Avete presente il Saviano sempre pensoso, accigliato, serissimo, con lo sguardo un po’ intenso e un po’ “cazzo guardi”? Ecco, dimenticatelo. Sarà l’aver incontrato sul set milanese del servizio fotografico Marco D’Amore e Salvatore Esposito, amici e sue “creature” (oltre che autore di Gomorra, il libro, Roberto ha scritto anche il soggetto della serie tv, arrivata alla seconda stagione, vedi box a pag. 60), o sarà che questo fresco sorriso degli occhi che vedete qui accanto fa da contrappeso al pathos piuttosto dark della nuova e fichissima (l’abbiamo capito già dalle prime due puntate viste in anteprima) stagione di Gomorra. Sarà, ma è diverso: questo è Roberto Saviano su Rolling Stone.
La prima puntata di questa nuova serie conferma la presenza di un elemento punk in Gomorra: esiste solo il presente – sangue, pistole – senza né prospettive né speranze. No Future, per dirla alla Sex Pistols.
In Gomorra vince chi non si fida di nessuno, chi considera gli altri dei mezzi. Vince chi non ha paura di morire e sa che il potere si ottiene solo a rischio della propria morte. Chi cerca di proteggersi non fa strada, non ha speranza di affermarsi. Donna Imma muore per aver cercato di proteggere l’Immortale. Così come Danielino muore perché non ha il coraggio di uccidere Conte.
Sempre in questo primo episodio c’è un pieno di crocifissi, e immagino sia voluto. È un modo per dire che il dio di Gomorra è debolissimo?
La religione è imperante in questa nuova stagione, anche per la forte presenza di Salvatore Conte e di Don Pietro. Don Pietro ha una grande carica religiosa. È una figura di fronte alla quale si deve piegare la testa, che dà senso al progetto di società che i criminali stanno costruendo. Come dire: noi ammazziamo, certo, ma è per difendere la famiglia. Noi spacciamo, certo, ma è per arricchire il nostro quartiere. E poi c’è l’elemento cristiano dell’espiazione, attraverso il quale possiamo pulirci la coscienza e tornare a campare come abbiamo sempre campato. Nell’immaginario mafioso è la Madonna che difende il killer, perché è la Madonna che, nella sua infinita bontà, spiega a Gesù la ragione della sua messa a morte.
Tu sei capace d’immaginare qualcosa di peggiore delle storie che trovi nella realtà, e che poi racconti in fiction?
Direi di no. Ora che con le serie, ma pure con i libri, sto lavorando in una struttura finzionale neorealista – e non più nel rigore della non fiction narrativa che mi ha caratterizzato in passato – non riesco a trovare di peggio, onestamente. Ti faccio un esempio: negli atti di un processo si legge di un boss bielorusso in Campania, il quale avrebbe dato ordine ai suoi di torturare un informatore. Come? Infilandogli un saldatore collegato alla corrente nel culo. Nel giro di tre minuti gli sarebbero esplose le viscere. A quel punto l’informatore inizia a parlare. In altri atti si parla della ’ndrangheta nel Lazio, che fa sparire i cadaveri dandoli in pasto ai maiali. Questo per stare nello splatter. Ma ti posso anche raccontare di cose che riguardano direttamente la politica. Mafia Capitale: a un certo punto Buzzi ha un problema col vicesindaco di Roma. Non riesce a parlargli, non riesce a farsi ricevere. Quindi si rivolge a Carminati e Carminati risolve la questione. Allora Buzzi gli dice: “Ok, salgo a parlare col vicesindaco”, ma Carminati lo corregge: “No, è lui che deve scendere a parlarti”. Una scena così suonerebbe falsa in sceneggiatura, ma in realtà sta dentro agli atti.
Parliamo di pietà. Quando muore un camorrista, che reazione hai?
Quando li vedo nelle gabbie provo fastidio umano. Certo, i camorristi che mi hanno costretto a vivere così li odio. Odio alcuni avvocati. Odio alcuni giornalisti che ritengo complici. Odio determinati magistrati, civili e penali, altrettanto complici. Sono carico di odio. Ma di fronte alla morte, di fronte al corpo a terra del camorrista, c’è qualcosa che mi dice che così non si risolve nulla. Né tra me e lui, né tra lui e il mondo. Quando poi a morire sono dei ragazzini di 17 anni, provo quasi un senso di vicinanza. Se la gente si chiede se questo ragazzino fosse dentro o fuori la camorra, allora dico: “Ma che domanda è?”. Era un ragazzo di 17 anni. Siamo a un livello di cinismo tale per cui, se è difficile l’empatia con l’innocente, figuriamoci l’analisi di chi cade dopo aver fatto una scelta criminale. Per le nuove generazioni, l’unico modo di fare la differenza è giocarsi la vita. Vale per il ragazzino di una paranza a Napoli e vale per il jihadista in Belgio.
A proposito di terrorismo jihadista, la reazione emotiva di molti europei è la paura. Paura a prendere l’aereo, la metropolitana. Paura di andare al cinema, a un concerto. Sono paure che hai anche tu?
No, io non la sento più la paura. Non per coraggio, ma per abitudine. Come per l’artificiere, che sa che ogni volta che mette mano su un ordigno può saltare in aria. Non c’è nessun training che ti rende immune alla paura, ma sola la fottuta abitudine. A forza di sentir dire che devo morire, che i clan mi odiano, mi sono abituato a sentir parlare della mia morte. La mia unica paura è se riuscirò mai a riavere una vita normale, a farmi un giro in Vespa. A volte succede che quando prendo l’aereo c’è un momento in cui non ho scorta, dal bus all’aeroplano, perché non c’è il finger. Le persone che mi vedono e mi riconoscono si chiedono tutte: e dov’è la scorta? Dov’è la scorta? Ecco, la mia paura è che per tutta la vita, anche quando non avrò più protezione, le persone, vedendomi, continueranno a farsi questa domanda.
Anche il camorrista di Gomorra, come il jihadista, è “in guerra”?
La camorra e le organizzazioni mafiose sono per-en-ne-men-te in guerra. Il tema di questa seconda stagione è il capitale della ferocia. Chi vuole fermarsi, organizzare la pace e godersela, deve sapere che quel capitale non è più suo e chi ci mette le mani sopra, vince.
Nella società criminale la scala sociale è più mobile. Se non sei nessuno, hai una chance di diventare qualcuno
A proposito di capitale, l’anno scorso ha fatto molto discutere un saggio di Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo; quest’anno è uscito Postcapitalismo di Paul Mason. Entrambi molto critici sull’argomento. C’è nel tuo lavoro, a partire dal libro Gomorra – che ha appena compiuto 10 anni – una critica al neoliberismo?
C’è quel passaggio meraviglioso nel Capitale di Marx, in cui si dice che i rapporti di produzione entreranno in conflitto con i mezzi di produzione e così scoppierà la rivoluzione. Ma io penso, caro Marx, che non funzioni così. Quando i rapporti di produzione entrano in conflitto con i mezzi di produzione, in quel momento nasce la produzione criminale. I Panama Papers ci raccontano proprio questo fenomeno. L’errore più grande di Mason e Piketty è aver ignorato questa dimensione, cioè il capitalismo criminale come soluzione alle contraddizioni del capitalismo. I poveri non trovano lavoro e quindi si mettono a delinquere o a spacciare. Quando il profitto incontra degli ostacoli, si sceglie un’altra prassi. Una prassi criminale. E paradossalmente, nella società criminale la scala sociale è più mobile. Se non sei nessuno, hai una chance di diventare qualcuno.
Per Rolling Stone Sean Penn mesi fa ha intervistato El Chapo: in uno dei nascondigli del super boss del narcotraffico è stata ritrovata una copia di un tuo libro, ZeroZeroZero. Che effetto ti ha fatto?
Ho pensato: cazzo, adesso sono fottuto, mi odieranno tutti i giornalisti sudamericani.
Ammettiamo che un giorno lo Stato Islamico bussi alla porta di Genny Savastano. Che fa, Genny?
Genny ci fa i soldi insieme, ma a una sola condizione: che i jihadisti non rompano le scatole al suo Paese. Poi va dallo Stato e gli dice: vi sto difendendo, che mi date in cambio?
C’è quella specie di leggenda metropolitana, che dice che l’Is non ci ha attaccato, perché qui ci sono la mafia e la camorra.
Io non credo, però dentro questa leggenda c’è una sensazione, e cioè che le organizzazioni controllino tutto. E comunque, ti racconto una storia. Anni ’90: il GIA algerino a Napoli stampa documenti falsi, compra armi a Napoli, ha propri uomini a Napoli e a Napoli vende ottimo hashish alla camorra, ma niente uccisioni, niente terrorismo. Zero. Gli attentati del 2004 alla stazione di Atocha a Madrid, invece, ti ricordi? Bene, sono stati finanziati vendendo hashish alla camorra.
Leggo dalla cartella stampa della nuova stagione di Gomorra: Pietro Savastano viene definito un monarca assoluto; si parla di Regno – con la R maiuscola – dei Savastano, sulle cui ceneri nasce una sorta di federazione di Stati, mentre Salvatore Conte e lo Spagnolo sono due principi. Gomorra mi ricorda un pò Game of Thrones e un po’ il Regno delle due Sicilie…
Il mondo criminale ha una struttura feudale e aristocratica e la camorra conserva una matrice gerarchica che, in effetti, rievoca il mondo nobiliare: il principe, il re, il conte, il barone. Di conseguenza viene naturale parlare di regno e monarchia.
Ma tu credi che questo simbolismo abbia favorito il successo della serie?
Credo di sì. Le stesse dinamiche gerarchiche, in base alle quali più uccidi più scali l’organizzazione, costituiscono un motivo di fascinazione, specie nel nostro Paese – ma non solo – dove l’impegno, il rispetto delle regole, la prudenza, non pagano. Invece nel mondo criminale ha successo chi uccide, chi sa mantenere un segreto. E anche chi tradisce le regole. Però, attenzione: vince chi tradisce le regole, ma nello stesso tempo le sa riscrivere.
Segui le altre serie tv?
Certo. Breaking Bad, I Soprano e poi El Patrón del Mal, una serie colombiana su Escobar, più povera, ma pure più profonda di Narcos. Il confronto mi serve per mettere a fuoco l’arco narrativo, per controllare il ritmo e anche per togliere, asciugare. A volte, studiando il crimine organizzato, m’imbatto in storie talmente folli da non essere credibili. Per esempio, l’episodio di un boss, Michele Zagaria, che si presenta con una tigre al guinzaglio di fronte agli imprenditori dell’Alta velocità. Quando scrivo il soggetto di serie e il soggetto di puntata, è importante che tutto ciò che scrivo sia accaduto. Magari non a Napoli, ma in Honduras o in Sudafrica. Nulla di quello che accade in Gomorra è irreale o nato da una suggestione. Una delle forze della serie, poi, è che gran parte del dialogato è preso dalle intercettazioni.
E ultimamente che cosa guardi?
House of Cards, con grande passione, e poi Rectify, una serie pazzesca di Sundance Tv. Parla di un uomo che ha passato 10 anni nel braccio della morte e poi viene liberato. Un capolavoro. La mia ossessione, come ideatore di serie, sta tutta in una parola: “meccanismo”. Non voglio che ci sia solo plot nel racconto. Non voglio che ci sia solo intuizione, sentimento, storia. Voglio semmai che lo spettatore, a fine puntata, abbia capito delle cose: come si tradisce il tuo migliore amico, come funziona la testa di un killer, come si truccano le elezioni, che cosa succede nella tua testa quando sei preda di un desiderio di rivalsa e del rancore.
In Gomorra si vedono borsoni su borsoni di soldi, anche se non capisci mai che cosa ci fanno esattamente. Tu che ci fai con i soldi?
Guadagno meno di quanto si possa immaginare. Pure in Gomorra, nessuno di noi è strapagato. Non i registi, non gli attori. Nessuno guadagna cifre importanti. È più un onore per noi. La verità è che per me il denaro è protezione. Significa poter pagare gli avvocati che mi tutelano dalle querele, per esempio. E poi ho il grande sogno di potermi comprare una casa con un po’ di terra, prima o poi.
Ma il pensiero di fare come Salman Rushdie, sopra una yacht con venti ragazze fichissime, non ti ha mai sfiorato?
(Ride) No, mai. A): non sono quella roba lì, non fa per me. B): mi annoierei subito. Non lo dico per moralismo, sarebbe pure divertente una vita alla Dan Bilzerian, ma non me ne frega nulla, mi stancherei subito. Invece, la casa con il pezzo di terra, dove posso rintanarmi senza nessuno che mi rompa le balle, è un mio grande sogno.
C’è un posto dove ti sarebbe piaciuto andare? Il concerto degli Stones a Cuba, per esempio…
Non saprei. La verità è che mi sono mancate tutte le estati che non ho vissuto da 10 anni a questa parte.
Il mio incubo più ricorrente, la notte, è finire in galera. Alla fine del sogno scopro che ho ucciso, e che la gente mi abbandona, perché non sono morto per una causa nobile.
Qual è la cosa più divertente che fai nella tua vita di oggi?
La cosa che mi eccita di più è quando posso rubare un po’ di spazio privato e camminare… ahh (Roberto fa uno strano verso, come se stesse ingoiando tantissimo ossigeno, nda)… Lì sento proprio i peli alzarsi, la pelle d’oca. Una roba bellissima, incredibile. Allontanarmi un po’ dalla scorta e camminare. Ricordo un giorno che ho ripreso la metropolitana dopo moltissimo tempo: il rumore mi ha fatto quasi svenire. Oggi il mio incubo più ricorrente, la notte, è finire in galera. Mi trovo sempre in questa cella, molto grande, divisa con altre dieci persone. Penso: se mi riconoscono mi squartano. Poi cerco di capire perché sono stato condannato, se per motivi nobili, tipo reato d’opinione. Alla fine del sogno scopro invece che ho ucciso, e che la gente mi abbandona, perché non sono morto per una causa nobile.
Ti senti uno scrittore?
Sì, assolutamente. Non credo di essere un giornalista, di usare quel metodo.
Senti un senso di appartenenza alla comunità letteraria italiana?
Io ho molta diffidenza. Non ho piacere di avere colleghi vicino, mai. Con delle eccezioni, che però sono nate al di fuori della scrittura. Una delle cose più incredibili, qui in Italia, è che abbiamo degli scrittori che si odiano l’uno con l’altro, si strappano l’osso l’uno con l’altro, spartendosi quel poco che resta dei lettori e delle lettrici.
Nel rap c’è il dissing, ma è tutto un teatro, poi la sera vanno a cena insieme.
Gli scrittori, al contrario, vanno a cena insieme e poi nel lavoro si odiano, si parlano alle spalle.
Insomma, non fai cumpa con gli scrittori, mi sembra di capire.
Mai, zero. Anche se mi piacciono molti scrittori italiani.
Cosa vuol dire “savianesco”? Fai conto di doverne scriverne la voce sul dizionario.
(Ride). Nella declinazione negativa, per “savianesco” credo s’intenda un frullato di pezzi di cronaca e realtà, rubati e manipolati e poi trasformati in denuncia. In senso positivo, invece, credo che significhi prendere qualcosa di reale, che sta sotto l’occhio di tutti, e restituirlo in una luce nuova, ma sempre cruda
Torniamo da dove siamo partiti, dal No Future del punk. Tu ce l’hai fiducia nel genere umano?
Neanche un po’, però continuo a pensare che praticare la sfiducia significhi dare ragione al peggio, alla merda di questo pianeta. Ho rovesciato il meccanismo leopardiano. Pessimismo della volontà e ottimismo della ragione.