A volte, il destino è scritto in un indirizzo. Da bambina Teresa Saponangelo abitava a Napoli in un palazzo di fianco al Teatro Politeama. Si era trasferita da Taranto con madre e fratello dopo la morte prematura del padre, per raggiungere la nonna materna. La vicina di casa faceva la maschera al teatro. Un altro inquilino era il portiere del Politeama. Dalle finestre, Teresa ascoltava le prove di opere liriche e di spettacoli di prosa. Cominciò ad andare a vederli, con qualche biglietto gratis. È stata la sua prima scuola di recitazione: in scena passavano Giorgio Albertazzi, Franco Branciaroli e, soprattutto, Mariangela Melato. Anna dei miracoli, per la regia di Giancarlo Sepe, è una folgorazione per Teresa dodicenne. Ancora adolescente partecipa a un laboratorio teatrale, la prima paga è in libri di teatro: qualche chilo di Pirandello e Beckett. Da allora non ha mai smesso. Per anni, però, la sua bravura è stata un segreto ben noto agli addetti ai lavori, meno al grande pubblico. C’è voluto Paolo Sorrentino, che le ha regalato il bellissimo ruolo della madre in È stata la mano di Dio, per far sì che, adesso, Teresa sia entrata in un ampissimo cono di luce. Il 20 ottobre è in Vincenzo Malinconico, avvocato d’insuccesso, serie per Rai 1 tratta dai romanzi di Diego De Silva, a breve sarà Dora Dalla Chiesa, la moglie del generale nella fiction con Sergio Castellitto, e, intanto, sta girando con Christian De Sica I limoni d’inverno, opera seconda di Caterina Carone.
In un anno, molti cambiamenti.
Sì, è cambiata l’attenzione nei miei confronti, sono aumentate le proposte. A volte sono sempre sulla stessa linea della mamma di È stata la mano di Dio: altre madri, altre pettinature anni Ottanta. A volte, no. Per esempio, ho girato un film in Spagna che si intitola Pájaros, dove sono una donna molto libera, attraente sensuale. Ho lavorato con due attori fantastici, Javier Gutiérrez e Luis Zahera.
Sotto la cofana anni Ottanta c’è una tigre?
Non proprio, perché cerco di metterci sempre un po’ d’ironia. Come nel personaggio di Nives, la ex moglie di Vincenzo Malinconico. È una donna di temperamento ma anche un po’ confusa. Si è separata ma è pentita e cerca di riconquistarlo. In più di mestiere fa la psicoanalista, dovrebbe essere equilibrata e invece è scombiccherata. Questo tipo di contraddizioni nella vita succedono più spesso di quello che pensiamo. Puoi essere la più brava al mondo nel tuo lavoro ma essere fragilissima a casa.
Per te chi sono gli attori più bravi?
Ammiro moltissimo la tecnica. Io non sono un’attrice tecnica, purtroppo. Non mi hanno preso né all’Accademia a Roma né alla scuola del Piccolo Teatro a Milano. A suo tempo soffrii parecchio, perché pensavo che quelle scuole fossero l’unico modo per me di entrare in questo mondo e farne una professione. Ci sono riuscita lo stesso ì, ma mi è rimasta l’ammirazione sconfinata per l’alta qualità tecnica. Chi ce l’ha può governarla, magari anche liberarsene. Non amo gli attori che parlano in maniera troppo quotidiana, mi piacciono quelli che costruiscono.
Per esempio?
Massimo Popolizio, Paolo Pierobon… sì, io guardo molto ai colleghi uomini. Una volta ho letto un’intervista a Meryl Streep che diceva di guardare molto a De Niro, mi sento in buona compagnia. Magari è una cosa brutta da dire, ma ho la sensazione che oggi i nostri attori uomini siano più preparati delle attrici. Forse le donne si sono adagiate sulla sensualità, la bellezza… non farò nomi.
Non farli. Però, a difesa delle donne, mi viene da dire che hanno meno opportunità di ruoli complessi, grandi protagoniste, no?
Vero. Abbiamo a disposizione molte mogli rassicuranti, qualche amante e poco più. Spero che ci siano più donne a scrivere per noi in futuro. Mi piacciono molto i libri di Valeria Parrella, per esempio. Un film o una serie tratti dalle sue opere avrebbero molti e variegati ruoli femminili. Inoltre, tieni conto che io non corrispondo a un certo modello estetico femminile, quello della “bella”. Penso di avere una mia sensualità e so di piacere, ma il mio campo, in termini di ruoli, si restringe. C’è stato un periodo molto difficile anni fa, prima del boom delle piattaforme: c’era pochissimo lavoro. L’unica cosa che mi facevano fare era “la sorella”. Ho fatto la sorella tante di quelle volte che nemmeno le ho contate!
E com’erano queste sorelle?
Di solito tristi e meno fortunate della protagonista. Ma se c’era una seconda serie si riscattavano. Mi hanno salvato l’autoironia e l’amore per il mio lavoro perché altrimenti sarei potuta diventare una donna parecchio frustrata, con i direttori della fotografia che mi dicevano in faccia: questa luce va bene per lei, la bella, per te va malissimo.
Hai saputo aspettare che qualcuno ti illuminasse bene, in tutti i sensi.
Non ho mai mollato perché avevo il teatro. Perché sapevo che c’erano tante persone che mi stimavano. E il momento è arrivato, inaspettato ma perfetto per me.
È stata la mano di Dio, un David e tutto il resto. Come è stato accompagnare il film all’estero?
Fantastico. Erano intensi gli incontri con il pubblico, un’immersione totale nella promozione del film, un dialogo molto umano. E poi, vabbè, ci sono stati anche numerosi cocktail, dove si incontravano colleghi stranieri. Ho fatto i complimenti a Vanessa Kirby, ho chiacchierato un po’ con Kirsten Dunst. Bello. Devo ringraziare Paolo, che ha avuto il coraggio e la libertà di prendere me e non un’attrice famosa per il suo film. Fino a quando non sei legittimato da un autore importante come lui, ti saranno preferiti i soliti nomi. Poi, magari, dopo altri si accodano. Se ci pensi, è un po’ triste.
Come ti sei comportata nel corso del tempo rispetto alle offerte che arrivavano e soprattutto a quelle che non arrivavano?
Io ho debuttato contemporaneamente a teatro e al cinema. Era il 1995, il film era Il verificatore di Stefano Incerti. Tra l’altro lì conobbi Paolo Sorrentino, che lavorava in produzione, poi ci siamo frequentati poco e persi di vista per tanti anni.
Era il momento d’oro del nuovo cinema napoletano e tu eri “in coppa” all’avvenimento.
Sì, e nello stesso periodo iniziavano i provini per la prima stagione di Un posto al sole. La primissima, prodotta dagli australiani. Arrivai quasi alla meta. Dopo l’ultimo provino, scelsero un’altra. Due anni dopo, lei lascia la serie. Mi richiamano. Lì sono stata lucida e ho rifiutato. In quei due anni avevo conosciuto Antonio Capuano, girato Pianese Nunzio, 14 anni a maggio, lavorato con Incerti, continuato con il teatro. Se avessi accettato la lunga serialità di Un posto al sole, non avrei più potuto sperimentare quello che avevo scoperto che mi piaceva.
Tu hai fatto anche teatro in Francia, hai portato un Tartufo in italiano a casa di Molière.
I francesi adorano gli attori italiani, secondo me perché loro si percepiscono troppo cerebrali mentre vedono noi più leggeri, musicali, giocosi.
Secondo te lo siamo?
Sì, ma non ne siamo profondamente consapevoli. La leggerezza, qualità fortissima soprattutto negli attori napoletani, è una grandissima risorsa che forse non sfruttiamo abbastanza.
Il padre di tuo figlio è figlio di Luciano Emmer. Come lo ricordi?
Come un uomo pieno di energia, che non si fermava mai. Aveva 90 anni quando andò a vedere uno spettacolo di Peter Brook, Ta main dans la mienne, con Michel Piccoli. Andò nel camerino di Piccoli, gli portò una sceneggiatura e gli disse: “Questo è il prossimo film che voglio fare, con te e Nicole Kidman”.