Skinhead, sicari, sbirri, criminali, poliziotti sotto copertura, principi, tossici, politici, supercattivi, un sindacalista del 18esimo secolo, un pittore impressionista. Pensate a un ruolo e probabilmente Tim Roth l’ha già interpretato. L’attore inglese, 56 anni, ha un curriculum impressionante e si merita il posto che ha nel pantheon dei caratteristi. Al momento ha ben due progetti televisivi in cantiere: Tin Star, il thriller di Amazon su un poliziotto espatriato in Canada (che diventa presto un delirio di violenza, follia e caos); e Rillington Place, la miniserie BBC sul serial killer John Christie.
Tra un centinaio di birrette e diverse “svapate” – «Non farmi sembrare un coglione nell’articolo», scherza, «scrivi che “Tim si gira le sue sigarette ed è davvero, davvero un fico”» -, Roth ha raccontato il perché e il per come dei suoi nuovi progetti. Nel frattempo gli abbiamo chiesto dei suoi primi anni di carriera, di Tarantino, di quella volta che ha accoltellato Liam Neeson, della sua amicizia con Tupac e di come diavolo si fa a capire quello che pensa David Lynch.
Cosa ti ha convinto di Tin Star?
Beh, non ero alla ricerca di una parte in tv, anche se ovviamente non ho niente contro il medium. Sono diventato famoso grazie alla tv degli anni ’90 e qualche anno fa ho fatto una serie per un network (Lie To Me), un’esperienza fantastica. Questo progetto, però, è diverso. È una storia in 10 atti, raccontata 45 minuti per volta.
Gli attori oggi descrivono la TV come un film di 13 ore…
… invece di 22 episodi con sempre lo stesso tizio, è vero. Quando sono arrivato a Hollywood i due mondi erano molto più distanti, facevi il cinema o la tv. Potevi fare come Clooney e passare da una serie a un film, ma mai il contrario. Per me il punto di svolta è stato il lavoro di David Simon. The Wire ha cambiato tutto: Oh, la TV può essere così? Ero geloso di tutti quelli che ci lavoravano, è così che ti senti quando vedi bravi attori in un bel progetto. Poi abbiamo fatto Lie To Me e mi sono detto: scritturiamo tutti gli attori di The Wire!
«Quanto avrei voluto fare quella scena con Cutty Wise…»
Esatto, scritturiamo il tipo che lo interpretava! Per fortuna, comunque, la barriera si sta sgretolando. Non è più TV vs Cinema, ora si possono fare entrambe le cose. Mentre facevo Lie To Me un sacco di colleghi mi chiedevano come fosse lavorare in tv. Era uno show procedurale con ottimi autori, una bella esperienza.
Tin Star, però… Ho letto le prime tre puntate e ho pensato “Mah…”, ma verso la fine ero in piedi sulla sedia. Cazzo, è una roba coraggiosa! Volevo sapere cosa sarebbe successo, e ho capito il senso di tutto il progetto solo alla fine. Ogni episodio va un po’ più dentro al personaggio, come sbucciare una cipolla. E Rowan Joffe, l’autore, ci ha lasciato fare. Il nono episodio è tutto improvvisato.
Davvero?
Lo so, a volte l’improvvisazione è come guardare una session di seghe di gruppo. Ma questa volta è stato incredibile. E con un cast completamente diverso dal resto dello show.
Aspetta, in che senso?
È complicato e non posso dire altro se non che ci hanno rinnovato per una seconda stagione. E non vedo l’ora di ricominciare a girare.
Tin Star uscirà nello stesso periodo di Rillington Place, la miniserie BBC sul serial killer John Christie. Conoscevi la sua storia ?
Avevo visto il film di Attenborough (L’assassinio di Rillington Place n.10) e sapevo che il caso aveva avuto un ruolo nell’abolizione della pena di morte (in Inghilterra), ma niente di più. Poi gli autori mi hanno mandato una tonnellata di materiale che non era arrivato sui tabloid: rapporti di autopsie, interviste, testimonianze… è stato difficile, un ruolo tosto. Ho finito la mia ricerca e ho dimenticato tutto, non puoi tenerti dentro storie così.
Perché la gente è affascinata dai serial killer?
È come guardare un incidente seduti in poltrona, c’è questo tipo di feticismo. Ma credo che l’intrattenimento derivi dal fatto che siano storie di finzione, non credi? Insomma, chi vorrebbe vivere storie così? Io no (ride). Vederle da una certa distanza, invece, è catartico. Amo leggere i thriller, ma non voglio certo viverne uno!
«Sono felice di aver fatto Funny Games, ma per favore non venite a casa mia a torturarmi…»
(Ride) Oh, man. Girare quel film è stato difficile, una delle cose più difficili della mia carriera. Michael Haneke è divino e lo amo, ma ha voluto fare tutto il film in sequenza. Iniziavo la giornata pensando «Ok, ora arriva lo stress», poi finiva la giornata e Stop. Il giorno dopo si ricominciava esattamente da dove avevamo interrotto… Il giorno dopo ancora: sempre più stress. Ripeti. Tutto il film è stato così. Mi venivano a parlare tra una scena e l’altra, mentre fumavo. «Tim, tutto bene?» E io… (si mette a tremare, spalanca gli occhi e finge di allontanare la gente a gesti). Per non parlare del ragazzino, era uguale a mio figlio. Dopo ogni scena mi sentivo sempre più sconvolto. È stata dura.
Parliamo del tuo passato. Il tuo primo ruolo importante è stato lo skinhead adolescente di Made in Britain, un personaggio molto controverso. Com’è stato passare dai teatri di periferia alle magliette dei ragazzini di tutta l’Inghilterra?
Strano. A un certo punto mi sono ritrovato sulla cover di Gay News: “Oi! Man of the Year!”, l’immagine di questo ragazzino incazzato era sorprendente e controversa. Ho amato ogni secondo di quel periodo. Però devo dire che nonostante il personaggio fosse iconico la mia vita non è cambiata di molto. Riuscivo a prendere l’autobus senza troppe difficoltà. Hai presente il film Scum (1979)?
Si, certo.
Frequentavo l’accademia d’arte… studiavo pittura e facevo teatro nei pub. Cercavo di farmi un nome nel giro. Poi ho visto questo film sulle carceri minorili inglesi e mi ha cambiato la vita. L’ho visto tre volte di fila, pensavo a Ray Winstone e mi dicevo che volevo essere come lui. Non sapevo perché ma ero convinto che quella sarebbe stata la mia strada.
Volevi quel tipo di energia? La sua era una performance molto dinamica…
Si. Lo guardi recitare e ti frigge cervello. Non ho mai voluto diventare una star, ero felice a teatro. Poi l’ho visto e ho pensato OK, io sarò questo. Ho cominciato a inseguire Alan Clarke, il regista, che mi ha dato il ruolo di Made in Britain. Sono seduto qui grazie a lui.
Cosa hai pensato quando hai incontrato Quentin Tarantino? Non era ancora “Quentin Tarantino”, non so se mi spiego…
Certo, era solo un ragazzino che voleva girare il suo primo film. Robert Altman mi aveva catapultato a Hollywood grazie al suo film su Van Gogh. Ero a Los Angeles, facevo la stessa cosa che avevano fatto tutti i miei colleghi inglesi: «Sto qui tre mesi e vediamo che succede». E poi è arrivata la sceneggiatura delle Iene. Quentin dice di avermelo mandato dopo avermi visto in Ronsencrantz e Guildenstern sono morti… ne ho parlato con Tom Stoppard, che aveva scritto la sceneggiatura. Ho letto le prime pagine ed ero piuttosto confuso, che cazzo è un cane da rapina? (Reservoir Dogs è il titolo originale del film, ndt) Poi ho finito e ho detto al mio agente che avrei fatto qualsiasi cosa per Quentin. Mi ha detto di scegliere tra Mr. Pink e Mr. Blonde e ho pensato “No, io voglio fare il bugiardo”. Mi piaceva l’idea di un attore inglese che fa un poliziotto americano che fa il rapinatore.
È vero che hai rifiutato di leggere la sceneggiatura con il resto del cast?
Beh, sono andato al primo incontro e c’era questo attore, aveva fatto Matrix, un tipo basso e pelato…
Joe Pantoliano?
Si! Era in corridoio e aspettava il suo turno per leggere. Mi hanno fatto entrare nella sala, c’erano Harvey Keitel e un altro tizio. Ho detto: «Scusate, non voglio leggere con voi. Non sono bravo, se mi fate leggere perdo la parte». Il tizio mi ha risposto: «La puoi perdere anche se non lo fai!», ho deciso di rischiarmela.
Siamo andati a mangiare qualcosa e ci hanno riprovato, puoi per favore leggere la sceneggiatura con gli altri? No, grazie, non lo farò. Alla fine Harvey se n’è andato, e io e questo tizio di nome Quentin siamo finiti in un pub. Mentre parlavamo scriveva pezzi di sceneggiatura sui sottobicchieri – avrei dovuto conservarli. Alla fine ho accettato, leggiamo e vaffanculo. Ci siamo presi sei birre e siamo tornati nel mio appartamento. Abbiamo letto tutto il film. Prima di separarci – Quentin doveva andare al Sundance Institute con Steve Buscemi, io da un’altra parte – gli ho chiesto: «Mi puoi dire per favore se ho la parte?». Mi ha detto «Yeah, you got it».
Per chi fa parte della sua troupe – ora è diventata una specie di azienda – lui è importantissimo, our guy. Non esiste nessun regista che lavori meglio con gli attori, e lo dico io che ho avuto l’onore di collaborare con dei veri maestri. Lo amiamo e siamo molto possessivi. È pazzo come un cavallo, sì, ma anche fottutamente bravo a girare film.
C’è un segreto per capire il ritmo della sua scrittura?
Ce l’hai o non ce l’hai. Se hai difficoltà, però, puoi semplicemente chiedere il suo aiuto. È una di quelle cose che gli attori non fanno con i registi, ma a lui puoi dire «Quentin, mi spieghi questa battuta?» e lui lo fa. «Oh, merda, ora ho capito. Grazie». Ha un dono, sa scrivere per Sam Jackson e sa anche cazzeggiare con l’Inglese duro e puro. È una cosa che abbiamo in comune, ci piace cazzeggiare con l’inglese! (ride) Ma sul serio, è meglio chiedergli un consiglio: la sua scrittura ha un ritmo molto specifico. Se penso che potrebbe smettere mi si spezza il cuore… è un uomo di parola e se dice che ci sta pensando è vero.
Ti ha parlato del suo nuovo progetto?
Mi ha detto di cosa tratta, ma non so se avrò una parte – nessuno di noi lo sa. Lui deve solo dirci il dove e il quando, e saremo tutti lì. E se non c’è una parte per qualcuno di noi (sospira), beh ci si vede tutti al di cinema per guardarlo!
Quanto c’è di tuo nell’interpretazione del dandy psicopatico di Rob Roy? C’era già tutto nella sceneggiatura?
Nella sceneggiatura non c’era quasi niente, o almeno io non riuscivo a vederlo. Mi ricordo di averne parlato con il regista, Mike Caton-Jones: «Non sono sicuro di aver capito questo tizio». Lui mi ha detto che una volta tolta la parrucca il pubblico doveva capire chi fosse davvero. Durante le riprese, però, continuavo a pensare che sarei stato licenziato (il ruolo gli ha fruttato una nomination per l’Oscar, nda).
Avevi imparato a tirare di spada a teatro?
No, non ne sapevo niente, non avevo mai tenuto in mano una spada in vita mia! (ride) Mentre Liam Neeson era in cima alla montagna in kilt, io lavoravo con i tizi delle spade per capire come cavolo fare, così da rendere la scena dell’aggressione credibile. Liam impara in fretta, e io l’ho colpito per sbaglio. Il miglior consiglio è arrivato dal coordinatore degli stunt, Bill Hobbs: «Non è una questione di abilità, ma di carattere. Come combatterebbe il tuo personaggio?». È così che ho pensato a quel suo modo ferale e viscido di muoversi.
Qualche anno dopo hai lavorato con Tupac in Gridlock’d. Cosa pensavi di lui?
Lo adoravo. All’inizio non volevo che interpretasse il ruolo, ero un bianco ignorante. Ero questo tizio londinese che non sapeva chi fosse al di fuori del doppio disco di platino. Ero molto affezionato al progetto e l’attore che volevo per il ruolo si è ritirato all’ultimo, poi qualcuno mi ha proposto Tupac. «È un rapper, è un tipo pazzesco e non vede l’ora di lavorare al film». Ho risposto: «Mi porti un vero attore, porca puttana? Per favore?», non sapevo che avesse studiato alla Fame, non sapevo niente.
Mentre succedeva tutto questo casino sono stato nominato per Rob Roy. E durante una di quelle assurde feste della stagione degli Oscar ho incontrato Quincy Jones: «Ehi, quel Tupac, dagli una possibilità». Ho pensato cazzo, okay, Quincy lo sta raccomandando, incontriamo questo tizio.
Io e il regista (Vonde Curtis-Hall) ci siamo incontrati in un ristorante. Lo aspettavamo e sono arrivate le guardie del corpo: hanno svuotato la sala e hanno fatto entrare un gruppo di donne. Poi è arrivato Tupac, si è seduto e mi ha detto «Ehi, come va?», poi mi ha spiegato cosa voleva fare con il personaggio. Ce l’aveva in pugno. Ho pensato: ma questo stronzo è fantastico! Voglio lavorare con lui, cosa dobbiamo fare per averlo nel film? Vonde aveva una faccia da vero bastardo, aveva scritto in fronte “Te l’avevo detto…”
Avevo due problemi con Tupac. Il primo era che stava scrivendo un album, girando i video e tutto il resto. Arrivava sul set esausto e gli ho detto guarda, ho bisogno di te per cinque settimane. Facciamo questo film insieme, concentriamoci e poi potrai tornare alle tue cose. Ed è quello che ha fatto, senza battere ciglio.
Il secondo erano le armi. Eravamo seduti nella roulotte, aspettavamo si fare una scena a Los Angeles, e gli ho detto: «Ma perché tutte queste armi, tutto questo dramma, in che casino ti sei cacciato?». Mi ha spiegato il suo mondo e quello che gli stavo succedendo, poi ha detto: «C’è in giro un proiettile con su scritto il mio nome». Avevamo un appuntamento e gli hanno sparato un giorno prima. Mi manca molto. Avevamo questa battuta ricorrente… dovevamo registrare dei dialoghi per i film, e io avevo già lavorato con lui ai Death Row Studios. Gli dicevo: «Okay Pac, ora sei nel mio territorio!». Poi abbiamo saputo che era in ospedale e qualche giorno dopo è morto. Mi manca ancora.
Hai lavorato con David Lynch al revival di Twin Peaks. Com’è andata?
David è incredibilmente gentile. È il tizio della Meditazione Trascendentale, quindi non è una vera sorpresa. Le sue indicazioni sono esilaranti, ma hanno perfettamente senso. Lavorare con lui significa dare il meglio basandosi sulle sue frasi criptiche.
Che tipo di frasi?
Hai visto la scena della mia morte?
L’ho vista.
Mi ha detto: «Voglio che tu la interpreti come se fossi una bambola di pezza di Elvis» (ride). Abbiamo girato, buona la prima. Lui era seduto dietro al monitor, rideva come un cretino. Ecco come lavora. Un genio del cazzo.
Nel 1999 hai diretto il family drama The War Zone. Vuoi tornare dietro la macchina da presa?
Si, non appena sarà umanamente possibile. Devo fare ancora un paio di serie TV per mandare i miei figli al college (ride), poi tornerò a fare il regista.