Pavarotti raccontato da Pavarotti. Ron Howard ci spiazza così: con una biografia vecchio stampo, che all’inflazionato biopic interpretato da attori preferisce le immagini sgranate, ma genuine, di filmini amatoriali inediti e le testimonianze dei familiari. Gli stessi che, fino a pochi anni fa, non ne volevano sapere di rilasciare interviste. Invece eccoli qui, tutti riuniti davanti all’occhio della cinepresa nel film Pavarotti (nelle sale il 28, 29 e 30 ottobre, prodotto da Polygram Entertainment, Imagine Entertainment e White Horse Pictures con Diamond Docs in collaborazione con TimVision e Wildside). L’ambizione è quella di dare vita a un racconto molto rock sulla lirica e su Pavarotti, dove Ron Howard è un invisibile direttore d’orchestra. La sua mano non si sente mai. La storia non è infatti a tesi e a tirare le somme non interviene alcun narratore. A prendersi tutta la scena, come accadeva nei teatri d’opera o nei palchi dei concerti, c’è solo Pavarotti punteggiato dal ricordo di parenti, colleghi e amici, ma soprattutto da se stesso.
Ron Howard ha voluto infatti che a spiegare la vita, i successi e le gioie di Pavarotti fosse lo stesso tenore, attraverso le immagini inedite concesse da Nicoletta Mantovani e le tantissime interviste da lui rilasciate negli anni. Così, in due ore, ripercorriamo la storia del tenore più famoso al mondo: da quando da ragazzino si interrogava sul proprio futuro (il padre gli suggeriva di diventare insegnante ma per fortuna sua madre dissentiva…) fino alla morte nel 2007. Nel mezzo, i successi mondiali come tenore, la svolta pop e persino uno spot per Lavazza che lo vide protagonista nel 1994, le varie vicissitudini familiari, l’amicizia con Bono degli U2, la nascita dei Tre tenori, l’amore con Nicoletta (34 gli anni di differenza), che allora creò scandalo. E poi, ovviamente, tantissima lirica.
Dopo aver realizzato un documentario sui Beatles, è passato a Pavarotti. Un bel cambio di registro. Com’è nata l’idea?
Me l’ha proposto Nigel Sinclair (il produttore, nda) e l’idea mi ha subito intrigato: Pavarotti è un nome famoso nel mondo ma forse non tutti ne conoscono la storia nel dettaglio. Non essendo un grande esperto di lirica, mi sono messo a studiare e più mi documentavo su Pavarotti più mi rendevo conto che la sua vita poteva essere ripercorsa in quello che che cantava. Così siamo partiti da qui: abbiamo selezionato alcune arie, che avessero una logica emotiva interiore, e su queste abbiamo iniziato a costruire il racconto.
Il film restituisce tutta la potenza del canto operistico. Anche la lirica ha un suo lato “rock”, per non dire “sexy”?
Sebbene Pavarotti sia incentrato sulla storia di Luciano, spero che lo spettatore resti stupito dalla carica emotiva percepita dalla musica. Per me sarebbe il miglior complimento: rappresenterebbe il risveglio di una forma artistica. Pavarotti voleva portare la lirica alle masse, e l’ha fatto. Speriamo di aver contribuito anche noi con questo film.
In che modo il linguaggio del documentario risultava più funzionale allo scopo?
Francamente non riuscivo a immaginare un interprete in grado di impersonare Pavarotti. Figuriamoci cantare come lui! La sua voce è unica. Volevamo restituire con integrità la sua storia; era quindi giusto lasciare parlare e cantare lui. Inoltre, a differenza di un biopic, il documentario ti permette di avvicinarti al significato di una persona perché si basa sul materiale d’archivio, non su ipotesi aprioristiche. Tra l’altro Nicoletta Mantovani ha messo a nostra disposizione del materiale video molto personale, che Pavarotti ha registrato nell’ultima parte della sua vita riflettendo sulla propria esistenza. È un materiale sicuramente grezzo ma che rivela moltissimo non solo sull’artista ma anche sull’uomo Pavarotti. Da qui, la scelta di non utilizzare nemmeno la voce fuori campo.
Ha voluto fare un passo indietro anche come regista?
Pavarotti ha rilasciato tantissime interviste ed è stato registrato in così tante esecuzioni, che nessuno di lui poteva raccontare la sua vita come lui. Di certo lo sa fare meglio di un narratore accademico che guida in modo didascalico lo spettatore nel racconto.
I rapporti familiari non erano certo idilliaci in casa Pavarotti, eppure il film mette l’accento sull’avvenuta riconciliazione. Perché avete voluto soffermarvi su questo aspetto, più che sulla battaglia legale?
Quando abbiamo iniziato a registrare le testimonianze dei figli, non sapevamo cosa aspettarci, né quale sentimento sarebbe prevalso nelle loro parole. L’unica cosa certa è che finora nessuno aveva rilasciato interviste volentieri. Sono quindi grato per il trasporto e l’onestà con i quali la famiglia ha illustrato i propri ricordi e sofferenze. Ci hanno dato una grande lezione di vita: hanno perdonato Luciano, senza per questo dimenticare.
Il documentario ripercorre tutti i momenti salienti della vita di Pavarotti, tranne lo scandalo per evasione fiscale che lo travolse nei primi anni 2000. Perché avete deciso di omettere questa parte?
All’inizio, nella prima fase di montaggio, era presente. Tuttavia i dettagli di questa vicenda sbilanciavano il racconto rendendo peraltro il film troppo lungo. Così li abbiamo tolti: abbiamo preferito privilegiare la storia del suo divorzio o il suo rapporto con Nicoletta, anziché la ricostruzione di un momento di difficoltà finanziaria che, di fatto, non riflette il vero spirito di Pavarotti.
Il film non cavalca mai l’effetto nostalgia ma celebra la memoria di un uomo che ha fatto la storia. Quanto è importante oggi fare memoria del proprio passato?
Per la nostalgia abbiamo già internet. Credo che la ricerca della conoscenza, che ci accomuna tutti, possa diventare una grande forma di intrattenimento. Attraverso il cinema, gli sceneggiatori possono offrire punti di visti interessanti e inediti su personaggi ed eventi storici dei quali pensiamo di sapere già tutto. Invece…