in moto senza casco. Passavo davanti alle scuole e i ragazzi mi urlavano e mi chiamavano “Cochi e Renato”, perché per loro anche anche io da solo ero “Cochi e Renato”, come fosse un nome solo (ride).
Immagino arrivarono anche un po’ più di sicurezze economiche.
I cachet erano aumentati, stavamo meglio perché prima non si guadagnava niente. In quel periodo, quando giravamo per gli spettacoli col Gruppo Motore, ci dividevamo i soldi degli incassi tenendo presente quale dei nostri colleghi avesse maggiore necessità, tra famiglia, figli, l’essere lontani dalla propria casa, cose così. Ci si sosteneva.
Il grande salto, infine, è stato il cinema. Da un lato una serie di successi incredibili, dall’altra la conclusione del suo percorso con Cochi.
Già prima del mio primo ruolo ci avevano fatto delle offerte, ma cose già viste, macchiette come il poliziotto, il prete, il carabiniere. Noi invece volevamo qualcosa di bello. Ho aspettato finché non mi hanno proposto Per amare Ofelia, una coproduzione italo-spagnola. Era il 1974. Ricordo di aver fatto leggere il copione a Cochi, che mi ha detto: “Ma Renato, fai quello che credi”. Per noi doveva essere un passaggio, la nostra vita ormai era il cabaret. Invece quando lo feci leggere a Jannacci mi disse: “È una cagata!”.
Come rispose a Jannacci?
Imitando una sua canzone, Prete Liprando. Gli cantai: “E io lo faccio lo stesso”.
«Jannacci aveva visto qualcosa in me e Cochi. Ci aiutava a scrivere, musicava i nostri brani. Era il nostro faro. Un caro amico»
Alla fine chi aveva ragione?
Il film è andato bene e ho anche vinto il Nastro d’argento come miglior attore esordiente. E comunque ero tranquillo perché anche Cochi era stato chiamato per un altro film, eravamo entrambi a posto. E così siamo andati avanti ognuno un po’ per i fatti propri, cercando di portare il nostro mondo all’interno dei personaggi che interpretavamo.
La sua carriera cinematografia è partita subito molto forte: c’erano periodi negli anni ’70 e ’80 in cui recitava anche in 4-5 film l’anno.
Non erano in tanti ad avere il nostro modo, diciamo, cabarettistico di proporsi. E quindi capitava spesso che mentre giravo un film me ne proponevano un altro. E spesso si accavallavano. Sono fiero però perché ho iniziato con un Nastro d’argento e ho finito con un altro Nastro e una candidatura ai David di Donatello per Lei mi parla ancora di Pupi Avati.
Il passaggio dal cabaret e dalla tv al cinema è stato semplice o traumatico?
Ho sempre provato a portare il linguaggio del cabaret nel cinema, ma era faticoso. Il cinema ci ha portato nuovi argomenti, non nostri, come ad esempio il sesso. Il sesso c’era sempre al cinema, una differenza enorme con il materiale umoristico a cui eravamo abituati. Così era difficile proporre la nostra formula surreale.
Pensa di esserci almeno in parte riuscito in questa trasposizione?
Io personalmente non sono riuscito a tradurre nel cinema le mie cose del cabaret. Facevo fatica anche perché non erano gradite come nel teatro-cabaret. Il teatro, tra l’altro, richiede anche un po’ di fantasia, perché nel teatro si racconta e spesso l’immagine passa in secondo piano.
Immagino comunque ci siano film di cui lei è parecchio orgoglioso.
Sì, penso ad esempio a Il ragazzo di campagna di Castellano e Pipolo. Mi dicono che fa ancora un ottimo share quando lo passano in televisione. La gente mi ferma ancora per strada, mi chiama Artemio e mi ripete le battute del film.
Qualche tempo fa ho intervistato Jerry Calà, e lui ha indicato lei come suo maestro. Lei vede qualcuno come suo erede?
Non seguo molto, faccio fatica, sono tutti troppo diversi da me. Ma è normale così, succede sempre, come ai tempi era successo con noi e quelli che c’erano stati prima di noi. Rinnovarsi è un processo necessario, impegnativo ma necessario. Ora il cabaret però manca, le proposte televisive sono dure.
Lei e Cochi infine vi siete ritrovati e siete anche tornati a quelle proposte televisione, penso ad esempio a Zelig, e al teatro.
Abbiamo fatto teatro riportando le nostre cose, parlando anche di noi stessi, spesso invitando il pubblico a partecipare, a chiedere. Abbiamo avuto molto successo, ma ora basta, mi sono ritirato. La nostra forza è sempre stata quella di rinnovarsi. ora non era più possibile.
Ha rimpianti nella sua carriera?
Tante cose si potevano anche non fare, parlo del cinema, ma i produttori forzavano su certe cose, come l’umorismo legato al sesso che non ci apparteneva. Certi film potevo anche non farli, ma la spinta dei produttori era tale che dir di no ero molto difficile. Avevano questo trucco: mi proponevano un paio di film nel mio stile, che facevo molto volentieri, e come contraltare una serie di proposte loro più legate a quella comicità erotica. Non mi andavano molto, ma avevano molto successo.
Lei riguarda mai i suoi film?
No, ma quando ripropongono un mio film in televisione c’è sempre la chiamata di un amico o di un conoscente che mi avvisa. Mi è sempre piaciuto fare il cinema, perché mi piaceva quel modo di recitare: ero puntuale, leggevo i copioni coi registi, aiutavo con i dialoghi. Ma i miei film sono stati proposti talmente tante volte che non li riguardo più.
Un’ultima domanda legata a questa città che possiamo vedere oltre queste vetrate: le piace ancora Milano?
La città è molto cambiata, ma i cambiamenti oramai mi riguardano poco per il mio stile di vita di adesso. Una volta noi ci radunavamo nei bar, il bar era un pezzo di casa, un pezzo di noi, ma ora non ha più quel fascino. Ora Milano la vedo attraverso gli occhi dei miei figli.