Se conoscete il cinema di Roberto Minervini, sapete dove può portarvi. Adesso, dopo Bassa marea, Ferma il tuo cuore in affanno, Louisiana e Che fare quando il mondo è in fiamme?, restiamo dentro quel suo mondo, e però ne usciamo, per poi ritrovarci ancora lì dentro. I dannati, presentato a Cannes nella sezione Un certain regard e subito nelle sale dal 16 maggio con Lucky Red, è un viaggio all’indietro – siamo insieme a un gruppo di soldati nel pieno della Guerra di secessione americana – e ancora più dentro questi uomini solo apparentemente di un altro tempo. Un’altra comunità come quelle raccontate da questo marchigiano finito in America che ha saputo rivelarci l’America come pochissimi altri, americani compresi. Cominciamo la nostra chiacchierata senza indugi, tutto verrà fuori facendola. Come – ci dirà – succede sempre nel suo cinema.
Hai definito I dannati un “documentario di creazione”, e inizierei proprio da qui, da questa dicitura che mi piace molto, e che mi sembra essere in assoluta continuità col tuo cinema finora, anche se nel contempo lancia lo sguardo altrove.
La continuità con il mio cinema, con quello che ho sempre fatto, è totale, è vero. E quando parlo di continuità parlo soprattutto di continuità di pensiero. Ho sempre riflettuto su quale fosse il vero valore di questo cinema che viene chiamato “del reale”, che secondo me sta proprio nell’esperienza, nel fare un cinema altamente partecipativo, nel ricreare una condizione, uno spazio, che si va ad abitare insieme a dei personaggi, e in quello spazio si generano delle catarsi, e anche dei pensieri su sé stessi. Facendo così, mi è sempre sembrato di poter creare qualcosa di molto vivo, e quindi di reale, di vero. Per questo motivo è sempre esistita in me anche una riflessione su quali fossero i limiti della ricreazione di un contesto, quali fossero i confini di questi spazi. Il fatto che lo spazio fosse di finzione o meno ha ovviamente delle implicazioni sostanziali sul mio lavoro, ma per fare esperienza del reale, come dicevo, ho sempre pensato che anche nella finzione questi limiti fossero meno presenti di quanto uno potesse pensare. Era da tempo che attendevo il momento giusto per poter finalmente fare questo salto, per creare un contesto di finzione, nel passato, per ricreare quelle stesse condizioni. Ci siamo spostati nel Montana, abbiamo coinvolto le comunità locali e la storia si è costruita facendola, c’è sempre un aspetto autogenetico della storia nei miei film. Quindi, tornando alla domanda iniziale, sì, ci trovo una continuità di metodo e di pensiero massima.
È perturbante, da spettatori, vedere che anche i tuoi personaggi si autogenerano, per così dire, e che, anche se sono immaginati, sembrano totalmente reali.
Uno dei presupposti del mio cinema – e ci tengo a dire che io li comprendo a consuntivo, guardando a ritroso i film che ho fatto – è questa commistione tra performance e scrittura, tra la performance più consapevole dell’esistere sullo schermo e quella più primordiale dell’essere sé stessi. Tutto ciò è fondamentale, nella creazione di una storia. Faccio il massimo affidamento sui personaggi e sulla loro abilità di raccontare, e quindi di scrivere storie. Il grosso del mio lavoro avviene sempre nel momento in cui scelgo i personaggi, ed è un momento che parte col concepimento del film e finisce alla chiusura delle riprese, perché i personaggi continuo a sceglierli strada facendo. In questo caso specifico, il film parte con un certo numero di personaggi e finisce con numero inferiore, e quella scelta è stata fatta sul momento. Ed è una cosa che trascende completamente la finzione, perché è molto vera. È sempre una sorta di “auto racconto” dei personaggi insieme a me, che sto dietro la macchina da presa ma sempre molto vicino: la macchina da presa poggia sulla mia spalla. Per questo, ripeto, anche in questo caso non è questione di finzione o di realtà: è sempre lo stesso film-esperienza, lo stesso film-riflessione.
Essere andato verso la finzione è anche una reazione al fatto che oggi tutto è documentario? Siamo felici che ora sia considerato mainstream, penso di parlare anche per te, ma forse, citando i confini cui accennavi prima, oggi spesso non si riconoscono più. Non avrei mai creduto di citare Ilary Blasi in una chiacchierata con Roberto Minervini, ma per fare un esempio: Unica, che di fatto è un’intervista autogestita che una volta avremmo visto in uno speciale tv, oggi su Netflix è catalogato come “docufilm”.
Sì, sicuramente è anche una reazione – se mi passi un termine che faccio fatica ad utilizzare – politica, proprio rispetto al senso di ciò che è diventato il documentario. Quando parliamo di documentario che diventa mainstream parliamo appunto di un evento politico: il documentario diventa mainstream perché è sempre più credibile come fonte di verità. Ma realtà e verità non sono sinonimi. Questo tipo di documentario si affida sempre di più a uno status quo, parte da idee preconcette, si fonda su qualcosa che è già assimilato come verità. Faccio un nome che non fa male a nessuno, quello di Laura Poitras. Parte da una verità ineluttabile: gli oppiacei uccidono (in Tutta la bellezza e il dolore – All the Beauty and the Bloodshed, vincitore del Leone d’oro a Venezia nel 2022, ndt). E quindi le industrie farmaceutiche sono criminali, hanno le mani sporche di sangue. Questo è un paradigma che ha bisogno di ulteriori approfondimenti, ma se lo accettiamo come verità, allora tutta la storia sarà montata su quella verità, e vedremo mamme che dicono: “A mio figlio faceva male l’anca perciò ha preso l’ossicodone ed è morto”. Ecco, non avevo più voglia di tutti questi assiomi così ad alta digeribilità, mi sentivo un po’ intrappolato in quel meccanismo, nel dover per forza essere un corriere espresso che consegna la verità. Un altro esempio che mi viene in mente è Gunda di Kossakovsky, anche lì ci sono assiomi così forti solo perché partono da qualcosa di altamente soggettivo: mangiare gli animali è un omicidio. Non voglio criticare queste idee, io da anni sono vegetariano, ma messe così diventano un tool politico da cui mi voglio tirare fuori. Il passaggio alla finzione mi permette di fare il contrario: partiamo dalle idee preconcette dei personaggi, dalle loro verità assimilate: l’esistenza o meno di Dio, le giuste ragioni per un conflitto bellico, eccetera; partiamo da queste idee, dal bagaglio culturale, ideologico e politico di ognuno, e andiamo a smontarle sulla base di un’esperienza diretta, finendo quindi per relativizzarle. È il discorso inverso che mi interessa fare, e la finzione mi ha dato questa possibilità. Preferisco smontare queste idee preconcette per creare un terreno fertile di discussione e non contribuire a solidificare quello status quo. È come dire: “Me ne tiro fuori”, e mi sembra persino più onesto.
C’è una frase nei Dannati – “Alla fine ti rendi conto che la tua famiglia è molto più importante del tuo Paese” – che mi sembra essere più che mai in continuità, come dici tu, con tutto il tuo cinema, da sempre un’indagine sulle famiglie, in senso ampio, in cui ci ritroviamo ad abitare, e l’idea ancora più grande di comunità, di nazione, che ci comprende tutti, a volte drammaticamente.
Sì, perché anche qui mi rifaccio sempre alla mia, di esperienza. È un po’ il mio percorso personale, quello di imparare tutto toccandolo con mano. Non mi è stato insegnato niente, non ho avuto mentori né un contesto familiare in cui qualcuno mi facesse da guida. Ho dovuto imparare tutto da solo facendo due passi in avanti e uno indietro. Forse per questo ciclicamente e testardamente vado sempre alla ricerca del senso delle cose scavando a fondo, proprio dall’alto al basso, andando alle radici delle cose. Faccio un cinema, diciamo così, grassroots, perché il mio apprendimento è sempre stato grassroots. Una frase come quella che citavi tu viene scelta in fase di montaggio perché è qualcosa in cui mi ritrovo, che mi tocca da vicino. Sono sempre alla ricerca di qualcosa di nucleare, di atomico, di quel core dal quale partire per poi poter comprendere, e casomai accettare o rigettare, qualcosa di più grosso, quelle sovrastrutture che ti dicevo prima. È una mia deformazione dell’essere, traducendo un po’ malamente dall’inglese.
Parlando del nucleare, dell’atomico, in questo film ho sentito che c’è come una ricerca ancora maggiore di – passami il termine – semplicità. I dannati è un film sul diventare uomini, e si capisce che, per farlo, bisogna ricondurre tutto all’essenziale.
Essenziale e semplice sono due parole chiave. Semplice non come sempliciotto, ma come di facile immedesimazione. E c’è anche, in questo film, la saggezza che si tramanda di generazione in generazione, una specie di passaggio di consegne, e anche lì mi ci ritrovo, perché ho sempre fatto affidamento sul racconto, e quindi sull’esperienza, degli altri: è quella per me la vera saggezza. Perciò qui ho fatto dire a uno dei personaggi che passi tutta la giovinezza a voler diventare un uomo, a cercare qualcosa, e poi il resto della vita a ritrovarti, a cercare te stesso, e che cosa è successo nel frattempo? Sta parlando di qualcosa di molto grosso, che sono i traumi che tutti abbiamo alle spalle, ma lo fa in modo appunto semplice, essenziale, lineare. Cerca di risolvere questa piccola equazione tra il tempo passato a disfare e quello che invece ci vuole per rimettere a posto i cocci. Un’equazione applicabile, con tutte le variabili del caso, a chiunque. Quell’essenzialità per me è fondamentale, è un po’ quella magia del cinema dell’esperienza che ho sempre cercato in tutti i miei lavori. A un certo punto delle riprese penso sempre: “Eccolo qua quello che cercavo”. È un momento di catarsi dopo ore e ore di vissuto, di condivisione di spazi, commenti, riflessioni. Ed è anche qualcosa di molto terapeutico. Passi tanto tempo in un circolo di persone e per farlo devi prima oltrepassare una soglia, che all’inizio ha un sacco di barriere all’entrata. C’è la sfiducia, ci sono le paure, c’è la fobia del mettersi a nudo, che è una delle cose umanamente più difficili. Chiedere tutto questo alle persone per poi costruirci un’opera è doppiamente difficile.
Questo andare all’indietro, nella Storia americana, riporta alla giovinezza di quel Paese che sai raccontare così bene. I temi con cui l’America fa i conti nel nostro tempo sembrano gli stessi di allora.
Di recente qualcuno mi ha chiesto perché non ho ambientato questo film sullo sfondo di altre guerre, più vicine a noi. La risposta è perché avevo bisogno di quella distanza. Volevo che questo fosse un film storico, ma calato in un momento e in un territorio che cominciassero quasi a smaterializzarsi. È il discorso di prima: più ci avviciniamo a quello che è il nostro immaginario collettivo, e dunque alla nostra memoria storia, più ci appigliamo a verità già scritte, già assimilate. Invece volevo che queste certezze si offuscassero, si perdessero un po’ nel tempo. Se andiamo lontani abbastanza da non essere così certi di alcune verità, ma non troppo lontani da non saperne niente, allora troveremo dei punti fermi anche riguardo alla Guerra di secessione che sentiamo molto vicini, su tutti la questione razziale; ma al tempo stesso saremo abbastanza lontani da poter ripartire da noi stessi. È sempre una questione di esperienza delle cose: non volevo fare una semplice trascrizione della Storia. Poi c’è il fatto che gli Stati Uniti all’epoca erano un Paese germoglio, una nazione embrionale con un esercito di mercenari che aveva statalizzato il Dio cristiano sul nascere come imposizione: “In God we trust”. C’erano tante incertezze, tanta gente inesperta, si lottava contro la schiavitù ma non si permetteva ai neri di stare negli stessi ranghi dei bianchi. Per non parlare del fatto che quindici anni dopo sarebbero cominciate le guerre tra governo e nativi. Era un Paese ancora tutto da costruire, mi interessava la massima incertezza di quel periodo storico.
I dannati del tuo film vanno a scoprire cosa c’è a Ovest. Quello della frontiera è un mito con cui ogni regista che racconta l’America, soprattutto se è un outsider come te, è costretto a un certo punto a confrontarsi?
Per certi versi sì. Però conta che il mio percorso è un po’ anomalo per essere un americano d’adozione: come cineasta sono cresciuto nel Texas, ho passato quattordici anni nel profondo Sud. Diciamo che sono partito proprio oltre frontiera, in terre abbastanza estreme, là dove si alzano i muri nei confronti del governo centrale. Ora son tre anni che vivo a New York, e quindi per certi versi questo è un ritorno alla frontiera, forse con una maggiore apertura, con più gentilezza d’animo, pronto ad accettare di più le idiosincrasie di quei territori, il loro rigetto del mainstream americano, perché le capisco già. Non c’è quella naïveté che viene dal mito della frontiera, ma la consapevolezza di ciò che lì troveremo. Ma certo, la scelta era anche quella di tornare proprio dove c’è quella specie di cortocircuito tra l’America mainstream e quella degli outsider.
Hai raccontato e capito tanto dell’America che solitamente resta invisibile ai nostri occhi. C’è qualcosa che invece per te resta, se non incomprensibile, quantomeno irraccontabile?
Ci sono tanti limiti personali, tanti traumi. Quello dell’iper-mascolinità, che è sicuramente un tema centrale in questo film ma anche nei precedenti, è un discorso e un percorso personale in cui, anche se cerco di andare a ritroso, di fare quella cosa dall’alto verso il basso di cui ti parlavo, trovo molti ostacoli. Abitare per più di dieci anni certi contesti, avere a che fare con quel tipo di mascolinità diventa difficile, ci sono momenti in cui non riesci ad andare oltre, se parliamo proprio di esasperazione di quella forza bruta che sta alla base di alcuni cluster altamente patriarcali. Ci sono zone che mi sono stancato di esplorare, e che forse non riuscirò mai a comprendere appieno. Se penso di capire una certa America, posti come il Kentucky, l’Oklahoma, l’Arkansas, ecco, diciamo che ora di fronte a certe cose ho iniziato a gettare la spugna.
Hai fatto un salto indietro. Quale sarà il salto in avanti?
Mi sto guardando di più dentro. Sono da poco orfano di entrambi i genitori e sto riflettendo molto sulle mie origini e sul mio percorso. Che poi in me c’è sempre stata questa grossa commistione tra il mio percorso di uomo e il mio percorso di regista. Sto riflettendo sulla possibilità di raccontarmi, e qualora lo facessi sarebbe ovviamente in un film italiano.