«Non ho ancora visto Barbie». Era settembre quando Todd Haynes, l’unico che ha davvero fatto un film con protagonista Barbie (Superstar: The Karen Carpenter Story: cercatelo, è un mediometraggio di 43 minuti in cui gli attori sono tutti bambolotti dell’universo della bionda capitalista) mi fece questa confessione. Eravamo al San Sebastián Film Festival, dove May December, il film già in concorso pochi mesi prima a Cannes, era presentato fuori competizione. Protagoniste Julianne Moore e Natalie Portman, quest’ultima nei panni di una famosa attrice che va in una tranquilla cittadina della costa orientale degli Stati Uniti per conoscere personalmente la donna al centro del racconto del suo prossimo film. Gracie, il personaggio di Moore, era finita sui rotocalchi di tutta la nazione vent’anni prima per colpa di una relazione con un ragazzo appena adolescente, rimanendone incinta. Quell’amore è rimasto intatto nel tempo, e ora la talentuosa Elizabeth, cioè Portman, vuole scoprire tutto quello che non è stato detto. E anche quale sia la verità.
Film dalla scrittura raffinatissima (la sceneggiatura di Samy Burch e Alex Mechanik era candidata agli ultimi Oscar), perfettamente in linea con i temi da sempre affrontati da Haynes, May December arriva nelle sale italiane il 21 marzo distribuito da Lucky Red. Nella bella città basca che ospita una delle manifestazioni cinematografiche più belle del mondo, Haynes era rilassato e generoso, e anche con tanta voglia di scherzare. «Ho una grande stima di Greta Gerwig, così come di Taylor Swift, due donne che hanno ritirato su l’economia di un intero Paese quest’anno». Chissà se poi lo ha visto Barbie. Intanto quest’incontro ha offerto l’occasione di parlare tanto della sua magnifica ossessione, tanto di citare uno dei cineasti a lui più cari: il cinema.
Questa è la quarta sceneggiatura non scritta da te che porti sullo schermo. Com’è lavorare su materiale di altri?
Non è poi così diverso. Naturalmente, quando si scrive una sceneggiatura e la si sviluppa, la si visualizza man mano. Ma poi c’è un punto in cui si è ancora sulla pagina, e un altro in cui si deve uscire dalla pagina e materializzare le immagini. Questo processo è una linea di demarcazione tra la pagina e le immagini, la pianificazione e la produzione. Per ogni film faccio un image book, attingo da altri film, fotografi, pittori, e il modo in cui le immagini si sviluppano visivamente diventa il modello per la visualizzazione del film e la progressione della storia. Mi hanno dedicato una retrospettiva al Centre Pompidou di Parigi lo scorso maggio e mi hanno chiesto un’opera originale. Godard è morto proprio durante la pre-produzione di May December, sapevo già che avrei fatto qualcosa sulla realizzazione del film, per cui abbiamo avuto pochissimo tempo. Il corto che ho realizzato si chiama appunto Image Book, la base è proprio il libro che ho realizzato per impostare il film, in cui ho inserito due passaggi da due film del passato, quello di Bibi Andersson da Persona di Bergman in cui racconta di aver fatto sesso con i due ragazzi sulla spiaggia, e poi tre attori asiatici recitano un passaggio fottutamente splendido da Due o tre cose che so di lei di Godard.
Hai una comprensione profonda della psiche femminile. Da dove nasce?
Credo sia iniziata con mia madre e con le donne della mia vita, che mi hanno formato. Poi si è sviluppato l’amore per i registi classici e per i loro personaggi femminili. Negli anni ’30 le donne dominavano il botteghino di Hollywood, personaggi impegnativi e inquietanti ritratti da Bette Davis, Joan Crawford, Barbara Stanwyck e altre attrici straordinarie. Poi la situazione è cambiata negli anni ’40, e di nuovo negli anni ’50, e poi ancora negli anni ’70. Si è creata una storia parallela del modo in cui le donne sono viste nei film che accompagna la storia del cinema. E questo mi ha sempre ispirato. Qualcosa da cui continuo a imparare e a trarre insegnamento.
C’è qualche regista in particolare che ti ha ispirato?
Sì, molti. Douglas Sirk e Fassbinder, naturalmente, e il modo unico in cui il melodramma domestico e i film degli anni ’50 hanno riportato le donne in casa e soppresso le loro libertà come personaggi. Descrivevano le costrizioni sociali e creavano modi di parlare alla società che forse le donne, rappresentate come fiere e potenti, non necessariamente affrontavano. La rappresentazione della repressione era qualcosa che interessava particolarmente Fassbinder e Sirk, e poi ha interessato me.
C’è una donna speciale nella tua vita, Christine Vachon, da sempre la tua produttrice. Quali sono le conversazioni che hai con lei a proposito dei tuoi film?
In realtà non ne parliamo. Facciamo e basta. Christine ha studiato cinema. Quando eravamo insieme all’università, uno dei motivi per cui sono stato esposto a Douglas Sirk in relazione a Fassbinder è stata la critica militante femminista che stava emergendo negli anni ’70. Christine e io siamo entrati al college subito dopo, e si è creato un riferimento su come guardare certi film e generi, una sorta di seconda generazione teorica che iniziava a guardare a registi che non erano stati presi particolarmente sul serio dalla critica, come Sirk appunto, ma che erano stati preso molto sul serio da registi successivi e riesaminati dalla critica femminista. Questa è stata un po’ la nostra introduzione reciproca. Ma quando Christine ha visto i miei lunghi cortometraggi, il mio film su Karen Carpenter, Superstar, la mia Barbie – la vera Barbie, sia chiaro – Christine, che stava già facendo cortometraggi dopo essersi laureata a New York, ha detto che i miei film erano quelli che voleva fare e mi offrì di produrre il successivo, che sarebbe stato il nostro primo lungometraggio, Poison. Da allora abbiamo diretto e prodotto insieme ogni mio singolo film.
Uno dei punti focali del tuo cinema è lo sdoppiamento e la molteplicità, May December ne è un esempio lampante. Cosa ti interessa particolarmente di questo aspetto?
I modelli di identità sono spesso molto singolari, ci viene chiesto di trovare chi siamo, di aderire a una categoria o un’etichetta. Mi interessa come l’identità in quanto prospettiva singola venga disturbata e messa in discussione, a volte in modi che il personaggio sente destabilizzanti e dolorosi, come nelle storie domestiche che circondano i personaggi femminili. In altri casi la frantumazione dell’idea di identità singola è stata liberatoria, come in Velvet Goldmine o parlando di Bob Dylan (in Io non sono qui, ndt). Credo che in tutto il mio percorso ci sia un interesse nel rompere l’idea di identità, talvolta anche sessuale o razziale.
Parliamo di adattamento. Quasi sempre quando adatti un film da un romanzo o da una storia già esistente la cambi radicalmente. Come mai?
Non c’è una ragione specifica, il processo è simile a quello di lavorare su sceneggiature altrui, significa sempre trovare un linguaggio visivo, ma narrativamente cerco storie che si inseriscano in un percorso preciso. Con Carol mi sono soffermato sulle storie d’amore, sulla loro struttura all’interno della narrazione cinematografica, sui diversi modi in cui ci si sente allineati con la persona più vulnerabile nella storia d’amore e sul ribaltamento della situazione. Il personaggio di Rooney Mara è nella posizione più vulnerabile, salvo poi esserlo Carol (Cate Blanchett, ndt) alla fine del film. Mi sono ispirato a Breve incontro, che inizia e finisce con la stessa scena, ma vista prima dall’esterno e poi dall’interno. Questo cambiamento rispetto al romanzo ha dato senso al mio desiderio di analizzare le storie d’amore come genere. È il mio modo di non smettere mai d’imparare, a ogni film.
L’amore è fondamentale nel tuo cinema.
L’amore è il modo in cui entriamo in relazioni che organizzano e strutturano le nostre vite e che, in un certo senso, si accompagnano all’approvazione o all’opposizione sociale. E gli individui devono navigare intorno alla società. Roland Barthes ha teorizzato l’amante come una specie di pazzo, un fuorilegge i cui desideri lo pongono intrinsecamente al di fuori della società, ed è la verità. Così ho pensato che fosse un modo interessante di guardare le storie d’amore. Carol in particolare, ma molti dei miei film, riguardano il radicamento della famiglia nella vita domestica in cui l’amore è scomparso. E ciò che rimane sono le strutture e le scelte che si sono fatte come risultato del tentativo di trovare l’amore, e forse non trovarlo dove si pensava che sarebbe stato.
May December è tratto da un articolo che raccontava un evento che sconvolse il Paese.
Sì, la storia è ispirata a un vero scandalo avvenuto negli Stati Uniti negli anni ’90, quello di Mary Kay Letourneau, che si innamorò di un suo studente di 13 anni, nello Stato di Washington. Fu una cosa enorme. Non ho seguito da vicino la vicenda quando accadde, come invece hanno fatto alcuni miei amici. La sceneggiatura di Samy Burch gioca con il materiale facendone una versione tutta sua. L’aspetto più interessante è che la storia è ambientata vent’anni dopo lo scandalo, e mostra come questa famiglia abbia costruito un muro intorno a sé per proteggersi dall’assalto della cultura consumistica dei tabloid. Sono rinchiusi in un bunker. E questo dà a Elizabeth, il personaggio di Natalie Portman, l’attrice che arriva per fare una ricerca su chi fosse il personaggio di Julianne Moore, tutto il materiale per scoprire chi fosse veramente Gracie. Euesto crea la tensione drammatica e mostra il modo in cui le persone possono fare scelte nella vita che le fanno cadere, ma nonostante ciò non si mettono in discussione. Ed è così che tutti noi sopravviviamo.
Come mai lavori così tanto con Julianne Moore?
Perché è un genio, molto semplicemente. È un’artista suprema del cinema. Ed è anche una cara amica e partner creativa. Imparo ancora da lei. Ci sono cose che fa davanti alla macchina da presa che non capisco fino in fondo finché non rivedo il film. Capisce l’obiettivo, sa come trattenere e provocare lo spettatore riempiendo i vuoti, dando così anche a me la stessa missione, e da regista è una cosa che amo.
Il tuo cinema è sempre molto riconoscibile. È un limite o una risorsa?
Fassbinder disse: “Tutti i più grandi registi fanno sempre lo stesso film”. Potrei dire lo stesso dei miei. Hitchcock ha fatto in un certo senso sempre lo stesso film, ma ogni avventura per lui era nuova, si concentrava su ciò che di diverso c’era, l’ambientazione, lo sguardo, il modo di giocare con la macchina da presa, di rapportarsi al protagonista. A volte ciò che fa rende coerente il lavoro di un artista è ciò che è a lui stesso invisibile agli occhi.
Netflix ha comprato il film per la distribuzione americana di May December mettendo sul tavolo una bella cifra. Come ti sei sentito?
Siamo stati molto, molto contenti di Netflix. È stata la prima volta che ho partecipato a un festival (Cannes 2023, ndt) senza un distributore. May December è costato molto poco, abbiamo girato in 23 giorni con un budget messo insieme con qualche prevendita internazionale e un investitore. Ma in un certo senso è stato liberatorio fare esattamente quello che volevo con un tempo e un budget così limitati. Significava che tutte le persone coinvolte dovevano dare il massimo, e con molti di loro lavoravo per la prima volta. È la prima volta che ho usato Christopher Blauvelt come direttore della fotografia, Sam Lisenco come scenografo e April Napier per i costumi, il che ha portato molta freschezza durante la lavorazione. Ci siamo divertiti e non mi importava se il film sarebbe poi uscito.
Questo fa la differenza in termini di libertà creativa?
Alla fine devi sempre rientrare in un programma e in un budget. Sento gente parlare di film Marvel quando ancora non c’è una sceneggiatura, ma con milioni di dollari in arrivo e tutto ancora da inventare. E penso: “Wow, che regalo”. Ma io non saprei come comportarmi in una situazione del genere. Per me è sempre tutto molto, molto pianificato e organizzato, frenetico, intenso. Sia che si tratti di un film con Amazon, sia che si tratti di un film completamente indipendente. Il massimo della libertà e del piacere è stato quando ho girato il mio film di Barbie con tre persone nella stanza del college vuoto per le vacanze, solo noi a mettere insieme le bambole, attaccando le braccia ai corpi, creando gli oggetti di scena, le scenografie, settando le luci, fumando un sacco di erba e ascoltando musica.
Ecco, la musica. La prima volta ci siamo incontrati per Velvet Goldmine: parliamo del tuo rapporto con il glam rock?
Riguardati il film! Negli Stati Uniti era un genere non molto conosciuto, in Gran Bretagna invece era mainstream. Credo che la fascinazione fosse dovuta all’androginia che ha sempre avuto un ruolo fondamentale nella cultura popolare, musicale e cinematografica. Rodolfo Valentino, Josephine Baker, Frank Sinatra, Elvis Presley: tutti artisti che hanno usato l’androginia per attrarre. Era l’androginia dei Beatles e degli Stones a far impazzire le ragazzine. Veniva da un altro pianeta. E poi c’è stato David Bowie, che ne ha fatto un concept. Questo è stato il punto forte del glam rock: ha invitato i fan adolescenti a partecipare al processo. Dovevi truccarti anche tu. Dovevi vestirti anche tu. The Rocky Horror Picture Show era un prodotto dell’era glam, l’unico film per cui ci si vestiva, si andava a cinema e si recitava di fronte allo schermo. Era completamente partecipativo, e questo faceva parte del progetto. Ed è questo il senso di Velvet Goldmine: il fan diventa spettacolo.
Parlando di qualcosa di completamente diverso, proprio la settimana scorsa ho rivisto Mildred Pierce di Michael Curtiz con Joan Crawford, e ho ripensato alla tua miniserie con Kate Winslet e alle nuove forme narrative. Quale preferisci oggi: i 90 minuti canonici del film o il tempo più lungo di una serie per raccontare di più?
Amo la compressione dell’esperienza di un singolo film. È un processo onirico, idee, desideri, segni e simboli che si intersecano e finiscono con l’avere un doppio o triplo significato. E poi la forma è più evidente in un singolo film che in un’esperienza episodica, dove invece finisce per perdersi. Non considero l’uno più moderno o superiore all’altro. Penso solo che la forma si perda nella serialità. Detto questo, lessi Mildred Pierce subito dopo la crisi e il romanzo parlava degli anni ’30, della Grande Depressione. Curtiz invece lo ha ricostruito sull’omicidio, rendendolo più simile ai lavori precedenti di James Cain, che invece stava cercando con tutte le sue forze di fare qualcosa di diverso, in questo caso raccontare in terza persona la storia di questa donna e di sua figlia, una Madame Bovary della classe media che lotta per mantenere la sua famiglia. Questo elemento alla fine si perde, e credo che Cain quando l’ha visto non abbia apprezzato. Ma è un film fantastico, il prodotto di tutte le potenti forze che Hollywood impone alla forma.
Qualcuno ti ha mai chiesto di cambiare la tua forma?
Non proprio, no. O meglio, sì. Harvey Weinstein. Mi chiese di tagliare la parte di Richard Gere in Io non sono qui e io ho detto grazie, ma no. E poi mi disse: “Ok, scaricheremo il tuo film”. Come a dire: lo distribuiremo, ma non lo sosterremo. Ed è ciò che successe. Ma non avrei cambiato la mia versione per Harvey, né per chiunque altro. Quello che faccio però è ascoltare il pubblico. Ricordo che stavamo lavorando al montaggio di un film. Abbiamo fatto delle proiezioni di prova, abbiamo preso appunti, ascoltato gli spettatori e letto i loro commenti, che hanno avuto un impatto sulla versione finale, naturalmente sulla base delle nostre scelte e decisioni. Ma è importante ascoltare.