È l’attore più prolifico della sua generazione e i suoi film hanno incassato un totale di circa 30 miliardi di dollari, facendo di lui uno dei nomi più pagati di Hollywood. È l’idolo di Quentin Tarantino e ha lavorato con chiunque da Martin Scorsese a Steven Spielberg, da Spike Lee a Paul Thomas Anderson. Ha combattuto contro Stormtrooper, supervillain e addirittura King Kong. E, dopo undici apparizioni nei panni del superhero/spymaster Marvel con un occhio solo, il suo Nick Fury è finalmente pronto per un progetto in solitaria.
L’attore 74enne – anche se dargli un’età precisa sembra impossibile – riprende il ruolo di Fury in Secret Invasion, la serie ora disponibile su Disney+ in cui il suo personaggio riunisce una squadra speciale con la missione di fermare la conquista della Terra da parte di Skrull. Jackson è affiancato da un cast stellare di cui fanno parte Ben Mendelsohn, Cobie Smulders, Martin Freeman, Emilia Clarke, Kingsley Ben-Adir, Don Cheadle e Olivia Colman. Successivamente, apparirà sempre nei panni di Fury in The Marvels, l’atteso sequel di Captain Marvel con Brie Larson che arriverà nelle sale il prossimo novembre, mentre ora sta girando per Netflix ad Atlanta l’adattamento della pièce di August Wilson The Piano Lesson, insieme a John David Washington, Danielle Deadwyler e Ray Fisher.
La cosa di cui tutti parlano a Hollywood è lo sciopero degli sceneggiatori. Qual è la tua posizione al riguardo?
Penso che gli sceneggiatori abbiano il diritto di essere pagati. E di essere pagati per quello che realmente valgono. Non è quello che accade a Hollywood. Vediamo se questo sciopero porterà a una maggiore equità.
Anche lo sciopero della Screen Actors Guild sembra alle porte. Tom Hanks di recente ha condiviso la sua paura riguardo l’Intelligenza Artificiale e la possibilità, da parte degli Studios, di poter continuare a utilizzare l’immagine di un attore dopo la sua morte.
La gente si sta preoccupando per tutto questo adesso?! Io è da un pezzo che ci rifletto. La prima volta che sono stato “scannerizzato” da George Lucas (per La minaccia fantasma, nda) ho pensato: “Ma cosa diavolo sta facendo?”. George e io siamo amici, ci siamo fatti una risata. Pensavo lo stesse facendo perché, nell’Episodio I, c’erano un sacco di attori un po’ in là con l’età: se fosse successo loro qualcosa, avrebbe comunque potuto averli nel film. Da quando ho fatto il mio ingresso nel Marvel Cinematic Universe, ogni volta che cambi un costume vieni scannerizzato. Quando ho girato Captain Marvel, sono stato ringiovanito dalla Lola (la società che si è occupata degli effetti visivi, ndt) e mi sono detto: “Adesso con la mia immagine possono fare quello che vogliono”. Ed è una cosa che può mettere anche un po’ di paura. Gli attori del futuro dovranno fare quello che io ho sempre fatto, quando ricevo un contratto e leggo espressioni come “in perpetuo”: le faccio cancellare. È il mio modo per dire: “No, non do la mia concessione a tutto questo”.
Samuel L. Jackson riprende il ruolo di Nick Fury nella serie ‘Secret Invasion’. Foto: Marvel Studios/Disney+
Qual è la musica che ti emoziona di più?
C’è della musica di quand’ero giovane che ascolto ancora. Mi piace il rock – negli anni ’60 ero una specie di hippie – e negli anni ’70, quando sono andato a vivere ad Atlanta, c’era una fantastica rock band nera, i Mother’s Finest. Suonavano all’Alex Cooley’s Electric Ballroom. Ascolto anche un sacco di hip-hop di oggi. A volte metto qualche deejay su Apple Music per aggiornarmi su quello che succede adesso. Sono aperto a tutto, tranne che al country (ride). L’hip-hop mi interessa molto. Quando Juice WRLD era vivo, lo ascoltavo spesso. Quel ragazzino aveva tanti problemi, ma la sua musica era fighissima. Una volta ho chiesto a mia figlia e ai suoi amici quale fosse il “loro” Steve Wonder, e mi hanno risposto: “Usher”. Non hanno detto Beyoncé. Hanno detto Usher.
Parliamo di Secret Invasion. Sei stato tu a convincere la Marvel a dare a Nick Fury un progetto tutto per sé?
In realtà no. La mia paura, al contrario, era che volessero farmi fuori (ride). Quando mi hanno chiamato per parlarmi della serie, ero convinto che volessero dirmi che il mio personaggio sarebbe morto. Non mi avevano fatto andare nel Wakanda, il che mi aveva irritato parecchio: come fa Nick Fury a non sapere niente del Wakanda? La loro replica è stata: “Lo conosce benissimo, solo che non ci va”. Ho sempre voluto raccontare la storia di Nick prima che incontrasse i suoi amici supereroi, quando viveva nell’ombra e operava da spia. Secret Invasion non è il solito cinecomic: è crudo, molto dark.
Quando sei apparso la prima volta nei panni di Nick Fury in Iron Man avresti mai pensato che lo avresti interpretato per i successivi 15 anni?
Mi avevano parlato di un contratto per nove film, e nove film voleva dire un impegno di 10-12 anni. Ma non avevo idea che sarebbero passati così in fretta. Sono grato per tutto il lavoro fatto finora, e per questo personaggio. Sono stato fortunato, nel corso degli anni, a finire dentro franchise amatissimi come Jurassic Park, Star Wars, e ora le produzioni Marvel.
Quel contratto per nove film è stato vantaggioso o è stata una fregatura alla Scottie Pippen? Pensi di avere avuto il giusto riconoscimento economico?
Il mio contratto è sempre stato negoziabile (ride). Per ogni film c’è stata una nuova trattativa. Se mai, ci sono stati progetti a cui avrei voluto partecipare e in cui invece non mi hanno chiamato, come Captain America: Civil War: se quei ragazzini stanno combattendo tra loro, perché non arriva Nick Fury a rispedirli nelle loro camerette? Non mi hanno mai spiegato il perché di quell’assenza.
In The Marvels tornerai a dividere lo schermo con Brie Larson: siete un’ottima coppia, posso dirtelo? Larson ha ricevuto moltissime critiche dalla parte più sessista della fanbase Marvel. Com’è stato vederla affrontare tutto questo?
Brie è una persona molto più forte di quello che in molti pensano. Insieme abbiamo fatto Kong, che non è stata la migliore delle esperienze per nessuno di noi due. Siamo diventati ottimi amici su quel set proprio perché non è stato piacevole. Poi, quando stava lavorando al suo primo film da regista (Unicorn Store, nda) e stava cercando un certo tipo di attore per una parte molto particolare, ero nel camper del trucco e parrucco con lei e le ho detto: “Ma scusa, perché non lo hai chiesto a me?”. E lei: “Perché pensavo non l’avresti mai fatto… dunque, lo fai?”. E io: “Sì, facciamolo!”. Abbiamo girato quel film nel pieno delle elezioni poi vinte da Trump, e in quell’occasione abbiamo legato ancora di più. Lei era distrutta per quella vittoria, io la consolavo: “Non farti travolgere da tutto questo, ora è il momento di essere ancora più forti”. Quando è stata contattata dalla Marvel per Captain Marvel, mi ha chiamato: “Mi vogliono nel Marvel Cinematic Universe, devo accettare?”. E io le ho detto: “Ma certo! Fallo!”. Ma non si è mai fatta piegare dalle critiche di quei maschi incel che odiano le donne forti e il fatto che lei sia una femminista che esprime le sue opinioni senza filtri. È tutto quello che più detestano, ma lei si è sempre posta per quello che è, in modo sincero.
Qual è il miglior consiglio che hai mai ricevuto?
Lo stesso che ho dato a mia figlia. Un giorno mi ha chiesto: “Come si pianifica una carriera?”. E io le ho risposto: “Devi scegliere qualcosa che ti faccia alzare ogni giorno felice di farla”. Io non l’avevo realizzato finché non mi sono imbattuto nel teatro, quand’ero all’università. Non sapevo con certezza che strada avrei voluto prendere, poi mi sono iscritto a un corso di public speaking e ho finito per recitare nell’Opera da tre soldi di Brecht. Su quel palco ho trovato un luogo fisico e mentale che mi dava felicità, e soprattutto uno scopo. All’improvviso, ho capito cosa avrei voluto fare tutti i giorni della mia vita: non uscire a bere e fumare canne coi miei amici, ma passare il mio tempo in un teatro, a creare qualcosa di bello insieme a persone meravigliose.
Sei stato una delle maschere al funerale di Martin Luther King. Che cosa ha significato per te quell’esperienza?
Ho fatto la maschera perché il funerale si è tenuto al Morehouse College. Ero uno studente, e hanno chiesto a noi studenti di accompagnare gli invitati nei loro posti. Il giorno dopo che Martin Luther King fu assassinato, hanno portato il suo corpo a Spelman, ed è rimasto lì in una cappella per qualche giorno. Robert Culp e Bill Cosby hanno affittato un aereo e hanno portato cento studenti da Spelman a Morehouse e poi a Clark e Memphis, per marciare in memoria di King. E poi siamo tornati indietro per il giorno del funerale. Ho fatto il volontario proprio per poter partecipare a quell’evento. Il mondo però non sembra granché migliorato. Da ragazzo degli anni ’60, vedere quello che è successo alla convention democratica del 1968, vedere la polizia picchiare i dimostranti – e in quel caso si trattava di giovani ragazzi bianchi – mi ha fatto capire che ci sono cose che il potere ci vieta di fare. Una di queste è protestare per i nostri diritti. Perciò, quando è stato ucciso George Floyd, è stato bellissimo vedere tutti quei ragazzi di etnie diverse lottare per la giustizia, manifestare contro quel potere che ancora una volta ci impediva di esprimere le nostre idee, di creare un vero cambiamento. Tutto questo purtroppo non è cambiato, anzi per me è pure peggiorato. Quando sono cresciuto, nel pieno della segregazione razziale, sapevo quali erano i bianchi che non mi volevano attorno e cosa pensavano di me. Sapevo quello che i Repubblicani pensavano di me e della gente come me. Quando vedo Trump vedo quegli stessi bianchi che mi urlavano “neg*o!” e che volevano che restassi al mio posto. Questo per me è il Partito Repubblicano, che ora sta facendo la stessa cosa con i più giovani e con la comunità gay. Non gli importa chi sei: se non sei con loro, sei semplicemente il nemico.
Ho letto che negli anni ’70 sei stato vicino alle Black Panther, e che l’FBI ha interrogato e minacciato tua madre per convincerla a farti uscire dal movimento.
Le hanno detto che sarebbe successo qualcosa di brutto, se non mi avesse fatto lasciare Atlanta nell’estate del ’69. In quel periodo avevo già deciso che avrei voluto fare l’attore. Non avrei lasciato la Rivoluzione, ma non avrei continuato ad essere l’animale politico che ero stato. Ero pronto a fare qualcos’altro. L’FBI si è presentato alla porta di mia madre in Tennessee, perciò lei è venuta da Chattanooga ad Atlanta, mi ha portato a pranzo per parlarmi e poi mi ha accompagnato in aeroporto, mi ha messo un biglietto in mano e mi ha detto: “Sali su quell’aereo e vai a Los Angeles”. È quello che ho fatto. Arrivato a L.A., sono diventato un’altra persona.
Samuel L. Jackson a Cannes con Quentin Tarantino e il cast di ‘Pulp Fiction’. Foto: Getty
Sei considerato da tutti un grande attore, ma pensi che qualcuno ormai ti dia un po’ per scontato?
Non sono mai andato a caccia di statuette. Mi piacciono le sfide, ma a volte è bello fare film insieme ai tuoi amici solo per divertirti. È come andare in giro con i tuoi compagni di sempre e a un certo punto dire: “Giochiamo ai cowboy”. Vedo film di cui mi piacerebbe fare parte. Vorrei fare un film in Corea, perché lì ci sono autori pazzeschi. L’altra sera ho visto Sisu, l’hai visto? È pazzesco. Mi piacciono i film fuori di testa come quello.
Quand’ero un ragazzo, avrei davvero voluto vederti vincere l’Oscar per Pulp Fiction, e ricordo che mi arrabbiai moltissimo quando invece non accadde.
Penso di essere l’unica persona nella storia degli Oscar che, all’annuncio del vincitore, da dentro quel quadratino in cui ti mette la grafica ha detto chiaramente: “Merda”. Quando hanno pronunciato il nome di Martin Landau ho proprio detto: “Oh, merda”. Non avevo nessuna speranza di vincere: ogni premio fino a quel momento era andato a Landau. Ma chi cazzo aveva visto Ed Wood? Perciò, nell’attimo in cui stavano per dire il nome del vincitore dell’Oscar, ho pensato: “Magari stavolta dicono quello giusto” (ride)
Tarantino ha detto che il suo decimo film, The Movie Critic, sarà anche l’ultimo. Ci sarai anche tu?
Non lo so. Lo spero! Sarebbe bello. Ma non ero in C’era una volta a… Hollywood, quindi chi cazzo può dirlo. L’ultima volta che ho visto Quentin è stato quando ho ricevuto l’Oscar alla carriera l’anno scorso: mi ha sconvolto il fatto che fosse venuto alla cerimonia! Era in Israele con il figlio piccolo, tornare apposta a Los Angeles è stato un gesto bellissimo, non me l’aspettavo proprio. Ma per fortuna sono ancora nella lista dei suoi attori di riferimento, e se scrivesse ancora una parte per me ne sarei felice. Mi piace sempre moltissimo lavorare con lui.
Samuel L. Jackson con Denzel Washington mentre riceve l’Oscar alla carriera nel 2022. Foto: Mark Coppola/Getty
Com’è stato invece lavorare con Olivia Colman in Secret Invasion?
Fantastico! Sono arrivato sul set la mattina in cui avremmo girato la nostra prima scena insieme, l’ho guardata, lei mi ha guardato, e tutti e due siamo scoppiati a ridere. È davvero favolosa. E anche Emilia Clarke lo è, e Ben (Mendelsohn) ha un talento fuori dal comune. E anche se entrambi abbiamo partecipato a molti film Marvel, prima di Secret Invasion io e Don (Cheadle) non avevamo mai avuto una conversazione insieme sullo schermo. E conosco Don da una vita! Ho passato momenti bellissimi insieme a persone che ammiro moltissimo. Sono persino andato sul set quando non dovevo girare solo per vedere Martin Freeman: speravo di avere una scena anche con lui.
Ho letto che da ragazzo eri balbuziente, e che per superare quel problema dicevi parolacce.
È vero. È quella che io chiamo la sindrome di Porky Pig: “Ba-dee, a-dee, a-dee, fuck!”. “Ba-dee, a-dee, a-dee, motherfucker!”. Facevo così. Avevo una balbuzie davvero grave. In tanti ne soffrono: io, Bruce Willis, Emily Blunt. Siamo un bel team.
Quello ti ha aiutato a diventare così esperto in parolacce?
Io sarei un esperto di parolacce? Io?! (ride) Be’, diciamo che sono un bravo interprete. Posso mettere insieme le parole e farle sembrare bellissime. Anche quando non lo sono.
Da Rolling Stone US