‘The Breaking Ice’, fra Truffaut e Godard per raccontare l’inquietudine della Gen Z | Rolling Stone Italia
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‘The Breaking Ice’, fra Truffaut e Godard per raccontare l’inquietudine della Gen Z

Girare sulle montagne innevate tra Cina e Corea del Nord, scrivere una scena sensuale evitando però la censura, ispirarsi alla Nouvelle Vague per fotografare la gioventù smarrita di oggi, in Oriente come in Occidente, e dirigere Cynthia Erivo prima di 'Wicked'. Una lunga chiacchierata con il regista Anthony Chen

‘The Breaking Ice’, fra Truffaut e Godard per raccontare l’inquietudine della Gen Z

Qu Chuxiao, Liu Haoran e Zhou Dongyu in 'The Breaking Ice'

Foto: Tucker Film

Un ménage à trois ispirato al grande cinema (da Truffaut a Godard) ma ambientato nel luogo più freddo di tutta la Cina, una città di frontiera al confine con la Corea del Nord. Qui Nana (Zhou Dongyu) è una guida turistica loquace e sorridente sul lavoro, mentre nel privato si trasforma in una specie di regina delle nevi (pardon) che ogni giorno respinge senza pietà Han Xiao (Qu Chuxiao), la cui famiglia gestisce il ristorante dove si concludono i suoi tour. Almeno finché non arriva Haofeng (Liu Haoran), un ragazzo che lavora nella finanza a Shangai con un orologio costoso e lo sguardo smarrito. I tre legano immediatamente durante un fine settimana che pare una vita intera: ballano, corrono, bevono, piangono, scopano, si confessano, rompono il ghiaccio che li circonda e che hanno dentro. Nel perenne inverno che li circonda, ognuno di loro si scioglie in un fiume di malinconia che ti entra sottopelle. The Breaking Ice (in sala dal 13 marzo con Tucker Film) è il quarto (bel) lungometraggio di Anthony Chen: classe 1984, di Singapore, già favourite di Cannes (ha vinto la Caméra d’Or nel 2013 e da allora sulla Croisette ha sempre un posto d’onore) e già entrato anche nel mercato internazionale con il suo primo film in lingua inglese, Drift, starring Cynthia Erivo. L’abbiamo intercettato, fuso orario permettendo, tra un meeting e l’altro per il nuovo film che sta preparando (ci arriviamo). E che l’ha fatto arrivare “insolitamente tardi” (dice l’ufficio stampa) al nostro collegamento. Non ti preoccupare Anthony, tutto perdonato.

Come collocheresti The Breaking Ice nella tua filmografia? Perché Ilo Ilo e Wet Season sono due capitoli della stessa trilogia, dove parlavi di divisioni di classe e approfondivi il rapporto madre-figlio, ma non avevi mai fatto un film sui ragazzi prima d’ora.
In effetti penso che questo film sia abbastanza diverso anche dai miei precedenti. Prima di tutto è un progetto post-pandemia, perché sono stato bloccato a casa per due anni, e credo di essere un po’ impazzito, mi sono fatto molte domande, mi chiedevo se il cinema esistesse ancora, se ci sarebbe state ancora le sale, ne avevano chiuse tante. Domandavo a me stesso: come posso andare avanti come regista? E ho trovato una via d’uscita. Quando sei bloccato e stai attraversando una specie di crisi esistenziale, senti di dover trovare una nuova strada. Nel mio caso non volevo ripetermi, volevo provare qualcosa di diverso e ho deciso che avrei fatto un film fuori dalla mia comfort zone, I miei primi due lungometraggi sono stati girati a Singapore, dove è estate tutto l’anno, fa molto caldo, tra i 24 e i 32 gradi. Mi sono detto: “No, farò un film invernale. E andrò nel posto più freddo della Cina per riuscirci”. Mi sono dato delle regole, delle restrizioni, ho proprio voluto rompere i miei schemi. E ho pure deciso che non solo avrei lavorato in un posto in cui non avevo mai lavorato prima, ma anche che l’avrei fatto con una troupe completamente nuova.

The Breaking Ice - Trailer Italiano

E sei anche riuscito a dare al film un forte senso del luogo. Come hai scelto quelle montagne?
Faceva davvero freddo, a un certo punto eravamo a 20 gradi sotto zero. Ma ero sicuro di voler girare in un clima invernale e che quel posto doveva essere nel nord della Cina. Ho sempre voluto fare un film in Cina anche perché mi piace la lingua, parlo anche mandarino E negli anni ho incontrato attori che venivano da lì, abbiamo parlato di lavorare insieme… Ho pensato che sarebbe stato un buon momento per farlo. E se mi chiedi come ho trovato la location… be’ letteralmente su Google Maps. Sapevo che alla fine volevo che il film passasse da un paesaggio urbano alla natura selvaggia, con sconfinate montagne innevate. E ho trovato sulla mappa questo posto chiamato Monte Changbai, metà si trova in Cina e l’altra metà in Corea del Nord. Sono andato a vedere le foto e in cima c’è questo lago, Heaven Lake. È meraviglioso. Poi sono andato su Google a cercare storie che riguardassero quei luoghi. E ho letto di questa celebre leggenda coreana sull’orso e la tigre e su come l’orso è diventato una donna. Ne sono rimasto molto colpito e ho deciso che dovevo includerla in qualche modo nel film.

Ma quel viaggio ha cambiato in qualche modo il film?
Eravamo ancora alla fine della pandemia, quindi quando sono volato in Cina, ho dovuto fare la quarantena in un hotel per 21 giorni e ho scritto praticamente tutto il copione durante la reclusione. Una volta libero, il produttore cinese ed io abbiamo preso un volo da Shanghai e siamo arrivati a questa montagna, l’abbiamo scalata e abbiamo visto il lago. Sapevo che il film doveva essere ambientato lì, alla fine. Poi sono tornato di nuovo sulla mappa per cercare delle città vicine e ho trovato questo posto, Yanji, che è a tre ore di macchina dai monti e che mi ha sorpreso. Abbiamo trovato una guida turistica, siamo saliti sull’autobus e abbiamo fatto il tour per circa tre, quattro giorni. Ho visto il confine nordcoreano e questo particolarissimo mix di cultura coreana e cinese. E ho pensato che quello fosse il posto perfetto per ambientare un film sui giovani che sono persi nelle loro vite, perché sei letteralmente sul confine, senza sapere dove appoggiarti, dove andare. The Breaking Ice ha davvero cambiato il mio processo come regista perché è stato tutto molto organico, avevo un’idea vaga, ma molti dettagli derivano dal mio viaggio in quei luoghi. Tutto quello che ho visto è diventato parte del film.

Foto: Tucker Film

E la metafora centrale del ghiaccio? Immagino c’entrino sempre quei luoghi.
Prima ancora è venuta perché volevo fare un film sull’inverno. E, se dici inverno, pensi subito alla neve, no? Ma la neve è stata fortemente romanticizzata nei film e nelle storie d’amore. Cos’altro c’è in inverno? Il ghiaccio. E continuavo a pensare a come si forma. Quando l’acqua diventa ghiaccio è tutto così rapido. Quando la temperatura arriva al punto di congelamento, in poche ore un intero lago può ghiacciare. Quando metti l’acqua nel congelatore, in poche ore ecco il ghiaccio. E mi dicevo: è molto transitorio, no? Prendi il ghiaccio, lo metti in superficie e lentamente si scioglie con la nuova acqua. Mi è venuto in mente che poteva essere un modo fantastico per descrivere la relazione tra questi tre ragazzi che si incontrano durante un weekend e legano in maniera così profonda. Succede tutto in fretta: formano questa connessione davvero complessa, che però finisce anche molto in fretta. Ma quello che resta è il ricordo e l’emozione. E mi è sembrata una metafora perfetta per descrivere tutte queste connessioni passeggere che le persone instaurano nella vita con altre persone che magari non rivedranno mai più, ma che lasciano in loro un’impronta fortissima.

Perdonami ma devo chiedertelo, perché ho una figlia che ha quasi tre anni e conosco Frozen a memoria: la sequenza iniziale dove ci sono gli uomini che tagliano i blocchi di ghiaccio è ispirata a?
Quando sono andato a fare delle ricerche nella zona, ho scoperto che è un’attività che fanno spesso, raccolgono molti blocchi dai laghi ghiacciati, quindi ho chiesto loro di trovarne uno e di mettere su una squadra per la raccolta del ghiaccio. Ricordo ancora che abbiamo dovuto girare quella sequenza l’ultimo giorno, in modo che il lastrone fosse abbastanza spessa da poter stare in piedi sul lago. Ma è stato solo dopo che ho fatto il film che la gente mi ha parlato di Frozen. Io l’avevo visto, ma solo una volta, non come i bambini (e i genitori) che lo guardano magari 20 o 30 volte. Non ci ho proprio pensato, finché un giorno qualcuno non me l’ha detto, ho rivisto il cartone e ho pensato: “Oh, è Frozen!” (ridiamo).

Frozen a parte, ovviamente in The Breaking Ice ci sono Jules e Jim di Truffaut e Bande à part di Godard, vedi quella corsa dei tre protagonisti in libreria…
È assolutamente un omaggio a Bande à part. Ho scritto la sequenza della corsa appena ho visto quella libreria in città – non ne avevo mai vista una così lunga – e l’ho fatto proprio pensando a Godard. Era una scena così bella dentro al Louvre, a Parigi. L’ho mostrata a tutta la troupe e ho proprio spiegato che volevo che si capisse il riferimento quasi in ogni fotogramma… Ho pensato che i i cinefili probabilmente lo avrebbero compreso. E devo dire che il film in generale è molto ispirato alla Nouvelle Vague. Come hai giustamente sottolineato all’inizio, io non ho mai girato una storia sui giovani, ma volevo mettermi alla prova. E quando ho iniziato a scriverlo ho pensato: come inizio? Qual è uno dei film più iconici sulla giovinezza? Il primo che mi è venuto in mente è stato proprio Jules e Jim. Non l’ho rivisto, perché non si trattava certo di copiarlo. Ma nel film di Truffaut c’erano due ragazzi e una ragazza e ho deciso che anche io avrei scritto un film con due uomini e una donna. Ed è sempre per questo che ho scelto gli attori prima di finire la sceneggiatura.

Foto: Tucker Film

Ecco, parliamo di Zhou Dongyu, che si era già fatta notare in Better Days e qui è altrettanto magnifica, al punto che quasi non le serve parlare. Come l’hai scelta?
L’ho incontrata diversi anni fa a un festival e abbiamo parlato di una possibile collaborazione, poi durante la pandemia ho girato un cortometraggio insieme a lei, si chiama The Year of the Everlasting Storm. All’epoca io vivevo a Londra e lei era a Pechino: abbiamo fatto tutto il film su Zoom, dal casting alle prove, dalla ricerca delle location alla regia. Siamo stati contenti del risultato, ma è stato molto difficile lavorare da remoto e abbiamo deciso che avremmo dovuto girare di nuovo insieme, questa volta di persona. E, quando ho deciso che avrei scritto questo film, la prima persona alla quale ho pensato è stata Zhou. Le ho scritto: “Voglio fare questo film, è un po’ pazzo, di che film si tratti ancora non ne ho idea, ma parla di giovani, di due ragazzi e una ragazza che si incontrano in un breve lasso di tempo, è ambientato in inverno e fa molto freddo”. E lei mi ha risposto: “Ok”. Ha una presenza fantastica sullo schermo, la telecamera la adora. Le dico sempre che sembra una ragazza normalissima, ma ogni volta che la inquadro brilla.

C’è qualcosa in comune tra la Gen Z occidentale e quella orientale in questa specie di noia, solitudine, irrequietezza e ansia per il futuro? Secondo te quel sentire ha anche attraversato in qualche modo i decenni?
Penso che ci sia un senso di malinconia e di ansia molto simile in Oriente e in Occidente. Sono rimasto sorpreso quando il film è stato proiettato e ha toccato molti giovani ovunque, in Cina, in Giappone, in Corea ma anche in Europa e in America. C’è qualcosa che li accomuna, mi sembra che i ragazzi ci si rivedano abbastanza universalmente. Non sono invece sicuro che il sentire dei ragazzi sia lo stesso con il passare del tempo, però lo percepisco nei giovani di oggi più di quanto non lo abbia mai sentito in passato. Questa generazione ha un tipo di ansia che è diversa dalle precedenti, non sono così spensierati e nessuno prima d’ora ha mai parlato tanto di salute mentale… adesso invece sembra essere un problema costante.

E sono anche molto aperti su questo.
In passato magari la vita faceva schifo, era dolorosa, ma si andava avanti e basta. Ho cercato di catturare la mia prospettiva sui giovani di oggi, ma quella sensazione ha attraversato le generazioni? Penso che ci sia qualcosa di simile, di senza tempo, ma insieme di diverso. E la differenza è quel senso di ansia, di depressione, è proprio lo stato mentale a essere cambiato. I ragazzi pensano che non sarebbero mai in grado di fare tanti soldi, permettersi una casa, realizzare tutto quello che hanno fatto i loro genitori. Ho la sensazione che si sentano un po’ come al centro di un cambiamento shock. Volevo raccontare quell’aspetto che sembra abbastanza ambiguo e complesso, motivo per cui ho deciso di catturarlo in questo modo un po’ sognante e poetico. Perché non credo che loro abbiano davvero risposte e men che meno penso di averne io.

È arrivato il momento di parlare della sequenza della doccia.
È una delle mie preferite! Quando l’ho scritta ero così soddisfatto, ma non ero sicuro che gli attori potessero interpretarla come volevo. Ricordo che io stesso ho recitato la scena di fronte a tutta la mia troupe almeno cinque volte. Poi abbiamo chiamato i ragazzi. Pregavo che funzionasse e, alla fine, ha funzionato. Anche mentre stavamo girando, è stato un momento molto toccante. Sì, penso di essere riuscito a ottenere quello che volevo: una sequenza che sembrasse sensuale, sexy, erotica, ma anche un po’ agrodolce, c’è una certa malinconia, una tristezza.… Siamo riusciti a fare esattamente quello che avevo in mente. Ed è stato anche grazie a certe restrizioni, perché quando fai un film in Cina ci sono regole molto rigide. Come fai a creare una scena molto sensuale ma senza nudità? Quindi ho deciso che avrei scritto una sequenza in cui tecnicamente i due personaggi sono insieme, ma nello stesso tempo sono separati da una sottile tenda da doccia. Si toccano, ma non si toccano davvero, e non si vede nulla di compromettente. Non c’è effettivamente del sesso, ma percepisci la sensualità, l’emozione. Ed era quello che cercavo.

Foto: Tucker Film

Dopo la benedizione come autore a Cannes, come scegli i tuoi progetti?
Sono stato molto, molto fortunato nella mia carriera, diversi dei miei film sono stati riconosciuti a Cannes e mi sono fatto un profilo nel settore, ma alla fine ho capito che io, come regista, posso portare avanti un progetto solo quando mi coinvolge emotivamente. Nel 2023 ho fatto due film, The Breaking Ice in Cina e il mio primo film in lingua inglese, Drift, in Europa. E, anche se nessuno dei due è stato girato nel mio Paese d’origine, sono stati entrambi esperienze molto personali. Ogni volta che senti quell’emozione così cruda nel film, è perché dentro c’è così tanto di me, della mia anima. Credo di sapere come fare il film solo se riesco a provare quelle emozioni, a sentire quei personaggi. Anche se non parla di qualcosa di familiare, alla fine, ogni film finisce per essere personale.

Come dicevi, hai diretto Cynthia Erivo in Drift poco prima che lei facesse Wicked: l’hai visto? Cosa ne pensi?
Certo che l’ho visto! E la sera della nomination all’Oscar ho scritto a Cynthia un messaggio: “Te la sei davvero meritata”. La sua è una performance ricchissima di sfumature, soprattutto per un film di un grande Studio hollywoodiano, il che è molto raro. Ho lavorato con lei, quindi conosco la sua profondità, il suo range, so che è un’attrice molto brillante. E ho sentito che nella seconda parte di Wicked è ancora meglio, quindi non vedo l’ora.

Dopo The Breaking Ice, hai in mente di chiudere la tua trilogia?
Sì, sto preparando un nuovo film, inizieremo a girare tra due settimane a Singapore. Ecco perché sono arrivato tardi all’intervista. È proprio la terza e ultima parte della trilogia iniziata con Ilo Ilo e continuata con Wet Season. Entrambi hanno come protagonisti gli stessi due attori, Yeo Yann Yann e Koh Jia Ler: nel primo film interpretano madre e figlio e nel secondo insegnante e studente, e tornano anche per questo progetto. Il titolo è We Are All Strangers, è un dramma familiare molto toccante che si svolge nell’arco di due anni e mezzo. Sono emozionato ma, allo stesso tempo, ci sono sempre sfide di produzione, ogni giorno cerchi di risolvere problemi e alla fine fai pure tardi alle interviste.