A chi vuoi più bene, alla mamma o al papà? È una delle classiche domande che, prima o poi, qualsiasi genitore rivolge al proprio figlio, che sia per gioco o per ripicca. Ma se un giorno ci dovessimo davvero trovare di fronte a una scelta del genere che, in più, ha come conseguenza la scomparsa dell’uno o dell’altra, saremmo in grado di decidere? Tenendo conto anche di tutte le conseguenze che ne deriverebbero, sia umane che psicologiche. Difficile rispondere, almeno finché non si è costretti al terribile dilemma. A provare a indagare questo abisso è un film, Dall’alto di una fredda torre, diretto da Francesco Frangipane e scritto da Filippo Gili, l’autore della pièce originale da cui è tratto, dal 13 giugno al cinema con Lucky Red. Una normale famiglia composta da padre (Giorgio Colangeli), madre (Anna Bonaiuto) e due figli (Edoardo Pesce e Vanessa Scalera) viene sconvolta dalla notizia che entrambi i genitori sono gravemente malati. Come se non bastasse, soltanto uno dei due può essere salvato. E dovranno essere proprio i figli a decidere.
Una tragedia greca in chiave moderna che in più, rispetto alle tragedie greche, ha una colonna sonora che, seppur minimale, sembra svolgere la funzione di un personaggio aggiunto. A realizzarla è il chitarrista e cantautore Roberto Angelini, che ci ha spiegato come ci ha lavorato, tra lap steel, soundscape, droni e persino i silenzi che, in questa storia, fanno addirittura più rumore della musica.
Roberto, come ci si rapporta da musicista a una storia così drammatica e spietata?
Ho un rapporto decennale con Francesco Frangipane e Filippo Gili, perché ho musicato i loro spettacoli teatrali. Quindi conosco il loro modo di scrivere e questo dramma che si sono portati fino all’altro giorno in teatro, e ora al cinema. La grande fortuna di un musicista è incontrare un regista e creare una sinergia, altrimenti cambia tutto se devi lavorare a una colonna sonora in modo più standard, ancora peggio parlando con un regista che non ti sa spiegare bene il suo pensiero. In questo caso sono fortunatissimo, perché Francesco e Filippo hanno trovato nei miei suoni di lap steel, soundscape e droni le musiche per accompagnare i loro spettacoli. E mi hanno aiutato a realizzare queste musiche nel modo migliore per farlo.
Qual è il modo migliore per far esprimere un musicista al cinema?
Lavorare insieme. In studio mi facevano vedere tagli del film mentre io suonavo. Quando c’era qualcosa che gli sembrava adatto mi fermavano. Così sono nate musiche molto minimali, senza orchestrazione, con pochi suoni e di provenienza da una lap steel super effettata. L’idea di base è stata il suono che replica quello dell’elettrocardiogramma per il battito cardiaco. Da lì siamo partiti, e poi è diventato nell’insieme un’idea ritmica.
Hai aggiunto altre ispirazioni artistiche?
Da grande amante dei Radiohead ho sempre seguito il percorso di Jonny Greenwood. Ricordo che quando realizzò le musiche del Petroliere utilizzò elementi che erano presenti nel film per creare ritmo. Secondo me è una bellissima forma di interazione fra immagini e musica.
Anche perché se la musica sovrasta le immagini va a penalizzare il film, quindi immagino si debba trovare un equilibrio molto labile.
Assolutamente, anche perché la bellezza della poetica di Frangipane nel raccontare la storia è utilizzare il silenzio. Non a caso ci sono diversi momenti nei quali la musica non c’è. Mi ha ripetuto spesso che, se deve entrare qualcosa di sonoro, dev’essere qualcosa di importante. Lo condivido appieno. Mi erano capitate altre esperienze diverse e non proprio positive.
Per esempio?
A volte, se certe scene non sono venute bene, ti chiedono di “aiutarle” con la musica. Quindi se la scena deve far ridere ti chiedono una musica per invitare alla risata. Il termine tecnico è “musiche di commento”.
Una sorta di “stampella” alle immagini.
Sì, e io ho il terrore della “musica di commento”. Quando me la chiedono mi vengono i brividi. Invece, in questo caso, avendo un’esperienza decennale comune, siamo arrivati a questo film con la possibilità di realizzare musiche particolari per un film tosto e denso.
È sempre meno presente quest’idea, ma qualcuno, soprattutto in Italia, pensa ancora che realizzare le colonne sonore per un film sia un’attività di serie B per un musicista.
Io non ce la faccio a considerarlo minore, però inverto la questione. Molti pensano che al cinema possano essere più liberi di esprimere la propria musica, mentre invece è una grande illusione. Perché il percorso della musica nel cinema è uguale a quello nella musica nell’industria discografica. Ti può capitare di lavorare a cose davvero terribili se non trovi sintonia con il regista, o se ti costringe a sentire una musica di riferimento. E spesso ti fanno sentire dei capolavori, così si innesca lo stesso effetto di alcune pubblicità con “qualcosa che suona come, ma non è”. È la cosa più frustrante che può accadere a un musicista nel cinema.
Non mi sembra questo il caso.
No, infatti spero che Frangipane faccia cento film. Anche perché se ci pensiamo, senza voler fare paragoni ma ragionando dal punto di vista concettuale, nella storia del cinema ci sono state tante alleanze tra regista e compositore.
Sergio Leone ed Ennio Morricone, su tutti.
L’hai detto te! Senza volersi paragonare, l’idea è quella. Se ti trovi bene, perché cambiare? C’è un video del grande compositore delle musiche di Twin Peaks, Angelo Badalamenti, dove spiega come ha creato quelle colonne sonore: parte tutto dalla collaborazione con il regista. Certo, se il regista ha poche idee e ti chiede di appiccicare la musica tanto per riempire, è un disastro. Ma succede anche nella discografia.
In che modo?
Magari hai una buona idea, ma da quando ti è nata a quando viene pubblicata possono accadere mille cambiamenti. Come il discografico che dice: “Il ritornello non è buono, prova a farlo così”. E il “così” non è proprio il massimo, ma serviva per accelerare i tempi. Infatti, quando sento un musicista che riesce a pubblicare musica libera, capisco tutto lo sforzo e le battaglie che avrà dovuto combattere per mantenere una sua identità. Non è per niente facile.
L’ultima battaglia campale, dalla musica al cinema a tanti altri settori, è quella con l’intelligenza artificiale?
A me la distopia piace. E secondo me un giorno farà tutto l’intelligenza artificiale. Anche perché, come la fermi? Quello che succede oggi noi l’abbiamo vissuto anni fa, quando gli amichetti a scuola usavano il primo internet. Ce l’abbiamo fatta a bloccarlo? Oggi viviamo di tutto quello che i social ci propinano, e moltissime delle cose brutte che succedono arrivano da lì. Secondo me non riusciranno a bloccare l’intelligenza artificiale. Da qui a farle scrivere musica ce ne passa, ma dei colleghi mi hanno raccontato storie piuttosto inquietanti…
Cioè?
Un tempo io scrivevo un pezzo per un artista e lo cantavo, poi se gli piaceva lo cantava lui. Mentre oggi con l’intelligenza artificiale c’è la possibilità di replicare la voce di quell’artista. È forte come esperienza, però è anche un po’ spiazzante per i possibili sviluppi. Certo, per chi è fan di Black Mirror potrebbe essere una prospettiva interessante.
Mentre mi parli si sentono dietro di te i suoni di uno studio di registrazione. Stai lavorando a qualcos’altro in particolare?
Che dobbiamo fare? Ogni giorno si apre la serranda e si lavora. Nel frattempo, sto finendo un progetto con il mio vecchio amico Pier Cortese. Un disco di inediti che era finito in cantina, ma che ora concluderemo: abbiamo già un bel tour in vista da settembre. Parallelamente mi sto divertendo con Rodrigo D’Erasmo, con il quale ho fatto tante cose, e dovrebbe uscire un disco strumentale nel 2025. E a breve partono le prove del concertone al Circo Massimo di Fabi, Silvestri e Gazzè, con un mese di preparazione.
E poi ti rivedremo ancora a Propaganda Live su La7?
Sì, anche se questo venerdì è l’ultima puntata della stagione. Che è un po’ come l’ultimo giorno di scuola. Inizia a settembre e finisce a giugno, una vera esperienza scolastica.
Per tornare al film, a te è mai capitata una scelta tanto drastica?
Quando ti trovi di fronte a una scelta del genere, da un lato è un momento bello perché puoi percorrere strade molto forti, ma dall’altro ti giochi tutto e quello che decidi fa davvero la differenza. Sono i classici episodi preceduti da giornate complicate, dove ti ritrovi a pensare e ripensare. Vorrei non avere mai questo tipo di sensazione, però accade eccome. A me è capitato dopo il successo di Gattomatto di decidere di mollare tutto e ripartire da zero.
E alla fine è stata la scelta giusta?
Ho pensato: quel tipo di successo è in linea con ciò che sognavo da bambino? Ho avuto la forza di capire che non era quello che mi piaceva e mi sono ricostruito completamente. Oggi posso dire che è stata la scelta migliore che ho fatto nella vita, perché a distanza di vent’anni mi ha permesso di essere felice ed equilibrato nel mio mestiere. Sono abbastanza libero di partecipare a vari progetti, mi sento più persona che personaggio, non ho padroni o intorno yes-men ma i miei amici di sempre, e vivo la musica come l’avrei voluta vivere. Allora mi rifaccio la domanda da solo: era necessario passare da Gattomatto per capire di cambiare? Sì, altrimenti mi sarebbe rimasto il dubbio. Però sono felice di aver avuto la forza di svoltare.