Romana Maggiora Vergano: intervista all’attrice di ‘C’è ancora domani’ per la serie ‘Those About to Die’ | Rolling Stone Italia
C’è tutto domani

Romana Maggiora Vergano: e adesso fatemi sbagliare

“La figlia di Paola Cortellesi in ‘C’è ancora domani’”, come la chiamano tutti, ha avuto un’annata pazzesca. E ora torna con una serie – ‘Those About to Die’ su Prime Video – che è un peplum-kolossal starring Anthony Hopkins. «Ma faccio di tutto per riportarmi sempre con i piedi per terra», dice. E ora è pronta a prendersi dei rischi: «Datemi una nota di demerito»

Romana Maggiora Vergano

Mi chiedo cosa succede quando esplode tutto, quando diventi per tutti qualcosa, qualcuno. Un’immagine precisa. Marcella. Quel primo piano nella folla. «Tutti me lo ricordano, e allora alla fine comincio a crederci anch’io». Romana Maggiora Vergano, che quest’anno per tutti è stata “la figlia di Paola Cortellesi in C’è ancora domani”, non sembra però convinta fino in fondo. Per paura, per natura. «Quando per entusiasmo o leggerezza comincio a staccarmi un po’ da terra, faccio il possibile per riportarmi sempre giù. Forse per non farmi troppo male se dovessi andare troppo su e poi cadere rovinosamente». Il 17 luglio riceverà il premio Pipolo Tuscia Cinema 2024 al Tuscia Film Fest, e subito dopo su ci andrà ancora: è nel cast della serie Those About to Die, su Prime Video dal 19 luglio. Antica Roma, un regista kolossale come Roland Emmerich, e pure Anthony Hopkins con la toga. Ci arriviamo fra un po’.

Prima, scusami, voglio capire davvero cosa succede, dopo a un’annata così. Che poi – e mi scuso per la mia categoria, che manco sa cercare su Wikipedia – ti ho, ti abbiamo vista in tante cose, prima di C’è ancora domani. Però certo, immagino che quel film abbia davvero cambiato tutto.
Ti ringrazio per aver ricordato che c’è stato altro prima, perché ultimamente spesso vengo descritta come un’esordiente assoluta, lanciata da un film che ha incassato così tanto. Io ho fatto il percorso classico. Mi sono formata alla Scuola Volonté, e poi ho iniziato a lavorare a 18 anni in una serie molto corale, Immaturi – La serie, con un ruolo marginale. E da lì sono andata avanti per gradi. C’è stata un’altra serie, Christian, a cui sono affezionata perché mi ha dato un’immagine diversa, un po’ aggressiva, criminale. Dopo sono arrivati ruoli sempre un po’ più grandi e importanti, con più peso. E poi riconosco che con il film di Paola c’è stato un clic, un salto. Prima ancora che una grande professionista e un’artista con una sensibilità unica, Paola è una persona speciale, e ha capito che per questo personaggio potevo dare tanto, potevo essere Marcella come ce l’aveva in mente lei. E quando una persona come lei ti dà credito, ti illumina, ti dice “tu vali”, allora sì, senti che puoi fare uno scarto. Credo di essermelo meritato, ma anche di essere stata molto fortunata.

Foto: Gabriele Colafranceschi. Look: Philosophy di Lorenzo Serafini

C’è la fortuna, ma c’è anche, in questo Paese in cui tutti dicono “tanto non succede mai niente”, un incastro giusto: di talenti, di occasioni, di facce che arrivano e sembrano essere sempre state lì.
È stato il momento giusto, sì. Se questo ruolo mi fosse arrivato qualche anno fa, probabilmente non sarebbe andata, sia per preparazione che per momento di vita. C’è stato un incastro di tempi, di persone, di stati d’animo.

Adesso arriva un’altra serie non certamente piccola.
Un po’ mi fa paura. È un genere complesso, bisogna lasciarsi andare al racconto, perché è ovvio che non puoi subito immedesimarti in questi antichi romani. Però è un mondo epico, spettacolare, che Roland (Emmerich, nda) e Robert Rodat, lo sceneggiatore, sono riusciti a riportare in vita in modo impressionante.

Battuta per cui puoi attaccarmi il telefono in faccia: una Romana come te non poteva non confrontarsi con il peplum, genere romano per eccellenza.
(Ride) Ma in fondo pure C’è ancora domani riportava a un’altra Roma molto legata all’immaginario cinematografico. Qui, figurati, andavo da questi americani e mi presentavo: “Piacere, Romana”, e loro pensavano che li stessi prendendo in giro, o che fossi entrata troppo nella parte, tipo Metodo Strasberg…

Essere dentro una serie dove c’è anche Anthony Hopkins…
È una cosa che non mi sarei mai aspettata. L’ho sempre sognata, ovviamente. The Father è un film che ho nel cuore. Però avevo l’idea che un attore del genere mi potesse ispirare solo da lontano, non che avesse il camerino di fianco al mio. Nel poster c’è anche la mia faccetta tra le altre sotto di lui, è come se lo guardassimo dal basso ammirandolo, sognando di raggiungerlo, prima o poi. Vedere quell’immagine mi ha fatto un po’ metabolizzare il tutto. Purtroppo le nostre linee narrative non si incrociano e non abbiamo avuto scambi sul set, ma forse meglio così, se no avevo già infartato e sarei morta sul colpo. Sarebbe stato troppo, a quel punto come facevi a tirarmi giù…

Sul set sei una che “ruba” in silenzio osservando gli altri, oppure con le persone che hanno più esperienza di te ci parli, fai domande?
In realtà sono molto silenziosa, cerco di mettermi sempre in disparte e spero che si dimentichino che sono lì, per vedere cosa accade quando gli altri pensano di non essere osservati. Per esempio, sul set di Paola ho molti ricordi del lavoro di Giorgio Colangeli. Stava sempre stipato nella stanzetta del nonno Ottorino, e credeva di non essere visto da nessuno. Io invece lo spiavo dalla porta mentre si ripeteva le battute e faceva esercizi di respirazione, camminando per cercare col corpo il personaggio. È stato meraviglioso guardarlo. La stessa cosa è successa sul set dell’Antica Roma. Eravamo 130 persone di nazionalità diversa e con ruoli molto diversi, e lì mi catturava la preparazione fisica di alcuni, visto che c’erano molte scene di lotta. Tendenzialmente sono una che osserva, e che fa domande solo quando ha chiaro cosa non ha chiaro.

Dopo un’annata come questa, è facile pensare: “E mo che faccio?”.
Da persona insicura e ansiosa quale sono, è stata la prima cosa a cui ho pensato dopo che mi sono goduta questo momento. Ok, e adesso qual è il prossimo step, la prossima asticella? Ma ogni fase professionale ha le sue criticità e i suoi obiettivi. Cinque anni fa desideravo con tutta me stessa arrivare dove sono adesso, e pensavo che forse lì mi sarei potuta sedere, che mi sarebbe andata bene così. Invece oggi una sana ambizione mi porta a pensare quale può essere la strada giusta, il modo migliore per andare avanti cercando di non snaturarmi, perché quella che sono oggi a quanto pare sta funzionando. Sto entrando in una fase nuova, e spero di esserne all’altezza. A volte mi sento come se fosse tutto successo in modo troppo brusco e veloce, di sicuro mi ha un po’ travolta. Però mi sento anche molto fiduciosa, e i sì ricevuti, tra l’uscita del film di Paola e i progetti che sto facendo e che farò nei prossimi mesi, mi hanno dato una carezza all’autostima.

Senza fare sviolinate, non c’è una persona, ma dico una, che dopo aver visto C’è ancora domani non mi abbia detto: “Che brava l’attrice che fa la figlia della Cortellesi”. E magari nemmeno ti conosceva.
Così non mi aiuti (ride). Speravo mi dicessi: “C’è l’amico di mio cugino che non ha proprio apprezzato la tua performance…”. Ti ringrazio, ma devo tantissimo al progetto e al ruolo, che ho subito sentito su di me: non mi era mai successo in tutti gli altri provini di sentire di avere il ruolo tra le mani fin dal primo momento.

Hai dovuto lottare per ottenerlo?
Il primo provino in realtà è stato un selftape, perché eravamo in pieno periodo Covid. E lì non sai mai come va: scegli la strada che per te è più giusta, ma non hai il regista di fronte a correggerti, a darti altre indicazioni. Poi ho fatto il provino con Paola e all’inizio la tensione la sentivo, perché di ragazze romane della mia età ce ne sono tantissime, e in più sapevo che non cercavano necessariamente un nome famoso. Però lì ho capito che avrei potuto avere quel ruolo, quando ho recitato con Paola la scena finale del film.

Ah, subito così?
Sì, e la cosa pazzesca è che durante il provino io non sapevo nemmeno come finiva il film. Paola non l’ha detto a nessuno di noi prima di iniziare a girare, il copione cartaceo l’ho ricevuto il primo giorno di riprese. C’era questo mistero sul finale, Paola al provino non mi ha detto cosa sarebbe andata a fare la madre, mi ha chiesto solo di lanciarci uno sguardo complice tra madre e figlia, e la scena si doveva chiudere lì. Invece, quando abbiamo finito, mi ha dato un abbraccio. E lì ho percepito che c’era qualcosa tra noi, qualcosa che non si sarebbe esaurito lì. L’abbraccio nella scena non era previsto, ma ci siamo sentite entrambe di fare quel gesto. Era la cosa più giusta in quel momento, è stato bello.

Romana Maggiora Vergano con Paola Cortellesi e i piccoli Mattia Baldo e Gianmarco Filippini in ‘C’è ancora domani’. Foto: Claudio Iannone/Vision Distribution

Quando ti sei sentita davvero un’attrice? E qui le risposte variano: c’è chi dice da sempre e chi, anche se magari ha una carriera lunga e gloriosa, attore non ci si è sentito mai.
Questa domanda mi fa pensare al fatto che io non mi sento attrice: sento di fare l’attrice. E credo di pensarlo principalmente per tutelarmi. Nel momento in cui ho capito che questa passione era talmente grande che stavo facendo coincidere la mia identità con il mio lavoro, ho anche capito che questa cosa non mi stava portando da nessuna parte, anzi mi stava dando solo tanta sofferenza. Io il clic ho sentito di farlo lì, quando ho capito che quello dell’attrice è il mio mestiere, quindi qualcosa che io faccio e non qualcosa che io sono, e questo mi ha un po’ deresponsabilizzata con me stessa. I no non mi facevano più sentire delusa come se avessi perso l’orientamento o addirittura l’identità, al punto che non mi potevo più nutrire, lavare… non andavano più a intaccare la mia persona in senso assoluto, ma solo la sfera professionale. E quando ho cominciato a ragionare in questo modo, i risultati sono iniziati ad arrivare. Quindi, forse, attrice spero di non sentirmici mai.

Oggi chi guardi come riferimento, come ispirazione?
Il caposaldo nella mia ricerca è Jasmine Trinca, un’attrice eccezionale, iper versatile, e anche una regista molto brava: ho amato il suo primo film, Marcel!, che tra l’altro parla di un particolare rapporto madre-figlia, una cosa che torna spesso ultimamente. Ero una giovane madre nella Storia di Francesca Archibugi, è incentrato sul rapporto tra una ragazza e suo padre il prossimo film di Francesca Comencini in cui ho recitato… sono legami che evidentemente mi parlano molto, in questo periodo. Poi mi piace tantissimo Barbara Ronchi, un’attrice che nella sua mitezza arriva sempre dritta, mi emoziona. Mi piacerebbe diventare un’attrice così. E tra i registi dico Céline Sciamma, ho amato molto il suo ultimo film, Petite maman, mi piace quando i registi riescono a far lavorare in quel modo i bambini, tirando fuori le loro storie. Direi queste tre, che sono tutte e tre donne… (ride)

Ma dobbiamo ancora fare questa distinzione?
Davvero… La cosa che mi è rimasta più impressa della giornata dei David di Donatello è stata la mattinata al Quirinale, quando il presidente Mattarella ha detto: “Spero che un giorno non si dovrà più fare questa distinzione”. Ci stiamo avvicinando, dài. O almeno ce la stiamo mettendo tutta.

Chi devi ringraziare?
Paola, ovviamente. Le devo tantissimo, anche per essermi rimasta accanto dopo le riprese. È ancora molto presente nella mia vita, mi scrive spesso anche solo per chiedermi come sto, se ho bisogno di qualcosa. Ha dato una svolta alla mia carriera, ma anche alla mia vita personale. Poi la mia scuola, la Volonté. E mia madre. Sembra una frase fatta, ma davvero lei ci ha creduto prima che ci credessi io. Io pensavo di voler fare il medico come i miei genitori, invece lei, quando le ho detto che forse avrei voluto provare a fare l’attrice, ha tirato un sospiro di sollievo, invece di tirarmi un piatto dietro.

E adesso che succede?
Adesso mi sento più libera di divertirmi. Prima c’era l’ansia del sì, del dover dimostrare qualcosa. Non che adesso non debba più farlo, ma sento di avere buone carte in mano, e allora posso anche giocarci un po’ di più.

Puoi anche sbagliare, no? Tanti tuoi colleghi, di ogni età, mi dicono che i set più belli spesso sono stati quelli di film andati malissimo.
Sì, infatti. Voglio azzardare. Prendermi dei rischi. Quando sei più consapevole, è anche bello fare un passo falso e ripartire. Sei più strutturato per rialzarti.

Che poi che palle questo mondo che dice a tutti che non si deve sbagliare mai.
Non c’è niente di più noioso. Io non vedo l’ora di sbagliare. Fino a due-tre anni fa avresti parlato con una persona completamente diversa. Me l’ha detto anche la mia agente. C’è stato un periodo in cui i provini non andavano mai, arrivavo fino a un certo punto e poi mi fermavo. E lei mi disse: “Perché tu fai il compitino. Resti nella tua comfort zone dove sei certa che nessuno ti può dire nulla, ma non arrivi agli altri perché non ti prendi dei rischi, non sei aderente a quello che senti in quel momento”. Adesso è un momento in cui i rischi me li sto prendendo, dentro e fuori dal lavoro.

Basta compitini.
Basta. Adesso datemi una nota di demerito.