Le luci si accendono sopra il tavolo di un’autopsia. Un corpo umano vi giace sopra, freddo e grigio, le fattezze già distorte dal primo tempo che si è sedimentato su di esso dal decesso. Entra una figura femminile, si infila dei guanti di lattice, ne osserva le fattezze da vicino. Annota la forma del cranio, eventuali lesioni, la conformazione delle ossa per provarne a identificare l’età, il gruppo etnico, l’identità.
Potrebbe essere una scena da A Murder at the End of the World, e invece succede a Milano negli spazi del LABANOF, il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Università degli Studi. La protagonista è il medico legale, docente universitaria e responsabile scientifico del Laboratorio, Cristina Cattaneo. Sta eseguendo l’analisi per una ragione semplice, e complicatissima: restituire il nome a un corpo che l’ha perso, spesso a causa di una dipartita violenta o avvenuta in circostanze misteriose.
Missione che il LABANOF porta avanti dal 1995, navigando casi di cronaca nera di rilevanza a volte nazionale (pensiamo alla vicenda attorno alla morte di Yara Gambirasio) e facendosi testimone delle risacche (a volte letterali) della Storia: oggi una prostituta improvvisamente scomparsa e ritrovata uccisa, domani un migrante non sopravvissuto a un naufragio durante la traversata del Mediterraneo, e la lista degli esempi potrebbe spaziare.
Un luogo nato per affrontare la morte, riportarle dignità, e sfatare – se ce ne fosse ancora bisogno dopo il boom dei prodotti, più o meno di finzione, legati al mondo del thriller e del crime – il grande detto secondo cui “i morti non parlano”. Invece comunicano, eccome. Ma, come per le lingue degli antichi, bisogna farci il callo, prendere il loro passo, aguzzare l’ingegno. Sembra uno di quei giochi a puzzle, partita tra chi caccia e chi fugge, alla base di un intero genere narrativo, quello “giallo”: mettere insieme gli indizi il più velocemente possibile, risolvere il mistero, portarsi a casa anche questa. Ma, come sappiamo dalla sua evoluzione noir, cioè esistenzialista (se avete visto almeno una stagione di True Detective sapete perfettamente di che cosa stiamo parlando: indagini su crimini oggettivi per permettere a chi cerca di conoscere meglio sé stesso), le cose non sono così semplici.
Lo mostra Sconosciuti puri, documentario scritto e diretto da Valentina Cicogna e Mattia Colombo che estrapola un momento preciso della storia recente del LABANOF: la road to Europe di Cattaneo, e la sua preparazione a un intervento per chiedere alle istituzioni di prendere il tema del riconoscimento post-mortem in modo molto più serio di ora, unificando le banche dati dei diversi Paesi per agevolarlo. Sulla strada si incontrano diritti, identità, coraggio testardo. E la consapevolezza che, negli anni in cui l’autodeterminazione è balzata in primo piano in vita, così debba essere anche in morte, per restituire dignità al periodo dell’esistenza che, per consuetudine, finisce nell’oblio.
Per Cicogna, l’incontro con il LABANOF e i suoi squarci avvenne in un momento di difficoltà, a ridosso della perdita della madre. Grazie alla giusta dose di serendipità, la regista (già sceneggiatrice e montatrice, ora al primo film dietro la macchina da presa) si è avvicinata alle attività del LABANOF mentre lavorava a un progetto narrativo crime. «Capii che, nonostante io stessi soffrendo molto, c’erano persone che dovevano portar dolori ancora maggiori del mio, perché alla perdita di un caro si assommava l’impossibilità di rintracciarne il corpo, e questo perché, a quel corpo, non era stato possibile legare il nome che l’avrebbe riportato dalle persone che lo amavano», ci dice.
Sul crepuscolo tra al di qua e al di là viaggia anche lo stimolo, la domanda prima che mosse Cattaneo e che la portò ad arrivare alla guida del LABANOF. Come ha dichiarato in un’intervista al Corriere: «Quando ero piccola e veniva a mancare un conoscente mia madre diceva: gli è mancato il fiato. Mi è restato il dubbio… poi sono ondivaga, indecisa tra studi classici e scientifici». Queste ultime parole sono da tenere bene a mente. Semplificando, l’opera del LABANOF si potrebbe distillare in un “utilizzo degli strumenti della scienza al servizio dell’umanesimo”, o anche, riesumando Terenzio, “homo sum, humani nihil a me alienum puto“. Restare indifferenti davanti allo svilimento della vita che ci è fraterna, in altre parole, non si può.
«L’aspetto umano di Cristina è fortissimo. In lei convivono il medico e la professoressa glaciali, metodici, bravissimi. Poi però arriva anche il lato umano, che, non giriamoci attorno, in mestieri come questo è a rischio di soccombere», continua Colombo. «Noi volevamo creare un film che tenesse conto di ambo le facce della medaglia, e per questo abbiamo lasciato che le cose fluissero da sé, senza calcare la mano con interviste o situazioni costruite. Si chiama documentario d’osservazione, è vicino alle logiche del cinema del reale. Quello che abbiamo fatto è stato girare, girare, girare, e frequentare assiduamente il LABANOF e i professionisti che vi lavorano, così da costruire con loro un rapporto di fiducia, un’oasi dove esprimersi in libertà senza il timore delle macchine da presa».
Anche perché la dottoressa Cattaneo e il LABANOF non sono nuovi a questa piccola, preziosa celebrità. L’attenzione attorno alle loro attività (tristemente complice la pandemia?) si amplifica nel 2020, grazie anche al podcast Rai Sound Original Labanof. Corpi senza nome di Rai Radio 3. E poi, tra Demoni urbani (già sapete: “Sono Francesco Migliaccio”, eccetera eccetera), Indagini (“Io sono Stefano Nazzi”, eccetera eccetera) ed Elisa True Crime (aka Elisa de Marco, content creator e host di uno dei più popolari podcast italiani degli ultimi tempi), l’interesse rinnovato del substrato “pop” per la cronaca nera ha contribuito a portare l’attenzione del pubblico sui vari temi collaterali alla risoluzione dell’indagine, sondando “ciò che rimane”. Ah, e vogliamo mettere le eterne voci di una terza stagione di Mindhunter, o l’atteso ritorno proprio di True Detective con Night Country?
Proprio a causa di questo hype (e degli assalti della stampa), continuano i registi, «la realizzazione del documentario ha richiesto otto anni, di cui il primo non si è girato niente perché Cristina ci stava un po’ “testando”, continuava a rimandare il nostro primo incontro. Alla fine ha capito che avevamo intenzione serie, ma non che il resto del corteggiamento sia stato una passeggiata. Per l’anno seguente, al LABANOF abbiamo potuto filmare solo il suo corpo studenti. Materiale molto bello, ma non avrebbe trovato posto dentro Sconosciuti puri. Chissà non possa assumere una nuova forma, prima o poi».
Già, sconosciuti puri. Questo l’appellativo che Cattaneo utilizza per indicare i corpi senza identità, che non hanno ancora ricevuto la giustizia che meritano. E, parlando di giustizia, non si può non parlare di diritto. Nello specifico, «nel nostro caso entrava in gioco quello alla privacy. Come avremmo potuto riprendere in maniera etica cadaveri senza identità, che proprio per questo non avrebbero mai potuto ricevere il benestare della famiglia o degli eredi?».
La soluzione escogitata da Cicogna e Colombo è stata fornirsi di regole precise per lavorare a favore del corpo, sempre. «Per esempio, una cosa che si nota è che i cadaveri non sono mai, paradossalmente, i protagonisti della scena; nel senso: si vedono ma forse di più si intuiscono, visto che non ci soffermiamo mai su dettagli né scabrosi né ravvicinati, e la loro presenza diventa quella di uno spettro etereo, non necessariamente maligno, però presente», e che, dalla parte dello spettatore, viene percepito come panopticon. Solo che i prigionieri siamo noi, e i corpi senza nome che ci ronzano attorno sono i detentori dello sguardo d’insieme. E infatti, Sconosciuti puri gioca sugli stilemi, anche estetici, del film thriller, aumentando la tensione con un cambio d’angolo, una scena tenuta qualche secondo di più, la luce che si modifica sul volto della sua protagonista (e il suono, segnaliamo, è fatto dal bravo Simone Paolo Oliviero, già collaboratore di Michelangelo Frammartino per Il buco).
Se tutto ciò vi ricorda qualcosa, è perché Cristina Cattaneo potrebbe essere una perfetta Jodie Foster in versione Liz Danvers, occhi sempre all’erta sull’obiettivo (e infatti quante inquadrature, sullo sguardo che scandaglia gli “sconosciuti puri”) e un trucchetto-ossessione da manuale: non stare tanto a farsi delle domande, quanto a cercare quella corretta.
Per lasciarvi con l’acquolina in bocca, non vi diremo come andrà a finire l’avventura di Cattaneo a Bruxelles, né quale sarà, alla fine, l’unica domanda da farsi. Ai registi, però, l’ultima la facciamo: ma perché, tutto d’un tratto, i documentari si sono messi a tirare in ballo le istituzioni europee e il rapporto dei cittadini con esse? Pensiamo al recente lavoro d’inchiesta di Giulia Innocenzi e Paolo D’Ambrosi, Food for Profit, che vuole instillare un dubbio fondamentale circa alcuni meccanismi decisionali europei e mostrare le conseguenze di decisioni mal consigliate.
«La risposta ha due facce: la prima è che, per una questione di fondi e bandi, vengono premiate le coproduzioni internazionali, e dunque, dovendo magari produrre con professionisti di altre nazioni, si tende a cercare un tema comune su cui tutti abbiano da dire la propria. E poi, il documentario è cresciuto molto negli ultimi tempi, sia a livello di comunità festivaliera che professionale, c’è più spazio per far girare le idee. Questo è un lato. Dall’altro, troviamo il fatto che l’Europa sta riflettendo sulla dialettica tra populismo e democrazia, mentre i partiti dell’estrema destra ricevono, mediamente, più voti di anni passati ma vicini. Se il nostro percorso vorrà essere comune, saremo noi a doverlo custodire come tale, ed è importante riflettere sul contenitore che ci siamo dati». Cominciando sempre, concludiamo noi, dall’identità e dal diritto di vedersela riconosciuta.
Sconosciuti puri è una produzione Jump Cut, Amka Films Productions e Sisyfos Film Production, è stato presentato in anteprima a Vision du Réel 2023 ed è candidato come miglior documentario ai David di Donatello 2024 – Premio Cecilia Mangini. La lista con le proiezioni aggiornate del documentario si può consultare qui.