Tokyo Calibro 9: ‘La Casa di Carta’ a Milano
In una Piazza Affari trasformata in quartier generale della banda, abbiamo incontrato Úrsula Corberó (e il resto del cast) per la partenza della terza stagione. Ci ha parlato del potere delle donne, di come le sia cambiata la vita e di quanto le "encanta" essere "fighetta"
Non provateci nemmeno a dire che “è sempre colpa di Tokyo”, perché Úrsula Corberó si incazza. Con classe, però si incazza. Perché? Dopo la rapina alla Zecca Di Madrid, il Professore ha mandato lei e Rio a nascondersi su un’isola caraibica. Vivono in una specie di commedia romantica, ma Tokyo è uno spirito libero: “Vuole respirare aria e vedere gente”, spiega Úrsula quando la incontriamo insieme a parte del cast a Milano per la presentazione della terza stagione della Casa di Carta. E insomma, per farla breve, il suo personaggio alla fine sceglie di andarsene (e non iniziate a gridare allo spoiler perché è nei primi minuti del primo episodio).
“Mentre giravamo, la troupe diceva: ‘È sempre colpa di Tokyo, se lei non fosse andata via non avrebbero arrestato Rio’. E io: ‘Come scusate? Tokyo ha preso una decisione, ogni donna ha tutto il diritto di fare quello che vuole. Semmai è colpa di Rio che ha voluto controllarla accendendo il telefono satellitare… se non lo avesse fatto non lo avrebbero preso”. Poi si ferma un attimo: “Al limite si può dire che sia colpa del Professore, che ha pensato di costringere Tokyo su un’isola deserta: sarà anche un cervellone, ma quella sicuramente non è stata un’idea brillante”, sorride. E ride ancora più forte quando l’interprete traduce le sue parole: “In italiano suona benissimo, molto più ironico”.
L’iconico caschetto con la frangia è sparito. Ora il taglio è più corto e riflette il nuovo corso del suo personaggio: “Nella prima stagione era molto viscerale, impulsiva, qui è più matura, più donna, sull’isola ha avuto due anni per riflettere sulla sua vita, sarà una Tokyo più paziente ma anche più pericolosa”.
Úrsula è fasciata in una minigonna di latex e quando un collega nota: “È Versace, vero?”, lei salta sulla sedia ed esclama: “Sì! Italian power!”. Forse è stufa di essere identificata sempre come sex symbol, ma c’è una scena nei nuovi episodi che di certo non aiuta: Tokyo esce dall’acqua come Ursula Andress in Licenza di uccidere: “Úrsula e Ursula”, ridacchia. “Mi piace come fanno le cose in questa serie, senza falsa ipocrisia: pensavamo fosse divertente riprodurre quella sequenza e l’abbiamo fatto, divertendoci”. Poi torna a riflettere sulla questione del sex symbol: “È una cosa che mi dicono sempre, ma non credo che Tokyo si consideri sexy, semplicemente l’apparenza fisica va oltre, non le interessa, la sensualità deve andare di pari passo a un atteggiamento, una consapevolezza”. Fa una pausa, cerca di capire parola per parola quello che sta traducendo l’interprete e poi chiede: “E tu ti senti sexy?”, alla collega Esther Acebo, alias Mónica Gaztambide o meglio Stoccolma, dopo il suo ingresso nella banda.
Non inizia il matriarcato, ma quasi
Parlare di serie femminista è costituzionalmente sbagliato, “perché c’è un bel po’ di testosterone”, sottolinea Úrsula, “ma ci sono molti personaggi femminili che trovano un loro spazio, lottano per i loro principi e vengono rispettate per le loro decisioni”. Non inizia il matriarcato come annunciava trionfante Nairobi nelle precedenti stagioni, ma il patriarcato prende una bella botta. Il fatto che si siano formate della coppie all’interno della banda mobilita diverse domande su come, in termini di politiche di genere, dovrebbe essere organizzato il nuovo colpo. Per aiutare Rio infatti, questa volta il Professore decide di alzare la posta in gioco e di mirare alla giugulare del sistema capitalista: l’oro della Banca di Spagna. Ma Stoccolma ha un bambino di due anni, e Denver non vuole che lei partecipi all’azione: “La gente pensa: ‘Hai un figlio piccolo e ti viene in mente di andare a fare una rapina, cosa hai in testa?’”, commenta Esther, “mentre nessuno dice al padre la stessa cosa. Credo che questo sia solo un triste riflesso della quotidianità delle donne che, quando tornano al lavoro dopo essere diventate madri, si trovano davanti a commenti simili tutti i giorni”.
Il suo personaggio è cambiato in modo radicale: “Monica all’inizio era una donna ingabbiata in mille stereotipi, con il tempo si è concessa di lottare per la sua felicità, È più libera, rilassata, lo rispecchiano anche i suoi capelli che prima domava con le forcine e ora lascia ricci e selvaggi”.
Tocca a Jaime Llorente difendere il suo Denver: “Ha una certa innocenza, non è maschilista, semplicemente è nato in una società maschilista e quindi ha standard un po’ ottusi che non riesce cambiare. Quando non vuole che Monica partecipi all’attacco, non lo fa perché non ritiene che non sia preparata, semplicemente pensa: ‘Tu hai fatto altro per tutta l’esistenza, in più abbiamo un bambino’. Considera che da piccolo aveva perso la madre, poi è morto da poco suo padre, e lui è terrorizzato”.
Se la vita di Tokyo e Stoccolma si è trasformata, lo stesso vale per quella di Úrsula ed Esther: “Viaggio molto fuori dalla Spagna, conosco tantissime persone, mi sono trasferita in una casa più bella e più grande”, racconta la prima, che non nega che all’inizio non è stato facile non lasciarsi schiacciare: “È stato tutto un po’ come un vortice, una voragine, poi piano piano ho ritrovato l’equilibrio, c’è voluto tempo per metabolizzare tutto, ma adesso sto benissimo. Anzi, mai stata meglio”. Esther conferma: “Se devo essere sincera dà un po’ le vertigini, l’esposizione ti rende vulnerabile, questo alla scuola di teatro non te lo anticipano. Ma ovviamente l’aspetto positivo vince su tutto”.
Pare che l’unico ad aver capito da subito il potenziale dello show sia stato Arturito (il direttore della Zecca): “Enrique Arce sosteneva: ’Se la Spagna non è pronta, il mondo lo è’”, ricorda Miguel Herrán, alias Rio. Qualche giorno dopo la premiere, Úrsula era in Uruguay a festeggiare il Capodanno: ”Tutti mi dicevano: ‘Tokyo, sei fantastica!’, e io pensavo: ‘Strano, tutti quelli che hanno visto la serie sono a questa festa’, non credevo possibile un ritorno del genere”. Lo stesso vale per Esther: “Avevo organizzato la visione con parenti ed amici in un teatro dove non prendeva il telefono ma quando sono uscita le notifiche su Instagram arrivavano a raffica, finché il cellulare non si è spento’.
Un ‘Bella Ciao’ pop da 190 Paesi
Il motivo è semplice: le serie televisive costituiscono il movimento culturale più importante di questo secolo e La Casa di Carta ha raccolto le incazzature di mezzo globo nei confronti del sistema. La scelta di Bella Ciao come brano simbolo ha fatto il resto: è un modo chiaro per sottolineare che lo show non è solo la storia di una rapina, ma un racconto di ribellione, vendetta, resistenza appunto. È una critica – anche un po’ grillina nei metodi – all’attuale carrozzone economico e alle scelte che penalizzano le persone a favore delle istituzioni bancarie, come riflette anche Luka Peros, alias Marsiglia, un nuovo misterioso personaggio che e lì per proteggere la banda: “La gente cerca degli eroi, dei Robin Hood, perché è stufa delle banche, della politica, delle promesse che non si concretizzano mentre la classe media continua a soffrire”.
Ed è così che i personaggi di una serie tv europea sono diventati dei supereroi pop in 190 paesi: “Bella Ciao ha a che fare con la lotta, con il non arrendersi mai per i propri ideali”, afferma Úrsula, “Ma credo che il messaggio della Casa di Carta vada oltre il culturale per diventare universale, è qualcosa di più profondo che viene dall’animo umano: le persone si sentono sole, esattamente come i personaggi, che poi però riescono a formare questa sorta di famiglia”.
La serie appartiene al classico sottogenere anglosassone della rapina, ma l’identità è profondamente latina, un mix tra il crimine perfetto, che deve funzionare come un orologio meccanico (anche se a tratti dovete sospendere l’incredulità), e personaggi che vivono le loro passioni in modo intenso e impulsivo. Esther è d’accordo: “Non c’è solo il colpo alla banca, noi non siamo solamente dei ladri, ma degli esseri umani, è questo che ci permette di superare le frontiere”.
Nella terza stagione “è cambiato tutto ma non è cambiato niente, l’essenza della Casa di Carta è sempre la stessa”, spiega Úrsula. Schema narrativo che vince non si cambia, ma quest’anno la sensazione è meno claustrofobica, perché con l’ingresso di Netflix nella produzione il budget è lievitato e parte delle riprese sono state realizzate a Panama o in Thailandia. E La Casa di Carta è diventata anche più consapevole di quello che ha scatenato, intenzionalmente oppure no.
Milano, la maschera di Dalì e il dito medio di Cattelan
Non è un caso se dopo l’attività stampa milanese seguiamo Tokyo, Denver, Rio, Stoccolma e Marsiglia a Piazza Affari, dove il dito medio di Cattelan è stato inglobato in un gigantesco pupazzo con la maschera di Salvador Dalì. “Fuck”, dice Ursula, per capirci. Subito dopo le si avvicina un ragazzo che ha il volto di Tokyo tatuato su un quadricipite: “Ma tu sei pazzo!”, grida lei, abbracciandolo. Perché alla fine l’anima della Casa di Carta è pure un po’ tamarra. E Úrsula in quel personaggio non ha paura di restare intrappolata: “Mi era già successo in Spagna, prima di Tokyo facevo sempre la ragazza dei quartieri alti, quella un po’ fighetta”, quando l’interprete traduce la parola, lei la ripete: “fighetta” e ride, “me encanta”, commenta. “Mi sono fermata per un anno e ho detto di no a tutte quelle proposte. Poi è arrivata Tokyo”. E per favore non dite che tutto quello che succede nella Casa di Carta è colpa sua, perché Úrsula si incazza, davvero.
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Video e Foto di Eduardo Festa