Jamie Dornan si è appena accorto che ha l’unghia del pollice destro dipinta di azzurro. «L’ha fatto mia figlia, sa che è il mio colore preferito», spiega con una risata, seduto sul divano di un hotel di Londra. A 36 anni, l’attore nordirlandese sembra aver già vissuto tre vite. La prima negli anni del college, a Belfast, dove si allena e sogna di diventare giocatore di rugby professionista («Oggi sarei troppo vecchio per giocare, anche volendo», dice lui); la seconda, a 19 anni, quando si trasferisce a Londra per fare il modello: il New York Times lo definisce “Torso d’oro” e lui lavora per Armani, Dior e Calvin Klein. Un successo che, tuttavia, non gli basta. La fama arriva quando, superati i 30, interpreta il serial killer della serie The Fall (con cui conquista critica e pubblico) e il miliardario Christian Grey nella trilogia di Cinquanta sfumature (che gli vale invece due Razzie Award come peggior attore e peggior coppia sullo schermo, condiviso con Dakota Johnson). Ma i giorni di mascherine e sex toys sono lontani: in Robin Hood, in sala dal 22 novembre, veste i panni di Will Scarlet, che aiuta Robin (Taron Egerton), come vuole la tradizione, a rubare ai ricchi per restituire ai poveri.
Robin Hood aveva un valore speciale per te, da piccolo?
Ricordo giornate intere trascorse a giocare nel giardino di casa, fingendo di essere lui o uno della sua banda, i Merry Men. Mi sono piaciuti tutti i vari adattamenti, dal film con Errol Flynn del 1938 fino a Robin Hood – Principe dei ladri, con Kevin Costner. È un personaggio che fa parte del nostro Dna, almeno per chi proviene da questo lato del mondo.
C’era bisogno di un nuovo Robin Hood?
Penso che tutte le storie che riescono a colpire l’immaginazione del pubblico troveranno il modo di essere raccontate più volte. Del resto, quando un personaggio è amato universalmente, ci sarà sempre qualcuno che vorrà mettere in scena la propria versione. Non avrebbe senso, però, ripetere quello che è stato fatto da altri, è ovvio.
E questo film in cosa differisce da altri adattamenti?
Offre un approccio originale e, credo, più giovane. Nel nostro caso Robin Hood è infatti rappresentato come una specie… di supereroe! I fan troveranno tutti gli ingredienti classici che hanno contribuito a creare il mito, ma c’è molta più azione rispetto al passato. Visivamente, sarà davvero spettacolare.
Quanto spazio ha il tuo Will Scarlet?
(Ride) Mi piace pensare che sia abbastanza importante… Will è un uomo del popolo, che lotta per le cause dei più deboli. Un giorno si ritrova davanti questo ragazzo che dice di difendere le sue stesse battaglie, e non la prende molto bene. Inoltre c’è una specie di triangolo amoroso di cui fanno parte
lui, Marian e Robin.
Se avremo la possibilità di girare un sequel, vivrà una bella evoluzione. Io lo spero, mi piacerebbe.
Perché la gente si appassiona tanto alle storie in cui un uomo comune si batte contro ingiustizie e corruzione?
Perché si tratta di cose che accadono, quotidianamente in tutti i continenti del mondo. Le disuguaglianze sociali, i ricchi che diventano sempre più ricchi… È la vita! Ecco perché ci piace os- servare chi si ribella. Se poi c’è anche da divertirsi, come in questo caso, meglio ancora. Ma il messaggio è chiaro: cerchiamo di fare giustizia, laddove non c’è.
In passato sei stato in una band folk, i Sons of Jim, fino allo scioglimento nel 2008. Fare parte dei Merry Men ti ha ricordato quell’esperienza?
(Ride) Sì, un po’! Mi piace l’idea del gruppo, di unirsi ad altri per realizzare qualcosa di importante. È vero, basta una sola persona per dare
il via a una rivoluzione, ma c’è
bisogno di un’intera comunità
per mettere in atto un cambia-
mento vero e proprio. Ce ne accorgiamo anche oggi, nella nostra società: la gente si fa sentire
per difendere le proprie idee, e lo
fa insieme.
A proposito di eroi: quali sono i tuoi?
Viviamo in un’epoca fruttuosa: sostengo chiunque resista all’autorità in modo attivo, chi si batte contro le ingiustizie e cerca di superare modi di pensare arcaici. In Irlanda e nell’Irlanda del Nord si parla da tempo di cambiare la legge sull’aborto (Particolarmente restrittiva, ndr). Mio padre è un grande sostenitore del diritto all’aborto, perciò direi che è proprio lui uno dei miei eroi. È più facile accettare le cose per come sono e fingere di non vedere, mentre servono coraggio e forza per far sentire la propria voce. Non credo che abbiamo assistito a una richiesta di cambiamento così grande dai tempi delle lotte per i diritti civili. Per me è particolarmente importante anche perché sono padre di due bambine (Dulcie, 4 anni, e Elva, 2, avute dalla moglie, l’attrice e cantante inglese Amelia Warner, ndr). Tutto quello che faremo per sostenere e supporta- re le donne, in ogni campo, sarà positivo. Vorrei che le mie figlie crescessero in un mondo che le rispetta più di quanto non abbia fatto fino a oggi.
E tu, in quanto artista, cosa puoi fare per promuovere quel cambiamento?
Penso che tutto abbia inizio da noi e da come ci comportiamo con gli altri. Essere gentili col prossimo non è così difficile! Mi è stato insegnato che abbiamo tutti gli stessi diritti. Questa è anche la filosofia su molti set cinematografici: è vero, ci sono alcune mele marce, ma per la maggior parte si tratta di ambienti sani, equilibrati. Ci sono ancora molte cose che si possono fare per colmare qualunque tipo di divario, anche da un punto di vista retributivo. Ma il cambiamento parte da noi, non dimentichiamolo.
È importante per te avere una voce pubblica?
Sì, ma fino a un certo punto. Alcuni fanno roteare gli occhi quando un attore esprime la propria opinione: “Eccone un altro!”, si lamentano. Se parliamo sempre e solo dei cambiamenti necessari all’interno dell’industria del cinema, è ovvio che la gente non voglia ascoltare. C’è molto egocentrismo a Hollywood e molti non vedono al di là del proprio naso.
Tu, invece, non sembri interessato a essere famoso.
Esatto, non mi piace granché.
È utile, però, usare quella fama per attirare l’attenzione su altri temi?
Penso di sì, specie con le cause di beneficenza che sostengo: sono appena diventato sponsor di una nuova associazione a cui tengo in modo speciale. Sono contento se posso contribuire a promuovere una campagna in cui credo, ma non me ne vado in giro a gridare ai quattro venti “Hey, guardatemi, sono un bravo ragazzo e aiuto gli altri!” (ride), perché lì si sfocia nel narcisismo.
Il successo non ti ha cambiato?
In realtà cerco di ignorare tutti gli aspetti legati alla celebrità. Io e la mia famiglia viviamo nella campagna inglese, lontani da tutto. A volte devo andare a Londra e Los Angeles per lavoro, ma abbiamo scelto di non sfruttare il fatto che io sia un volto riconoscibile. Quello è un aspetto da cui voglio proteggere la mia famiglia il più possibile. Ho beneficiato di quella roba dopo i 30 anni, piuttosto che quando ne avevo 20. Ho lo stesso gruppo di amici da quando andavo alle elementari e a loro non frega un cazzo di come mi guadagno da vivere. Ciò ha avuto un effetto positivo su di me.
Sarebbe stato diverso diventare una star a 20 anni?
Immagina di arrivare a Hollywood e di diventare il protagonista di un blockbuster enorme. A quell’età si è facilmente impressionabili e le cose possono apparire diverse.
Mi piace l’industria
e la vita che mi permette di condurre, ma le dinamiche della fama non mi interessano.
Non sembri un narcisista. È difficile lavorare nel mondo del cinema, che ti vuole costantemente sotto i riflettori?
Credo che quella sia una linea sottile. Se fai l’attore ci dev’essere un elemento di egocentrismo, che tu ne si a consapevole o meno. Non penso che i miei colleghi siano tutti narcisisti: in 13 anni di carriera ne ho conosciuti pochissimi e, se vuoi, ti faccio anche i nomi (Ride). La maggior parte di noi sceglie questo mestiere perché non vuole stare in ufficio e crede di poter usare meglio la propria energia in altri ambienti. Sono pochi quelli che fanno richieste ridicole.
Il Robin Hood di Ridley Scott del 2010 celebrava un’idea romantica dell’amore, secondo cui esiste una sola persona speciale per ciascuno di noi. Tu che ne pensi?
È una bella idea e penso che sia importante raccontare i grandi amori che resistono a tutto. Non potrei essere più felice della mia vita sentimentale, ma credo che dire alle persone che in tutta la vita siamo destinati a incontrare una sola persona importante sia un messaggio pericoloso.
Tu ce l’avevi (Everything I Do) I Do It For You, il singolo di Bryan Adams?
Quando è uscito? Nel 1991? Cavolo, avevo 9 anni. No, il primo singolo che ho acquistato è stato Do the Bartman, la canzone di Bart Simpson (dall’album The Simpsons Sing the Blues, ndr). Sai qual è il nostro obiettivo, con questo nuovo Robin Hood?
No, qual è?
Oltre a consegnarvi qualcosa di nuovo e originale, alla fine vi faremo dimenticare pure la canzone di Bryan Adams. È una promessa!