È una terribile costante: i comici sono persone infelici. Non è facile far ridere la gente, anzi, è un’arte rarissima, come molte oggi banalizzata dai social, dato che tutti pensano di essere divertentissimi e arguti quando sono davanti a una tastiera. Più o meno la stessa convinzione che hanno di essere Helmut Newton quando prendono il telefono. O Gore Vidal quando parlano di politica internazionale. E potrei continuare, ma fa ridere già così. È il dramma del clown, dietro quell’immane sforzo teso a strappare almeno un sorriso c’è tutta la sofferenza del mondo sulle spalle di una sola persona. Perché per far ridere, purtroppo, quella sofferenza bisogna conoscerla e la si deve saper trasformare in altro. Dietro un bravo comico ci sono i bambini bombardati a Gaza, i tanti indegni governi in giro per il mondo, c’è fame, violenza sulle donne, povertà e tutte le altre possibili miserie che stanno su questa Terra. Che, come per incanto, quelli bravi trasformano in gioia. Salvo poi essere segnati, quasi maledetti. Jerry Lewis, uno dei più grandi di tutti, era una persona orribile nel privato. In tempi più recenti è ben nota la depressione cronica di Jim Carrey, così come il dramma di Robin Williams.
Steve Martin non è arrivato a questi estremi e, nonostante una vita costellata di successi, non è stato una persona felice per gran parte del suo passaggio sulla Terra. È stato bravo a indirizzare il malessere in direzioni diverse nel corso degli anni, a gestirlo nella maniera migliore. Quando verso la fine degli anni Settanta, dopo essere assurto ai livelli di una rockstar, con stadi stracolmi di spettatori per i suoi show, capì che era arrivato il momento di smettere, all’apice del successo e prima di essere risucchiato da qualcosa che lo avrebbe probabilmente distrutto. Si dedicò al cinema, con un esordio folgorante come Lo straccione e un fiasco tremendo come Spiccioli dal cielo, musical diretto da Herbert Ross che a rivederlo adesso probabilmente sorge il dubbio che fosse semplicemente un film avanti di quarant’anni. E poi i grandi successi, quelli di Un biglietto in due, Parenti, amici e tanti guai, Il padre della sposa, I tre amigos, e anche il passaggio nel cinema alto (in Grand Canyon di Lawrence Kasdan è la cosa migliore di un film non memorabile). Martin ha sempre avuto uno stile tutto suo, poetico e surreale, accompagnato dalla freccia che gli trapassava la testa e l’inseparabile banjo. Amante delle arti, ha una collezione privata incredibile con alcuni pezzi di enorme valore (Picasso, Hopper, tanto per gradire), si è dilettato anche nel romanzo (Shopgirl, se non lo avete letto, è magnifico) e nel fumetto, raccontando la sua vita in una graphic novel da lui scritta e illustrata da Harry Bliss dal titolo Number One Is Walking.
E poi, arrivato oltre i settanta, la rinascita grazie al successo clamoroso di Only Murders in the Building, commedia gialla in cui divide la scena con Selena Gomez e l’amico di vecchia data Martin Short, serie in cui tutti vogliono avere almeno un cameo e arrivata alla quarta stagione, ora sul set prossimamente su Disney+. Steve ha già annunciato che questo sarà il suo ultimo ruolo, e non poteva quindi scegliere momento migliore Morgan Neville, esperto regista e produttore, per seguirlo per alcuni mesi e realizzare un film documentario diviso in due parti e appena arrivato su Apple TV+ che, grazie alla presenza del diretto interessato, a un archivio notevolissimo e al contributo di alcune voci illustri, tra cui Tina Fey, Jerry Seinfeld e naturalmente Martin Short, compone un ritratto profondo e dettagliato di un artista che, nonostante l’enorme successo, forse ha avuto quello che ognuno dovrebbe desiderare davvero nella vita più tardi del previsto. Salvandosi probabilmente la vita. Per tutte queste ragioni, la prima domanda che ho fatto a Morgan Neville – che nel frattempo sta preparando un documentario su Paul McCartney negli anni Settanta, dopo la separazione dei Beatles – è certamente banale, ma ottima per soddisfare la curiosità.
Perché un documentario su Steve Martin?
Perché sono cresciuto adorando Steve Martin. C’è stato un periodo negli anni Settanta in cui i comici erano allo stesso livello delle rockstar, e Steve era senza dubbio uno di questi, alla stregua degli Eagles e dei Fletwood Mac, gli rubava letteralmente il palco in alcuni casi. È stato molte volte sulla copertina di Rolling Stone, e quando ero un ragazzino era fantastico ascoltare e mandare a memoria le battute dei suoi dischi di stand-up. E tutto questo accadde prima della sua carriera cinematografica, che ho sempre seguito e amato. Ma oltre a ciò, credo che la ragione sia che volevo da sempre fare un documentario sulla comicità, e quando mi si è presentata questa possibilità ho pensato che fosse perfetta. Nella mia carriera mi sono sempre interessato alla cultura alta quanto a quella popolare. La mia prima compagnia di produzione si chiamava così, High and Low, e Steve rispecchia esattamente quel concetto, capace com’è di essere brillantemente stupido e stupidamente brillante, lo straccione e anche il romanziere e il collezionista d’arte, e molte altre cose. Quindi per me non è solo la storia di Steve Martin, ma molte altre cose insieme.
Credo che la stand-up sia un’arte che troppi pensano di sapere praticare, oggi come oggi ce ne sono anche troppi, alimentati anche dalle piattaforme di streaming. Non è facile far ridere, c’è una combinazione di fattori che deve funzionare. Steve, per esempio, sul palco passava da momenti di comicità intellettuale a una fisicità, quella della tradizione vaudeville degli anni Dieci e Venti. Un dualismo che è stata la ragione del suo successo sul palco, ma anche quella del suo primo fiasco al cinema. L’arte di Steve Martin era perfetta su un palco, incompresa dal pubblico cinematografico.
È vero, ed è buffo anche quanto Steve sia ipercritico con sé stesso, molto più di quanto il pubblico sia mai stato nei suoi confronti. Lo spettacolo che aveva messo insieme nel corso della sua carriera di stand-up è essenzialmente arte performativa, e quando si è reso conto che tutto il pubblico era ormai completamente dentro quel concetto ha deciso di mollare tutto, quando avrebbe potuto tranquillamente continuare per anni con lo stesso successo. È una cosa in cui è bravissimo, lasciare la festa prima quando tutti vogliono che resti. Ma è fatto così, quando incomincia ad avere il dubbio che qualcosa non funzioni, allora arriva il momento di passare ad altro. È un meccanismo di sopravvivenza per lui, ed è anche la ragione per cui ha avuto una carriera così lunga. Detto ciò, riguardando gli inizi della sua carriera cinematografica, il personaggio a cui si affidava era simile a quello che portava sul palcoscenico, dallo Straccione al Mistero del cadavere scomparso a Ho perso la testa per un cervello. Ma il vero Steve è quello di Spiccioli dal cielo, sognatore, romantico, solitario, ed è molto probabilmente questa la ragione per cui fu un fiasco, perché nessuno voleva vederlo così. E probabilmente lui stesso sapeva che sarebbe accaduto, ma amava così tanto quel materiale che non volle ascoltare i suoi timori. E da quelle macerie costruì il personaggio cinematografico che poi è diventato popolare, quello del papà americano nevrotico alle prese con la famiglia e con il mondo là fuori. Ma anche questo lo ha vissuto come un viaggio molto personale, i film che ha scritto esplorano sempre cose che lo riguardano.
Non sono molti i colleghi di Steve Martin che intervisti nel documentario, tutti di altissimo livello ma pochi rispetto alla pienezza della sua carriera. Come mai? E perché proprio loro?
Perché sono quelli che hanno effettivamente lavorato con Steve o che sono realmente suoi amici stretti. Ci sono molti comici che rispettano Steve, che lo considerano uno dei più grandi di sempre, ma non lo conoscono davvero. La considerazione pubblica era la cosa che mi interessava di meno. Quindi ho pensato di limitarmi alle persone che lo conoscono davvero, come Tina e Jerry, che oltretutto Steve rispetta moltissimo come professionisti. Mi sembrava molto meglio rispetto all’intervistare dieci comici che dicono che Steve è un grande, lo so io e lo sa anche il pubblico.
C’è un momento nel documentario, quando Steve rilegge il monologo finale di John Candy di Un biglietto in due che alla fine fu tagliato nel montaggio definitivo del film, in cui si commuove fino alle lacrime, tradendo quella malinconia costante che è tipica dei comici e per cui pagano dazio ogni giorno sulla loro pelle.
Guarda, è stata una delle preoccupazioni maggiori che ho avuto, quella che venisse fuori un film triste. Ma dopo avere lavorato sei mesi insieme ho detto a Steve: “Avrai un lieto fine”. Ed è così, sono convinto che Steve adesso sia finalmente una persona felice, dopo anni di terapia, lavorando sul rapporto con il padre per far sì che non lo definisse come essere umano. Come dice nel documentario Adam Gopnick, uno dei suoi più vecchi amici, Steve è la persona che è più cambiata tra tutte quelle che conosco. E lo stesso Steve dice a Jerry Seinfeld: “Sai, sono ancora triste ogni tanto, ma non più così spesso”.