Silvio Soldini, cinema sospeso
Il nuovo film ‘Le assaggiatrici’, tratto dal romanzo di Rosella Postorino, è un’altra indagine sul femminile e sullo sguardo. E un’altra tappa nella geografia del suo corpus di opere personali e spesso bislacche, come le definisce l’autore di ‘Pane e tulipani’ e ‘Giorni e nuvole’. Un modo di fare cinema, il suo, che resiste al tempo, o che si adatta ai tempi che cambiano. Una conversazione
Silvio Soldini sul set del film ‘Le assaggiatrici’. Foto: Vision Distribution
Silvio Soldini, regista di tempi e geografie sospese, arriva con un altro film che risospende tutto. Al centro c’è la Storia, ma soprattutto le storie di queste ragazze, Le assaggiatrici, che è anche il titolo del romanzo di Rosella Postorino che l’ha ispirato. Ma, anche qui, la geografia – la Germania della guerra, seppur sempre sullo sfondo: le assaggiatrici del titolo sono le giovani donne chiamate a testare i piatti del Führer per scongiurare qualunque rischio d’avvelenamento – e il tempo – da un inverno all’altro, mentre passano le stagioni, i sentimenti, la politica che però resta sempre fuori campo – sono sospesi, sfumati, smarginati. A contribuire a quest’atmosfera, la fotografia di Renato Berta, storico collaboratore di nomi “minori” come Rohmer, Rivette, Malle e Resnais, che qui lavora sui mezzi toni, i grigi di dentro e di fuori; e le musiche di Mauro Pagani, che intervengono (benissimo) solo quando è necessario, altra scelta molto intelligente a proposito di quel voler lasciare in primo piano solo ciò che serve, e tutto il resto fuori.
Con Soldini parliamo di tante cose, tornando anche ai suoi inizi: del rigore (non è una parolaccia) del linguaggio cinematografico che ha amato e poi adottato; della scelta, quasi sempre nel suo cinema, del punto di vista femminile; dei suoi mondi talvolta «bislacchi» (l’aggettivo è suo) ma sempre veri. Ma partiamo dalla fine, da questo tempo di attesa prima che Le assaggiatrici, prodotto da Lumière & Co. con Anteo, arrivi nelle sale (il 27 marzo con Vision Distribution), «la fase in cui tendenzialmente credi parecchio in quello che hai fatto perché ancora non riesci a vedere i difetti, e vorresti che quello che c’hai messo dentro arrivasse in capo al mondo, invece a volte ti becchi delle grandi porte in faccia. Con l’esperienza impari a capire che è meglio non esagerare nelle aspettative, perché può accadere di tutto. Ma questo è il mio dodicesimo film, ormai lo so come funziona».
Si può anche essere disattesi in positivo, però.
Assolutamente. Con Pane e tulipani, per esempio, non solo io ma anche l’Istituto Luce, che l’ha distribuito, pensava minimamente che sarebbe successo quello che invece è successo. Ma se penso anche all’altro mio film che è andato meglio di tutti gli altri, che è Giorni e nuvole, io non ho ancora capito bene perché è accaduto. Ricordo un produttore, non voglio fare nomi, che all’inizio avrebbe dovuto produrlo e che quando ha letto il soggetto mi ha detto: “Chi dovrebbe interessarsi a un film del genere, chi vuole rivedere i suoi problemi sullo schermo?”. Quindi sì, ho capito che le sorprese possono essere infinite.

Silvio Soldini sul set delle ‘Assaggiatrici’. Foto: Vision Distribution
Come nasce questa tua versione delle Assaggiatrici?
Una sceneggiatura (di Cristina Comencini, Giulia Calenda e Ilaria Macchia, nda) già esisteva, e quando l’ho letta mi era piaciuta. Poi ho letto il romanzo e devo ammettere che è stato quello a spronarmi ad accettare la sfida. La scrittura era molto coinvolgente e i personaggi erano un po’ diversi, venivano fuori meglio. Quindi sono ripartito da lì e ho adattato la sceneggiatura esistente (insieme a Doriana Leondeff e Lucio Ricca, nda), prendendo fin dalla scrittura tutta una serie di decisioni che avvengono già lì, perché è in quel momento che inizi a pensare il film anche a livello di immagine, trovando un tuo linguaggio che devi adattare alla storia, soprattutto se viene da un romanzo. La cosa strana è che è la seconda volta che mi capita di girare un film da un romanzo: il primo (Brucio nel vento) era di Ágota Kristóf, sempre una donna, e sempre in un’altra lingua. Là era il ceco, qui il tedesco, due lingue che non conosco, ma quella era la seconda sfida.
La prima qual è stata?
Fare un film in costume. Nei romanzi, e con la scrittura in generale, si arriva fino a un certo punto, il resto te lo devi immaginare. Quando invece devi mettere quella storia in scena, allora lì – o almeno nel mio cinema, che fa della verità una colonna – devi credere a quello che vedi. E invece a volte ti sembra che ci sia qualcosa di fasullo che non sai mai bene da dove arriva, a volte dalla fotografia, o dai costumi, dal trucco, dalla recitazione… Questo era il mio spauracchio più grosso. Ho accettato di fare Le assaggiatrici sapendo che questa era la prima sfida, non il tedesco. Quando fai un film, alla fine non è così importante capire parola per parola quello che dicono gli attori: sai che senso ha la frase, cosa si stanno dicendo, ma vuoi soprattutto vedere che sta accadendo qualcosa, vuoi emozionarti, capire quello che c’è sotto le parole. Mi interessava prima di tutto che il pubblico seguisse le storie di queste ragazze, attraverso il punto di vista principale che è quello di Rosa (interpretata da Elisa Schlott, nda).
Si torna alla scrittura.
Questa è l’altra cosa su cui mi sono interrogato tanto: come tradurre quella che nel romanzo è la prima persona del racconto. L’altro elemento su cui ho ragionato molto è stato come risolvere le scene nella sala degli assaggi, che sono il cuore del film. All’inizio quelle ragazze non si conoscono, poi iniziano le loro relazioni, gli amori, gli odi. Dovevo capire come raccontare questa scena che è reiterata tante volte in modo che avesse un senso. Sapendo che il tempo sul set sarebbe stato troppo poco, ho fatto più di due settimane di prove con le attrici, di modo che tutto quanto avesse a che fare con i personaggi e con i dialoghi fosse finito prima di iniziare a girare. Per questo poi è stato possibile fare dei piccoli atti unici per ognuna di quelle scene, girandole dall’inizio alla fine: tutte quelle prove avevano permesso alle attrici di conoscersi, di diventare amiche, e a me di andare sul set tutte le mattine contento. Questa cosa è importantissima, e non capita sempre: a volte sai che arriverai in un clima di tensione, o che c’è qualcuno con cui non sta funzionando come volevi. Qui invece per me era una gioia andare sul set e lavorare con loro: sprigionavano un’energia bellissima.

Una scena di ‘Le assaggiatrici’. Foto: Vision Distribution
Un’energia che rende tutto molto più moderno, se capisci cosa voglio dire anche rispetto a quello che dicevi prima: lo spauracchio del film in costume polveroso, fasullo.
Sono contento che tu lo dica. Anche Rosella Postorino, la prima volta che ha visto il film, mi ha detto che la prima metà le è sembrata quasi un film distopico, ed è un commento molto giusto: se cambi le divise e qualche dettaglio, potrebbe essere ambientato nel 2078 e funzionerebbe uguale. Il nazismo è solo il palcoscenico su cui si poggia il racconto.
Parlavi di linguaggio. Qui ci vedo molto rigore, una cosa che forse si è un po’ persa, nel cinema di oggi.
Se da un lato, come ti dicevo, la mia preoccupazione era l’autenticità, raccontare quello che avevano vissuto realmente queste donne ottant’anni prima senza mostrare la messinscena, dall’altro lato sentivo però che il rigore della messinscena doveva essere molto preciso, per rendere al meglio la situazione in cui si trovavano, questo senso di prigionia da cui non potevano scappare. E quindi ho cercato di ridurre al minimo le inquadrature, di non fare troppi stacchi: per me era la soluzione più forte per fare vivere meglio quella situazione.
Mi hai anticipato su Brucio nel vento, che è l’altro tuo film tratto da un romanzo, ma non è il solo motivo per cui Le assaggiatrici me l’ha ricordato.
Questi due film forse sono vicini, sì. Anche perché anche Brucio nel vento è un po’ un film in costume, anche se non c’è un’ambientazione così precisa; però volevamo che avesse un tempo imprecisato, un po’ sospeso. E poi, al di là del fatto che sono entrambi tratti da due romanzi, sono forse i miei due film più drammatici: là c’è uno accoltellato, qui ci sono dei morti, però poi alla fine si discostano parecchio, sono due storie in fondo lontane tra loro. Forse in comune c’è la voglia di restare il più possibile nell’intimità del racconto e, in questo caso, di lasciare tutto il resto – la vicenda storica, la guerra, il nazismo – come se fosse al di sopra, fuori, intorno. È stata una decisione dettata anche da problemi di budget, ma a posteriori credo molto giusta.
I problemi di budget possono diventare anche delle possibilità.
(Ride) Certo, come sempre i limiti bisogna provare a girarli a proprio vantaggio. Anzi, abbiamo proprio voluto esagerare dall’altra parte, e mi è sembrata una scelta vincente, anche perché questo è un film che cerca di raccontare la guerra non come la maggior parte dei film di guerra, dove vedi sempre gli uomini al fronte. Qui vedi le donne a casa, vedi quello che succede quando non ci sono più gli uomini, quello che succede durante una dittatura alla parte più fragile della popolazione, che alla fine sono sempre le donne.

Elisa Schlott e Max Riemelt in una scena del film. Foto: Vision Distribution
Il che mi porta inevitabilmente al femminile, che è una componente essenziale del tuo cinema. È stato anche questo, negli anni, una ricerca di linguaggio, di ribaltamento del tuo sguardo?
Un po’ è stato questo, sì, un po’ l’ho fatto per dare voce alla parte di me più femminile, probabilmente. È iniziato tutto con Giulia in ottobre nel lontano 1985, era il mio primo film con una protagonista femminile e lì è come se avessi capito che attraverso un personaggio femminile avrei potuto raccontare delle cose che non avrei potuto raccontare con un personaggio maschile, per dirla banalmente. Perché le donne hanno una sensibilità diversa, c’è poco da fare. Perché hanno una posizione diversa nella società, raccontando loro si apre un altro mondo. E poi siccome nel cinema italiano non si vedono molti personaggi femminili… diciamo che c’era spazio.
Quarant’anni dopo, non è cambiato granché: c’è sempre, purtroppo, molto spazio.
C’è ancora spazio, è vero. I personaggi femminili belli non sono tanti nel nostro cinema, ahimè, mentre di personaggi maschili belli ce ne sono parecchi. Ogni tanto spunta qualcosa, si sente che oggi c’è più attenzione, ma spesso sono ancora personaggi che figurano come protagonista femminile ma poi sono delle spalle, niente di più, sono solo funzionali ai personaggi maschili. Quindi quando mi hanno offerto Le assaggiatrici, dove addirittura di personaggi femminili ce ne sono sette, da un lato mi impauriva, dall’altro mi sembrava un punto d’arrivo. Caratterizzare tutte quelle giovani donne come se ognuna fosse lo strumento di una piccola orchestra è stato molto bello, molto divertente.
Prima parlavi di tempo sospeso, un altro ingrediente cruciale del tuo cinema. Direi che sono sospese anche le geografie, o meglio: esiste, si potrebbe dire, una geografia del cinema di Silvio Soldini. Un mondo che, nei tuoi film italiani, è come se bastasse a sé stesso, e un altro, quando ti sposti fuori dai nostri confini, che non rivela necessariamente il nostro carattere locale, vive anche lì di una sua sospensione.
Nelle Assaggiatrici, andando proprio nel concreto, c’è una geografia molto ristretta, perché non potevo far vedere niente, e questo devo dirti che mi è stato molto stretto. Abbiamo girato la maggior parte delle scene in Alto Adige, ma nei luoghi in cui è ambientato il romanzo, cioè la Prussia orientale, non ci sono le montagne, quindi non potevo sfruttare quello scenario. E poi c’era il grosso problema delle stagioni: la storia inizia nel novembre del ’43 e finisce nel novembre del ’44, bisognava far sentire questo passaggio del tempo che influisce anche sugli esterni, le acconciature… non è semplice. Abbiamo lavorato di fino col reparto trucco, e sui costumi, sulle scene, persino sulle foglie, perché in sette settimane devi farci entrare un anno intero.
Torniamo al tuo mondo.
Ogni film deve creare un suo mondo, e per farlo devi stare attento a quello che mostri. Per dire: in Pane e tulipani era chiaro dall’inizio che non volevamo mostrare la Venezia delle cartoline, perché Venezia al cinema è sempre stata una città più utilizzata che raccontata. Quella Venezia lì si vede un’unica volta, nel riflesso di San Marco dentro gli occhiali di Rosalba. A Genova invece sono voluto tornare: avevo girato una parte di Agata e la tempesta e mi era piaciuta tantissimo, ma mi sembrava di non avere avuto la possibilità di raccontarla abbastanza, di esplorarla, di capirla un po’ di più. Perché quel film era una commedia con pochi esterni, e allora per il successivo, che era Giorni e nuvole, ho pensato che la storia diventava talmente claustrofobica che avere una città con un’apertura sul mare forse sarebbe stata la cosa giusta. Ambientarlo a Milano, che è una città grigia, chiusa su tutti e quattro i lati… finiva che uno si sparava (ride). E quindi sono tornato a Genova, e quella volta mi è sembrato di essere riuscito a raccontarla un po’ di più. Immagini e luoghi devono avere un senso all’interno della storia, devi costruire la geografia giusta per quel film, per quel racconto, per quel tono.

Antonio Albanese e Margherita Buy in ‘Giorni e nuvole’ (2007). Foto: Warner Bros. Italia
Oggi invece spesso i luoghi sono scelti a caso, altrimenti detto: va’ dove ti porta la film commission.
Diciamo che il cinema si può dividere in due: i film che raccontano i luoghi e i film che non li raccontano. Ci sono storie che sono ambientate a Roma ma potrebbero essere a Bologna o in qualunque altro posto, sarebbe uguale. Se fai film che raccontano i luoghi, è difficile riutilizzare quei luoghi: se dovessi rifare un film a Venezia avrei dei problemi, o quantomeno dovrebbe essere molto diverso da Pane e tulipani, magari un dramma pesante. Però mi piace andare a cercarli, quei luoghi, oppure sfruttare una metropoli con tanti angoli, che è come se fosse tante piccole città, ma è più difficile. Poi ci sono quelli come Guédiguian, che ha raccontato Marsiglia da tutte le parti, ma io non so come faccia.
Del resto, sei un milanese che, pur avendo usato e raccontato anche Milano, ne è sempre un po’ fuggito.
Sì, perché mi piace andare a scoprire. Il problema, come dicevi tu, è che adesso non si può pensare di andare a girare dove vuoi tu, ma dove c’è una film commission che c’ha i soldi. Ora è tutto diverso, invece mi ricordo quando abbiamo girato Le acrobate, dove ci sono Treviso e Taranto: abbiamo scelto quelle due città perché siamo andati a fare dei sopralluoghi. Cercavamo un posto al Sud e Doriana Leondeff, che è pugliese, mi ha detto: “Vieni qua che secondo me la troviamo”; sono arrivato a Taranto e ho pensato: “Cazzo, è lei”. È come quando cerchi gli attori, a volte hai quelle illuminazioni. Quando invece ti costringono a girare in una città per altri motivi, all’interno di quel contesto devi trovare quello che reputi giusto rispetto al film, però diventa un casino. Diciamo che mi sentivo molto più libero prima.
Mi sembra però che il tuo cinema sia rimasto molto libero.
Sì, e anche nel caso delle Assaggiatrici non mi è stato imposto niente. Essendo slegato dall’industria italiana, diciamo così, ho potuto scegliere in totale libertà le attrici e gli attori tedeschi che mi piacevano, e che prima neanche conoscevo, e questo è stato molto bello. Di sicuro oggi la produzione e la distribuzione sono più presenti rispetto a un tempo, forse perché c’è più paura, o perché ci sono meno soldi. Pensando a posteriori a Pane e tulipani, sono allibito di come sono riuscito a farlo, perché non avevo mai fatto commedie, e nessuno pensava che fossi un regista di commedie. Ho scelto Licia Maglietta, che avevo visto a teatro, e anche lei non aveva mai fatto commedie, e Battiston nessuno lo conosceva, e Bruno Ganz mi ha chiesto persino lui: “Ma perché vuoi me per questo film?” (ride). Ma nessuno mi ha detto niente. Adesso sarebbe impossibile, credo.

Bruno Ganz in ‘Pane e tulipani’ (2000). Foto: Istituto Luce
Dicevi del punto d’arrivo rispetto al femminile, ma Le assaggiatrici, tornando al discorso su quello che hai scelto di far vedere (o su quello che si può o non si può vedere), mi sembra anche un punto d’arrivo rispetto alla tua ricerca, dal documentario sui non vedenti Per altri occhi a certi tuoi film successivi, sullo sguardo, appunto.
Forse perché fin dall’inizio sono stato affascinato proprio da questo: dal linguaggio. I film che mi hanno affascinato dall’inizio sono quelli di autori con uno sguardo molto preciso: più Antonioni che Fellini, per capirci. Forse perché in loro riconoscevo più similitudini rispetto a me. Ozu, Bresson, la Nouvelle Vague, Godard, Wenders… mi affascinava che, oltre che per immagini, raccontassero anche delle immagini. Ogni inquadratura di Antonioni è già quella un racconto. Comunicare senza parole, solo attraverso le immagini, è quello che cerco di ottenere anch’io, non so poi se ci riesco. Cerco di trovare uno sguardo preciso su quello che sto raccontando, davanti a ogni scena mi chiedo come raccontarla non solo con gli attori, ma anche con la macchina da presa: dove la metto? Quante inquadrature faccio? Perché?
“Perché?” è una domanda che non si fanno in tanti.
A volte le cose le fai anche con un po’ di intuito, non sempre c’è un ragionamento razionale. Ma devi pensare: “Questa è la cosa giusta per questa scena?”. E se il tempo per girare è sempre meno, può essere un problema. A me, per esempio, non piace girare con più di una macchina da presa alla volta. Qua ho dovuto farlo, perché quando hai sette attrici in scena e vuoi girare tutta una sequenza dall’inizio alla fine non puoi fare altro, e ho finalmente trovato il modo di farlo. Ma solitamente avere due o tre macchine non mi entusiasma, mi piace fare una cosa alla volta.
Dopo tanti anni cos’è cambiato e cosa no, nel tuo “fare cinema”?
Quello che non è cambiato è la voglia di non mollare mai, di fare qualcosa che mi sta veramente piacendo. E invece a volte devi mollare, perché è finita la giornata e non ce l’hai fatta, e sai già che durante il montaggio dovrai trovare il modo di sistemare le cose. Quello che invece è cambiato è che bisogna correre di più, ed è una situazione strana, perché la qualità dovrebbe aumentare, i film dovrebbero essere sempre più belli, ma il tempo per farli è sempre meno, quindi la preparazione che devi fare dev’essere molto più attenta, devi avere un’organizzazione del set perfetta e qualcuno che sappia sempre come ottimizzare le cose. Devono esserci sempre meno momenti di attesa, solo che i momenti di attesa per me non sono mai momenti vuoti, è un tempo in cui accade sempre qualcosa, a volte anche qualcosa di importante.
Adesso il tuo cinema dove va?
Sto provando a scrivere una commedia, perché è tanto che non ne faccio, e stavolta mi piacerebbe metterci un elemento musicale importante. Sto ragionando su questo ed è una piccola nuova sfida, perché da noi la cultura del musical è diversa che altrove, non si dà per scontato che in un film a un certo punto uno si possa mettere a cantare. Di sicuro so che sarà una commedia bislacca, con dei personaggi bislacchi. Una di quelle commedie bislacche che piacciono a me.