Nel 2004 Steve Bannon – allora nella sua incarnazione di regista-produttore a Hollywood — firma un documentario di quasi due ore intitolato In the face of evil, esaltando la figura pubblica e le azioni di Ronald Reagan, 40esimo presidente USA, in epoca di Guerra Fredda: “Un uomo con una visione”, “un outsider”, “un radicale dalle idee estreme”. Bannon sembra voler celebrare Reagan per trovare la propria ispirazione: master in business administration ad Harvard, poi ufficiale di marina, quindi investment banker in Goldman Sachs, prima di essere alla guida del sito alt-right Breitbart News. Probabilmente l’ex stratega di Donald Trump alla Casa Bianca – poi cacciato dal presidente nell’estate 2018 – si vede proprio così: un outsider fornito di una visione, le cui idee però così radicali ed estreme forse non sono.
«Sicuramente verso Reagan prova una certa ammirazione», conferma Alison Klayman – che per un anno ha seguito quasi quotidianamente Bannon per realizzare The Brink, il documentario che ha debuttato con successo a gennaio al Sundance Film Festival e che da fine aprile arriva nelle sale italiane – “perché Bannon cerca di costruire il proprio personaggio, la propria figura pubblica facendo un collage di grandi personaggi storici del passato, e Reagan è sicuramente uno di questi”. Peccato che nel suo ultimo discorso da presidente americano, a inizio 1989, Reagan ammonisse profetico: “Chiunque, da qualsiasi angolo della Terra, può venire a vivere in America e diventare americano. Questa è una delle fonti più importanti della grandezza americana. Guidiamo il mondo perché, unici tra le nazioni, prendiamo il nostro popolo – la nostra forza – da ogni Paese e da ogni angolo del mondo. Se mai avessimo chiuso le porte ai nuovi americani, la nostra leadership nel mondo sarebbe presto andata perduta”.
Un mondo bianco e cristiano
Niente di più lontano dall’idea del muro al confine Messico-USA accarezzata e sbandierata dalla coppia Bannon-Trump e da un’idea dei migranti come pericolo contro il quale dover reagire, una minaccia alla propria identità. «Nei tanti incontri a cui ho assistito nell’anno in cui l’ho seguito passo passo – sia negli USA che in Europa – Bannon parla della questione dei tassi di natalità, si concentra sull’importanza di nuclei familiari di un certo tipo, fa riferimento a sentimenti anti-islamici. Non ci vuole molto per leggere tra le righe una sorta di quello che la gente spesso chiama ‘nazionalismo bianco’ ma che a mio avviso in lui è più una preoccupazione di mantenere sia l’Europa che l’America come nazioni a maggioranza bianca e cristiana (anche se lui dice giudeo-cristiana). Non ci sono dubbi: per lui l’occidente è bianco e cristiano, e questa convinzione va a formare gran parte della sua ideologia, insieme a una certa esaltazione – che in realtà nasconde una notevole crisi – del concetto di mascolinità», afferma Klayman, che ribadisce:«La maggior parte delle persone razziste non si considera razzista, ma sentendolo parlare a me pare chiaro che il suo mondo di riferimento sia un mondo bianco e cristiano».
Il populismo di Bannon
Ideologie e una robusta dose di pragmatismo tipicamente americano (“A me interessa solo vincere”, proclama a un certo punto) si mischiano confusamente nel pensiero di Bannon: «Ci sono delle spinte ideologiche a motivarlo – sostiene la regista -, ma sono piene di contraddizioni. Sicuramente gli piacciono le persone che hanno influenza sulle masse, ma allo stesso tempo non sa bene come gestire la propria influenza. Quello appena passato – analizza Klayman – è stato il primo anno della sua vita in cui Bannon è stato realmente famoso, famoso per essere the guy behind the guy. Ora però – passata questa fase (oltre che da Trump, è stato allontanato anche da Breibart News, ndr) – è come se si chiedesse quale sia il suo ruolo, a quale brand legare il suo nome. Gran parte di quello che sta facendo ora è proprio una sorta di costruzione di un brand che si può chiamare nazionalismo economico o populismo: ripete battute e dichiarazioni ad effetto più e più volte, per scoprire quali funzionano e quali no, ma lo fa in contesti anche inappropriati, perché la sua comunicazione sa essere sofisticata ma spesso non lo è per nulla. Non è un grande oratore pubblico, dà il meglio di sé nelle conversazioni individuali, ma se si ritrova davanti un pubblico che lo ama allora sa cogliere l’energia e capitalizzarla a suo favore. Nella sua vita è come se stesse sempre recitando, anche quando è da solo».
Giù la maschera
Da affermazioni come queste si comincia a intravedere come – dopo averlo seguito e osservato da vicino per tanto tempo – Klayman non riesca più a prendere così tanto seriamente la minaccia Bannon: pur invitando tutti – a partire dal suo pubblico – «a restare all’erta e non perdere d’occhio quello che sta cercando di fare», la regista finisce per non considerare né le idee sbandierate da Bannon né il suo nascente progetto politico europeo (The Movement, formazione con cui vorrebbe riunire le destre-populiste di tutta Europa in vista delle elezioni di fine maggio) qualcosa di realmente pericoloso. «Volevo demistificarlo, togliere e togliermi quella impressione da cartone animato che è quella che per prima si ha di lui», dice la regista originaria di Philadelphia.«Inizialmente non ero interessata al personaggio Bannon, non sentivo il suo fascino. Quello che volevo fare con The Brink era semplicemente fornire uno sguardo da dentro al fenomeno della destra radicale e al partito repubblicano nella sua corrente mainstream, perché è importante comprendere che Bannon è proprio questo, un soggetto che fa parte del mainstream repubblicano. Volevo vederlo in azione, volevo capire quali sarebbero state le sue mosse future per mantenere il successo ottenuto con l’avvento di Trump alla Casa Bianca. Non è – e non ha mai voluto essere – la glorificazione di un personaggio, anzi: per me è stato complicato fare un documentario su qualcuno di cui contesto così radicalmente le idee. Ma The Brink vuole essere questo: uno sguardo dietro le quinte e un lavoro su un personaggio molto controverso, capace di risultare anche affascinante e simpatico. Umanizzarlo era un rischio, ma occorre accettare l’idea che anche chi compie azioni cattive sia un essere umano come noi».
La banalità del male
Un concetto – quello della “banalità del male” – che Hannah Arendt ha coniato con riferimento ai crimini nazisti e su cui lo stesso Bannon si pronuncia proprio in una delle scene iniziali del documentario: «Parlando dei nazisti come di persone normali capaci di separarsi totalmente dall’orrore morale di ciò che hanno compiuto credo non potesse costruire un’analogia più corretta con ciò che sta succedendo ora in America. Oggi ci sono ancora posti e situazioni nel mondo in cui alcune persone sono soggette a questo tipo di odio, escluse da ogni tipo di umanità. Non penso che Bannon si rendesse conto – parlando dei nazisti – di parlare indirettamente di sé, ma io penso sinceramente che le politiche che lui ha ispirato e che l’amministrazione Trump ha messo in atto abbiano avuto un impatto del genere: ci sono state famiglie separate al confine, persone a cui è stato rifiutata l’ammissione negli Stati Uniti unicamente per il loro credo religioso o per la loro origine. Questo è l’opposto dei valori a cui si è sempre ispirato il nostro Paese, oltre che di ogni umanità».
Cinéma Vérité
Sotto l’occhio di una telecamera sempre accesa e puntata su di lui, Bannon«ha finito per screditarsi da solo, e direi che non è stato neppure difficile fare in modo che accadesse», commenta Klayman. Merito anche dell’approccio da lei scelto per raccontare la storia di un personaggio «molto consapevole del ruolo dei media e molto attento all’uso che ne fa».«L’approccio modello “cinéma vérité” – che vuol dire presenza costante, per un periodo di tempo prolungato, studiando le interazioni del personaggio con persone e situazioni diverse -, pur senza poter entrare nella mente e nel cuore di qualcuno, alla fine produce sempre un ritratto medio di chi si ha davanti. Incontrarlo e intervistarlo soltanto un paio di volte non sarebbe stato sufficiente, perché il suo personaggio può essere ingannevole, la sua personalità dipende molto dagli umori del momento». Momento che oggi, dopo i fasti dell’ultimo anno, non sembra sorridere all’ex stratega di Donald Trump:«Il fatto che il risultato delle elezioni USA di metà mandato sia stato quello che è stato (Camera tornata sotto il controllo dei democratici, Senato restato saldamente in mano ai repubblicani, ndr) ha sicuramente aiutato il film», ammette Klayman, che oggi guarda con meno timore anche a The Movement e alla capacità di Steve Bannon di poter realmente influenzare la politica europea in occasione delle elezioni Europee:«Il suo movimento è fortemente disorganizzato e ha dimensioni tutt’altro che grandi», osserva la regista. Il mostro non fa più paura, forse anche perché ora – dopo The Brink – lo si conosce meglio.