Agnese, Daniela, Marzia, Monica sono solo le ultime di una galleria già nutrita di donne che Sara Lazzaro ha indossato con eleganza e grinta. Sono queste quattro moschettiere ad averla portata a una notorietà di cui non sembra rendersi granché conto, e di cui soprattutto le frega il giusto. Cioè poco. La troviamo a un’oretta dalla convocazione di un set internazionale che la fa girare solo di notte, e ci regala una chiacchierata in cui ci racconta come vive il suo essere attrice e persona che ha in sé due (se non più) mondi, con la stessa originalità con cui interpreta i suoi ruoli. A partire da quello, irresistibile, di Monica in Call My Agent – Italia, uno di quegli adattamenti da una serie straniera che rischiano di essere una trappola, in cui hai solo da perdere, ma che grazie a un cast poco conosciuto ma eccellente e alle guest star in palla diventerà un caso. Un colpaccio di Sky che ha cominciato a farsi amare dalla prima serata lo scorso 20 gennaio.
Partiamo dall’inizio, da quella bambina divisa tra la California e il Veneto.
Sì, sono un ibrido, in me c’è un’ambivalenza che mi piace. Amo dire che io sono di Carmel e Rovolon. È così da quando sono nata, ce l’ho nel Dna che mi hanno dato la mamma californiana e il papà di Padova. Un Dna alimentato dalla vita, dal fare su e giù tra Stati Uniti e Italia, una crescita tra scuole, ambienti, panorami diversi. Tutto questo mi ha formata: nella testa, nel cuore, nell’affrontare il futuro. Non sono una, ad esempio, che ha una comfort zone, un luogo, una città, un quartiere dove ci sono tutti gli affetti e di cui non può fare a meno. I miei amici sono sparsi un po’ ovunque e già questo mi ha resa sempre molto indipendente. E poi il bilinguismo molti lo sottovalutano, ma è un dono che mi ha fatto mia madre e che non è solo l’avere due lingue madri. Il solo farti pensare in due lingue ti cambia lo sguardo. Banalmente, non pensi come molti che la realtà che vivi sia l’unica possibile, non rimani chiuso in recinti e pregiudizi, hai sempre almeno un’alternativa che mette in discussione le cose, te stesso in primis. E questo ti insegna sempre a ricominciare da zero e magari ti ritrovi a vivere tre vite, come me, a prendere aerei senza prenotare il ritorno.
Questo è stato fondamentale per le tue scelte di vita e di carriera?
Sì, anche per questo mi sono formata a Londra. Non sono quel tipo di attrice che voleva essere sul palco o davanti a uno schermo sin da bimba. Io disegnavo, amavo il silenzio, la carta e la matita. Galeotto fu un laboratorio di teatro al liceo (artistico, ovviamente, nda) e poi allo IUAV (l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia), ho lavorato tanto su scenografie e affini. E mentre ero sul palco, mentre guardavo lavorare gli attori, sentivo che qualcosa mi attirava. Inoltre lì capitavano molte compagnie inglesi e mi rendevo conto che il loro metodo, il loro modo di interpretare il lavoro, la visione del testo che avevano mi erano congeniali. Così sono andata a studiare lì.
Tu non sei la principessa da salvare, anzi sei tu quella che salva i principi azzurri.
Posso essere sincera? Quando fai i ruoli difficili, se sei una donna, devi passare per stronza. Sempre. Ed è abbastanza ridicolo e figlio di una narrativa che ha visto le donne sempre in modo bidimensionale per cui un personaggio femminile minimamente assertivo e che prende decisioni forti e magari ricorda al protagonista maschile chi è e anche quanto di male possa aver fatto in passato risulta quasi insopportabile. A me piace vedere queste donne, invece, come delle micce. Degli inneschi di nuove vite, di svolte. E sì, alla fine finisco per salvarli da strade già predefinite.
Sai che esiste la maledizione di Sara Lazzaro, vero? Quindi te lo chiedo: è stato più difficile respingere Lillo (in Sono Lillo) o Luca Argentero (in DOC – Nelle tue mani)?
Prima o poi dovevamo affrontare quest’elefante nella stanza. Quando ho letto il tuo articolo ho riso e mi sono detta: “Ecco, finalmente qualcuno se n’è accorto!”. Il punto è che tu mi stai chiedendo se voglio più bene a mamma o papà, come faccio a rispondere? Vero è che a Sara, a differenza dei personaggi che interpreta, la conquisti con una risata, l’umorismo vince su tutto. Quindi temo che, senza nulla togliere a Luca, alla fine vincerebbe Lillo. Però, davvero, è una scelta che non riesco a fare, perché pure Argentero è uno che sa farti ridere tanto.
Però diciamocelo, le donne che interpreti amano uomini con una doppia vita, dai supereroi che con un costume diventano altri a chi perde la memoria e diventa un altro.
Ecco, grazie, a questo non avevo mai pensato, ora le mie paranoie che già non sono poche aumenteranno e dovrò parlarne con la mia analista. Però mi piace pensare che il segreto sia che non siano donne che amano uomini complicati o in crisi, ma di far parte della loro crisi e di esserne in parte una concausa, di suscitare emozioni e pensieri così forti da volerli far diventare altro. O farli tornare in sé.
Tornando seri, l’impressione è che tu sia molto diversa dalle tue colleghe e colleghi, e anche per questo lo diventano i tuoi ruoli.
Sarei bugiarda a dire che non mi sento diversa. Il che non vuol dire che io mi senta fuori da qualcosa, anzi per la mia formazione esistenziale e professionale in realtà sono portata ad adattarmi a ogni realtà, a ogni comunità. Però lo so che io, ad esempio, sono fuori dagli standard estetici del cinema italiano, e che le mie modalità di lavoro e di stare sul set o in scena non sono molto comuni da noi. Così non mi sorprende quando mi scelgono per ruoli sticky, appiccicosi, come la Daniela di Volevo essere una rockstar. Mi capita spesso che con me i registi sperimentino e mi piace, così come il sentirmi fuori dal gruppo pur rimanendone parte integrante è una bella sensazione, non sono una in-crowd, alla comfort zone preferisco sempre il rischio di sbagliare. Il problema è che ancora in troppi, nel nostro cinema e non solo, scelgono proprio la comfort zone per raccontare l’universo femminile. Io invece adoro scrutare – e chi scruta – la coerenza dell’incoerenza che portiamo nel vivere.
Per dirla alla Boris, la (fuori)serie, sei molto poco italiana.
Basta però, io ho un senso del pudore che mi dice quando sto per sembrare spocchiosa, e ora se continuo così rischio di diventarlo. Però che devo dirti, hai ragione da vendere. Io amo i ruoli da non protagonista: l’amica della protagonista di Fedeltà, su Netflix, è un ruolo da sei scene che ha però dentro un mondo fondamentale per il personaggio interpretato da Lucrezia Guidone e per la storia. E inoltre in quei ruoli spesso ti dicono cosa devi raccontare ma poi ti danno carta bianca sul come, ed è così creativo avere poco tempo ma molte opportunità: è così che il set diventa quello che piace a me, una fucina, un laboratorio. Prendi Agnese di DOC, lei è una donna difficile perché ne ha passate di ogni. Andrea Fanti (il personaggio di Luca Argentero, ndr) vive il dolore ma anche il lusso dell’oblio, lei no, lei è il suo back-up, è lo scrigno in cui è chiuso il dolore che lei, loro hanno vissuto negli ultimi anni; e ad Agnese è affidato il compito di far capire quella storia, fondamentale per la serie, con uno sguardo, una parola, un gesto. Tutto ciò che è fuori campo e che torna sporadicamente in qualche flashback, in ogni minuto della serie è affidato a lei. Forse dipende dal tanto teatro che ho fatto, in cui tantissime volte la parola non corrisponde con la gestualità, l’espressività, lo stato d’animo del personaggio. Ed è ogni volta una sfida bellissima. Alla fine anche nel mio lavoro amo l’ibridazione, il rappresentare gli antipodi dentro di sé, il trovare la tragedia nella comicità e viceversa. Anzi, è vederle insieme, in un attore o in un film, che mi esalta.
Rischi la maledizione di Joe Pesci, di essere così brava da farti affidare quei ruoli secondari cruciali che come disse una volta Scorsese “necessitano di fuoriclasse: il protagonista lo puoi sbagliare ma il comprimario che determina la storia no”.
È un lavoro sporco e qualcuno deve pur farlo, e allora meglio che lo faccia chi li adora, no? I ruoli secondari hanno un potenziale incredibile, devono cercare e trovare l’efficacia ma anche la creatività, e se sai percorrerli nella maniera giusta, sceglierli e accettarli bene, ti regalano qualcosa che per un interprete è vitale e fondamentale, l’impossibilità di essere incasellata in una categoria, di essere bloccata sempre nello stesso personaggio. Spesso non sanno dove mettermi e, anche se a volte è difficile, è una cosa che non cambierei per nulla al mondo. Alla fine io sono una secchiona che ama studiare e però anche sporcarsi le mani, questa è la verità. Imparando cose nuove da chi ha punti di vista forti e urgenti.
Una di quelle cose che aiutano il talento, ma non la carriera.
A volte il pubblico non ti nota subito, ma sono ruoli fondamentali che rimangono nel loro immaginario. Non di rado a loro insaputa: si ricordano la tua faccia, le emozioni che hai regalato loro, ma magari dimenticano il tuo nome. Pazienza. Poi cosa devo dirti, la mia formazione inglese mi ha insegnato che ciò che è più importante è servire la storia.
L’impressione è che Monica sia stata la tua grande occasione per scatenarti.
Sì, in Call My Agent ho rotto gli argini, è vero: Monica è stata liberatoria. Ho amato la serie francese in modo spudorato e Noémie (il personaggio della serie originale francese, interpretato da Laure Calamy, ndr) mi ha letteralmente rapita, l’ho subito notata e trovata incredibilmente interessante. Così quando è capitato che volessero farmi un provino e proprio per un ruolo che avrebbe ricalcato il suo, ne sono stata felice e quasi impaurita per gli stessi motivi: ha un range allucinante, gioca tantissimo e si evolve continuamente. Prima dei provini ho sempre quel fremito, quell’emozione e sì, anche paura e nervosismo, poi mi dico “Fuck it” ed entro, do tutto, non so neanche io come. Questa volta, ancora di più, sentivo qualcosa dentro che doveva uscire dalla mente, dal cuore, dalla pancia. Ed è successo, ricordo che quando è finito il provino mi sono chiesta: “Ma cosa ho fatto?”. Deve essere andata bene, per fortuna, perché mi hanno preso. Poi tanto ha fatto l’alchimia con Michele Di Mauro (alias Vittorio, l’agente cinematografico a cui Monica fa da assistente, ndr) e il fatto che Monica non sia Noémie, perché CMA Italia è strutturalmente diverso da quello francese, lo replica nello spirito ma riuscendo ad adattarlo alla specificità italiana che, in particolare nello show-biz, che non esiste poi davvero, è davvero forte. Alla fine CMA Francia è una ricetta, ma poi qui da noi cambiano gli ingredienti, lo chef – grazie Luca Ribuoli (il regista, ndr), sei stato grande – e l’impiattamento. Monica rappresenta ciò che Noémie è in quel contesto, ma ha una sua unicità. Ho provato come mai prima e il regista è stato incredibilmente ricettivo quando ho avuto qualche idea. Un supergioco di squadra, una di quelle cose che ti capitano una volta nella vita, di quelle che da voi giornalisti a noi attori viene da dire “figata!” con quella sincerità che in questo ambiente non è che ci sia sempre.
Sembrano molto felici anche i grandi nomi che si sono prestati al gioco.
Per dire, anche Paolo Sorrentino era contento, della serie ma anche di se stesso. Così come Paolo Cortellesi, due che sono molto esigenti. È stata una festa prima, durante e dopo.
Dal grado di consapevolezza con cui parli del tuo lavoro, l’impressione è che tu senta il bisogno di essere anche altro. Hai mai pensato alla regia?
Sì, ci penso spesso alla regia, conta che io a Londra volevo fare il corso di regia e non solo quello di recitazione. Avevo 21 anni, avevo passato l’esame d’ammissione a quest’ultimo e il giorno dopo avevo l’altro esame. Mentre andavo a farlo, però, ho pensato che per diventare cineasta avrei voluto prima cimentarmi in tutto ciò che avrei chiesto ai miei attori. E comunque poi sono entrata anche nel corso di sceneggiatura, ho scritto due corti e, come mi è successo con Cloro, traduco anche i copioni dall’italiano all’inglese, in quel caso per i co-produttori. Mi interessa molto creare, scrivere – sono una che venera la sceneggiatura – e un giorno, magari, mettermi alla prova anche dietro la macchina da presa. Ora però voglio godermi questo momento, tanto arriverà l’età in cui mancheranno i ruoli. L’Italia non è ancora così matura da proporre ruoli davvero interessanti a donne mature, e allora mi serve tempo e coraggio per provare a fare il salto. Molte colleghe mi spronano a farlo. Valentina Bellè me lo dice sempre, e lo ha fatto anche questa volta: “Brava Sara, sei stata bravissima, ma ora voglio qualcosa di tuo”.
Hai un sogno nel cassetto? Che ne so, dire di no a DiCaprio, dopo Lillo e Luca?
Ho smesso di avere sogni nel cassetto, mi sa perché mi piace la realtà che ho davanti adesso. Però se proprio devo sforzarmi, i fratelli Coen. E qualche tempo fa sono stata sul punto, esattamente come ha fatto Javier Cámara con Sorrentino (l’attore spagnolo ha poi avuto il ruolo del cardinal Gutierrez in The Young Pope, ndr), di scrivere a Wes Anderson per fare un suo film. Anche un secondo, anche se poi tagliavano la parte. Ho voglia di materiale narrativo controverso, sfaccettato.
Vuoi essere la Frances McDormand italiana?
Ora non insultare la più grande attrice vivente. Voglio qualcuno che scriva da dio, va bene anche Tarantino, un altro sceneggiatore clamoroso. Voglio un cinema che se ne frega dei canoni. Tutti.