Il giorno che segue questa chiacchierata ci scambiamo via messaggi delle citazioni da 11 Outlined Epitaphs di Bob Dylan, 1963. Undici epitaffi abbozzati, stanza numero dieci: mai stanca, mai triste, mai colpevole. Fa sorridere perché proprio quello sguardo un po’ stanco, un po’ triste e un po’ colpevole forse è stata la sua fortuna. Lo sguardo che t’aggancia, come dice lei, che resta in silenzio ma in realtà sta urlando: “Io c’ho bisogno che stai con me e che mi capisci. C’ho delle cose da dirti”.
«Scusa, stamattina ho questa voce perché ieri abbiamo fatto tardi alla serata di promozione, che te lo dico a fare». Arriva dall’anteprima della seconda stagione di Christian (dal 24 marzo in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW), progetto al quale è attaccatissima e non ne fa mistero (fatto raro, nel suo caso). È una questione di forza vitale, di gruppo, di incontri fortunati, in primis quello con Edoardo Pesce, compagno di scena con il quale sembra condividere lo stesso gruppo sanguigno, e infatti in scena si vede. Christian e Rachele parlano la stessa lingua, e non è il romanesco. «Quindi ieri sera hai fatto i cori?». «Sì, ho fatto anche i cori. Mi sono sfogata come piace a me».
Come piace a lei – scopro – ha sempre a che vedere con la pancia e con l’istinto. Con i karaoke ruggiti (quindi rigorosamente Bertè e Martini), con una romanità tribale e dissacrante, con un modo di stare al mondo “senza pelle”, ma anche con la sfacciataggine di andarsi a prendere un ruolo raccontando qualche bugia bianca (a Roma le chiamiamo “stronzate in buona fede”, ed è vietato offendersi). Per capirci: di fronte a Muccino (in A casa tutti bene – La serie) si è improvvisata Silvia del Fleming, di fronte a Bonivento (Vi perdono ma inginocchiatevi) Silvia da Palermo. Ed entrambi ci hanno creduto. Poi, naturalmente, il gusto di farsi smascherare e sentirli ammettere: «Mannaggia, questa m’ha fregato». Dal primo film alle ultime serie tv, dieci anni che sembrano venti. Ma mentre tutti intorno a lei le fanno notare che Silvia D’Amico inizia a significare qualcosa, lei, naturalmente, continua a rispondere: «Capirai, dài, non è successo niente».
Tu non sei una che si lascia accendere da facili entusiasmi in pubblico, ma quando si tratta di Christian…
Vero? È che in questo mestiere capitano tantissimi progetti uno diverso dall’altro, ed è anche bello buttarsi, però Christian è un incontro fortunato. Nel senso che è davvero un progetto che mi rappresenta, rispetto allo spirito con cui si racconta e tratta alcune tematiche. È la vitalità di Rachele che mi accende. La passione che ci mette. Non ha a che fare soltanto con la romanità, un cliché che tra l’altro vorrei sfatare. Si tratta di un modo di stare al mondo: non tutto deve essere trattato con sacralità.
Anche perché non è che ti mancassero i progetti con la romanità di mezzo.
Certo, esatto. Sai, Christian è una serie molto colorata, non c’è bianco o nero neanche per quanto riguarda la recitazione. Mi misuro con un cast di attori stupendo, siamo tutti sulla stessa lunghezza d’onda. È come fare una jam session ogni giorno.
Personalmente quello che preferisco della serie è il binomio Christian-Rachele.
Ah, si può dire?
Ma sì. O meglio, Pesce-D’Amico è una coppia che funziona da morire. Lui ti dice “Aò”, tu gli rispondi “Eh”, e ci avete già raccontato tutto.
(Ride) Me ne accorgo. E forse, a proposito di miracoli, eravamo un po’ predestinati. È successo più volte che Edoardo ed io ci trovassimo in finale per dei ruoli insieme, addirittura su un film ci siamo appena sfiorati. Poi è arrivato Christian – lui ci tiene un sacco a dire questa cosa – e inizialmente il mio personaggio aveva un altro nome. Allora Edoardo ha proposto a Stefano Lodovichi: “Falla chiama’ Rachele, come mi’ sorella“. Adesso ogni volta che parla al telefono con la sorella me la passa. Ecco, è una ficata trovare un compagno di scena con cui ti capisci al volo, con cui condividi un po’ lo stesso gruppo sanguigno. Stefano ci ha messi insieme e ci ha visto lungo.
Nella seconda stagione sembra che Lodovichi vi abbia lasciato improvvisare di più, ci ha visto lungo anche qui.
Sì, e questa è stata la cosa più bella. È ovvio che prima si studiano le sceneggiature, si lavora sull’arco del personaggio e tutte le varie pippologie che ci facciamo noi attori. Ma con Edoardo poi arriviamo sul set ed è di nuovo come suonare, come improvvisare. All’inizio Stefano ci teneva più a bada, giustamente, mentre ora ha iniziato a crederci e ci ha lasciato andare un po’. Hai presente quella battuta nel trailer? (Rachele: “In Marocco ce sta il mare, sì?”; Christian: “Penso de sì. Mar-occo”, nda). Ecco, “Mar-occo” non era scritta, è stata improvvisata. Quella è la classica ironia di Edoardo, e lui ormai mi conosce, sa che io questi ganci li acchiappo. Che poi non te l’aspetti da due come noi, ma c’è anche una comunione intellettuale. Parliamo di libri, dei film che abbiamo visto…
Non mi stupisce. C’è anche da dire che Pesce è notoriamente uno che non si preoccupa di andare d’accordo con chi non gli va a genio. Con te invece esibisce stima e affetto: come hai fatto?
È vero. Per me averlo conquistato è stato importante, perché è una persona che non si concede a tutti. D’altro canto non è neanche una persona facile, invece io l’ho accettato e amato in tutte le sue sfumature, pure nel modo di essere burbero certi giorni. L’ho accolto perché l’ho capito nel profondo. Ormai sul set di Christian capita spesso di sentire dire: “Va be’, tanto c’è Silvia con Edoardo”. Quando io e lui lavoriamo insieme è una garanzia.
Tempo fa hai definito il rapporto tra i vostri personaggi “un incontro tra due anime perse che si fanno compagnia nel loro percorso di redenzione”. Come si comprende un’anima persa senza essersi mai persi così?
Questa è difficile, perché penso sia molto complesso interpretare dei personaggi che hanno un dolore così profondo: i tossici. L’altro giorno ho visto un mio amico che interpretava un tossico e gli ho detto che per me era stato bravissimo, perché la difficoltà è sempre quella di cadere nel cliché, di esagerare e restituire un’immagine sgradevole. Con un personaggio così perso è difficile capire come concedersi il lusso della libertà. Uno studia tanto, si organizza, fa percorsi, ma quando sei lì devi scivolarci dentro e lasciarti andare.
Fisicamente hai fatto un gran lavoro su Rachele, hai trovato una postura e una chiusura che partono dalle spalle e strisciano nella spina dorsale. Però capisci anche quando è il caso di alzare la testa.
Grazie. E aggiungo che quest’anno è successo qualcosa in più, per me, perché Rachele ormai è mia. Nella prima stagione ero più ciondolante, sempre senz’anima. Invece quest’anno ci sono dei passaggi molto fisici e mi sono accorta di non aver usato la performanza del mio corpo, ma quella di Rachele. È la sensazione di poter fare qualsiasi cosa con quel fisico lì, con la sua delicatezza, con la sua goffaggine.
Senti, parlando di questa famosa romanità fatta di cinismo e pacche sulle spalle: sai che non ti vedo sempre così romana? Mica vivrai un conflitto?
Ah, bene, questo è un complimento. Però no, zero conflitti. Sono proprio una di quei romani che vogliono stare a Roma, che non diranno mai di volersene andare. È come se fossi vaccinata al traffico di Roma, ai disagi che ci sono in questa città. Ci sono nata e resto qui. Certo che nel disagio non mi ci rilasso, ci sono delle cose che vorrei cambiare, a partire dalla sporcizia. Ma è qualcosa di tribale dentro di me.
Però ti ho detto che non sembri troppo romana e l’hai preso come un complimento.
Be’, perché la questione della romanità rappresenta un limite solo quando ci si muove nel campo di lavoro. Nell’industria del cinema a volte vieni canalizzato in quei ruoli lì, e invece a me piace cambiare completamente. Posso chiudermi due mesi in un paesino sperduto del Trentino-Alto Adige per imparare l’accento, per capire come si vive là. E l’ho fatto. Ma nella vita io so’ romana, sono quella che esce di casa e chiacchiera con tutti nel quartiere. E non perché conoscono il mio lavoro, ma perché ci vogliamo bene.
In quale quartiere, di preciso?
Io sono nata a Torrevecchia e poi mi sono trasferita, con grande sorpresa, in una zona di Monteverde. È davanti a Villa Pamphilj, ma in realtà non è proprio Monteverde Nuovo. Diciamo tra Monteverde e Casaletto.
Hai fatto lo scatto.
Seh, dài, però non mi sono trasferita a Roma Prati. Qui ho comunque trovato la mia dimensione, perché sono circondata da persone autentiche.
Anche Thony si è trasferita a Monteverde ma rivendica d’essere una punkabbestia. A Roma la scalata sociale ci rende pudici.
Certo, infatti hai visto come ho risposto quando me l’hai detto? “No no, ma non è proprio Monteverde Nuovo” (ride). Per questo ti dico che poi la romanità diventa una questione tribale: ho cambiato quartiere ma non accetto l’upgrade.
Parliamo di svolte di carriera, sia percepite da te che dall’esterno. Almeno qui uno scatto riesci a individuarlo?
Guarda, io sono profondamente romana e cinica anche in questo. Mentre tutti intorno a me dicono “Silvia, ma ti rendi conto?”, io rispondo “Sì vabbè, però non è successo niente, capirai”. Vivo ogni cosa così.
Pellaria, insomma, come i bei tempi di Franco 126 e Carl Brave.
Esatto, pe’ l’aria. Non riesco a darmi dei punti fermi, né di arrivo né di svolta. Probabilmente non mi permetto di vederli anche per difendermi.
Ok, ma quando hai sentito che “Silvia D’Amico” iniziava a significare garanzia di un progetto di qualità, anziché un nome da googlare?
Ho fatto da poco una piccola partecipazione nel prossimo film di Edoardo De Angelis (Comandante con Pierfrancesco Favino, tratto dall’omonimo libro di De Angelis e Sandro Veronesi, nda), in cui c’è un cast di giovani che interpretano la truppa del sommergibile Cappellini. “C’è Silvia D’Amico”, dicevano loro. Mi trattavano coi guanti, capito? E io gli facevo: “Ragazzi, ma che cavolo, ma cosa dite?”. Non lo so, essere dissacrante con me stessa è una mia regola. E non è che penso di non meritarmelo quello che ho, perché me lo sono sudato. È che sto sempre lì a nascondermi, più che a mettermi in mostra. Fosse per me andrei in giro solo in jeans e bomber.
A un certo punto il ruolo della ragazza malinconica e senza aspettative rischiava di incastrarti? Penso ad Angela (Il rosso e il blu), a Viviana (Non essere cattivo), Martina (The Place) o Caterina (Brave ragazze).
Sì. E può essere che ne abbia avuto paura, perché come ti dicevo ho l’ansia di venire incanalata in un cliché. Ma è comunque una cosa vera, che contiene la mia essenza. E la paura mi è completamente passata quando sono arrivati altri ruoli, come quando faccio la iena in A casa tutti bene. Credo che la gente si accorga che c’è proprio un altro aspetto, un altro mondo spaventoso.
Io credo che Muccino rappresenti la seconda vera svolta della tua carriera: ha intercettato un altro aspetto di te e lo ha portato al limite, quasi a dirci: “Silvia D’Amico può fare di tutto”.
Sono d’accordo. Lui è fissato con i soprannomi e con gli animali, durante la prima stagione mi chiamava tigre, e invece l’altro giorno mi ha detto: “Silvia, io sono sempre più spaventato e ammirato da te, perché sei come un polipo”.
Un polipo?
(Ride) Sì. “Un polipo che si trasforma”, dice lui. “Tu puoi abbracciare tutto e diventare qualsiasi cosa”. Che poi io l’ho fregato Muccino, perché all’inizio lui pensava che fossi una del Fleming (quartiere borghese di Roma, nda). Tornava dall’America, non conosceva la mia filmografia, così mi sono spacciata per una della Roma bene. Andavo agli incontri e alle letture vestita da fica, mi piaceva fargli credere che ero quella cosa lì, quel personaggio. Non è il caso di Muccino, ma molto spesso i registi non ti danno fiducia se devi fare un ruolo completamente diverso da te.
Da casting, magari ti avrebbero presa per il ruolo di Emma.
Esatto, brava. Quindi il primo periodo gli ho fatto credere di essere Silvia dal Fleming. Poi quando il rapporto si è consolidato, ha iniziato a vedere come arrivavo sul set: “Mannaggia, questa m’ha fregato”. Io comunque mi ricordo tutto, era il 12 dicembre e stavo girando la prima stagione di Christian. Gli avevo mandato un selftape fatto di notte, per poi incontrarlo dal vivo diverso tempo dopo. Una volta fatto il provino lui mi ha detto: “Guarda che io ti avevo già scelta al selftape. Quando l’ho visto sono caduto da cavallo”. Ecco, vedi, poi ti dico che sono una che non vuole pensare alle svolte della carriera, ma in fondo mi ricordo molto bene di quel 12 dicembre.
Tra l’altro credo che a Muccino vengano riconosciuti, in generale, meno di meriti di quelli che gli spetterebbero, soprattutto per il lavoro che fa con gli attori. E quando lo dice, ha ragione.
La cosa più preziosa di Muccino è che riesce a farti buttare il cuore oltre l’ostacolo. È riuscito a farmi fare una cosa che mai avevo fatto, ma senza snaturarmi, senza farmi sentire sbagliata. E mi ha fatto perdere il controllo per diventare completamente quel personaggio. Lui ti porta in una condizione quasi di tic, non ragioni più, non programmi, eppure sai quello che stai facendo. Lo sai nelle viscere, sei senza pelle.
“Senza pelle” è un modo in cui ti definisci spesso, dici che ti si legge tutto in faccia e sei sempre esposta. La tua bio su Instagram non sembra un caso: “Io non sono qui”.
Brava! Mi sembrava una frase-manifesto, perché io davvero non sono lì, su quei social. Tra l’altro mi è successa una cosa strana, perché ho visto che anche Paolo Rossi ce l’ha come stato WhatsApp, e secondo me l’ha messa prima lui. “Io non sono qui”… Ogni volta che nelle interviste mi chiedono di Instagram provo a dirgli ’sta cosa e non se la filano mai.
Capirai, ero ossessionata da I’m Not There di Todd Haynes. “E i gatti sul tetto, pazzi d’amore, gridano nelle grondaie”.
“E sono io a essere pronto. Pronto ad ascoltare. Mai stanco, mai triste, mai colpevole”. Mai stanca, mai triste, mai colpevole. La musica e la poesia per me sono una fonte d’ispirazione fondamentale, sono cresciuta con mio padre che è stato sempre un appassionato di musica, e adesso è diventato maestro di coro. Mi faceva fare le armonizzazioni e ho studiato pianoforte da piccola, ma a un certo punto, come tutte le ragazze ribelli che si rispettino, quella cosa l’ho un po’ rinnegata. Eppure non sai quanto mi è servita nella formazione attoriale. Anche quello che faccio con Edo in Christian ha a che fare con la musica, con l’orecchio, con il ritmo.
E poi sei cintura nera di karaoke. Cavallo di battaglia?
Dipende dallo stato della serata. Anche sul canto mi sono sempre nascosta, ma quando mi butto c’ho una canna… Infatti scelgo sempre Loredana Bertè, Mia Martini, le canzoni da urlare di pancia. Quelle mi danno soddisfazione, non il bel canto. Per esempio a fine serata mi è capitato anche di cantare insieme a Emma Marrone Almeno tu nell’universo…
Aspettiamo il video. Continui a dire che ti nascondi sempre, ma perché?
Non sono di quelli che non fanno un passo perché sono insicuri o turbati. Io sto dove devo stare. Ma non ho voglia di espormi, di starmi sempre a sponsorizzare. Mi piace avere amici che non sono per forza attori, parlare d’altro nei momenti in cui non lavoro, staccarmi un po’ dal jet set. Poi certo, se ci devo stare non mi faccio le pippe, ci sto a mio modo. Non fingo.
In Vi perdono ma inginocchiatevi, film tv sulla strage di Capaci, hai lavorato veramente su una pagina di Storia italiana. La scena del discorso di Rosaria Schifani (“Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio”), lasciatelo dire, l’hai fatta da dio. Cosa hai provato?
Quella è stata una mia piccola battaglia vinta, sono passati dieci anni ma ricordo ancora tutto. Il regista era Claudio Bonivento, e io non avevo quasi nulla alle spalle. Succede che ci incontriamo e facciamo due chiacchiere, ma non lo vedo convinto. Allora gli dico: “Senti, ma se io domani vengo qua e ti faccio il monologo della Chiesa, lo vuoi vedere?”. Lui mi guarda, probabilmente pensa che sono pazza: “Va bene, ci vediamo domani alle tre”. Esco da là, vado a casa, passo la notte in bianco. Guardo quel discorso centomila volte, lo studio, lo interiorizzo, ma anche con distacco, con un orecchio da imitatrice. Il cuore ce lo butti dentro comunque, inevitabilmente. Il giorno dopo gliel’ho portato e ricordo le facce di chi stava là.
Che facce erano?
Una cosa tipo: “Ma questa? Come cazzo ha fatto?”. Che poi, anche in quel caso, a Bonivento gli avevo detto che ero di Palermo.
Tu dici un sacco di cazzate, sei una canaglia.
(Ride) Sì, ma le dico a fin di bene. Se una cosa la devo ottenere mi faccio in quattro, pure questo è spirito romano. Fatto sta che quando siamo andati a Palermo per le riprese tutti si aspettavano che conoscessi la città, perché ormai avevo detto ’sta cazzata, e io giù a sudare freddo: “Ma no, è che me ne sono andata da qui quando avevo tre anni”. Sia chiaro: a Palermo c’ero stata una volta sola, in vacanza. Però, quando siamo entrati nella Chiesa di San Domenico per fare quella scena, è stata una magia gigante. Dentro era vuota, ma ho avuto una sensazione trascendentale. Ho avvertito un senso di pieno come quando entri allo stadio e c’è il boato, perché giocano la partita più importante del campionato. Un attimo prima ero la mattacchiona furbetta che aveva preso la parte, ma poi mi è arrivato addosso tutto il senso di responsabilità. E me lo sono caricato sulle spalle. Ricordo che il giorno dopo abbiamo girato i campi con le figurazioni, tutte persone di Palermo, e sentendo la mia voce registrata dicevano: “Ma è lei, è quella vera? Che succede?”. Loro quel capitolo lo hanno vissuto, ed è stata una reazione fortissima.
Ti ha fatto impressione riguardarti in quella scena?
Io sono una di quelli che non si riguardano mai. Mi devono proprio legare alle sedia. Adesso c’abbiamo una maratona di Muccino, diciotto ore di serie, ed esco dalla proiezione in anteprima di Christian. Il momento peggiore di tutto il mio lavoro: quando mi devo riguardare. Mi sembra una forma strana di autocompiacimento, mi odio.
Quindi durante le maratone che fai?
Eh, di solito ho due persone, una a destra e una a sinistra, che mi tengono ferma. È capitato delle volte che mi abbiano messa di lato e che io sia scappata. Muccino dice che c’ho lo “shock after screening”.
Ho ripescato un tuo showreel di dieci anni fa, le prime scene erano tratte dal Rosso e il blu di Piccioni e c’era una tua battuta a Scamarcio: “Guardi che io lo so che t’hanno detto”, con il passaggio imbarazzato dal lei al tu. Lì c’era già la tua essenza: lo sguardo perso, che cerca conforto in modo famelico, ma prova a nascondere che si tratta di una richiesta di aiuto. È il tuo marchio.
Mi fa piacere che tu dica questa cosa dello sguardo perso, che forse è davvero un marchio, e non perché sto fatta (ride). Ogni volta che rincontro Giuseppe Piccioni, il mio primo maestro del cinema (perché prima di quel film non avevo mai fatto neanche una pubblicità), lui mi dice sempre: “Silvia, io non dimenticherò mai che dopo il provino, prima di andartene, mi hai lanciato uno sguardo e mi hai agganciato come per dirmi: ‘Oh, so’ io, eh. Me devi prende’. È lì che ho deciso che dovevi essere tu a fare questo film”. Ecco, non è uno sguardo pietoso o in cerca di commiserazione, ma è di quelli che t’agganciano per dirti: “Io c’ho bisogno che stai con me e che mi capisci. C’ho delle cose da dirti”. Sono passati più di dieci anni, quindi mi fa piacere che tu lo noti perché è stato davvero l’incipit della mia carriera. Giuseppe mi ha dato la sua benedizione e mi ha detto: “Quello sguardo sarà la tua fortuna”. Chissà.