Tommaso Santambrogio è il meno italiano degli esordienti italiani in circolazione. Che poi, forse non è nemmeno corretto, dargli di quello che è agli inizi. Un po’ perché sul palmarès di questo regista nato a Milano nel 1992 compaiono già un lungometraggio, un mediometraggio (e mezzo), tre cortometraggi; due presentazioni al festival di Venezia – la prima con il corto Closing Time nella sezione SIC, del 2021, la seconda con il feature film Gli oceani sono i veri continenti, presentato alle Giornate degli Autori nel 2023 – e collaborazioni con importanti registi internazionali.
O meglio: certo, Santambrogio è un esordiente, uno che si sta facendo conoscere, che sta dando l’impronta iniziale alla sua carriera. Ma in un senso, ancora una volta, molto poco italiano del termine. E la strada che l’ha portato qui, a girare il suo primo lungometraggio, lo testimonia, tra gli inizi con studi teorici e la voglia di scrivere di cinema, poi il salto della barricata dietro la cinepresa. E una formazione “come si faceva una volta” (leggasi: come ancora spesso accade fuori dall’Italia di oggi): andando a bottega dai maestri, che nel suo caso sono stati Werner Herzog prima, e Lav Diaz poi.
Non esattamente due nomi a caso. Guardando Taxibol, mediometraggio documentario di 50 minuti, dove il protagonista è Diaz dentro a un taxi per le strade dell’Havana, a Cuba, e poi Gli oceani, il lignaggio da cui discende Santambrogio è chiaro: cinema che pensa su di sé, e che potrebbe facilmente arrivare a far pensare anche lo spettatore. Uno che procede a passo filosofico, che osserva e che si dà tempo. Per tanti, non avvezzi, di fretta, la durata dei film di Santambrogio (come del suo pantheon cinematografico) sarebbe una sfida.
Durata però, non lunghezza: nel senso in cui la usava il filosofo francese, tra i genitori dell’esistenzialismo, Henri Bergson, indicando lo scorrere del tempo nella sua versione soggettiva, interna all’individuo. Dove si apre a tratti un cuore di tenebra, e una consapevolezza ci appare d’improvviso, intima e illuminata. Però dobbiamo essere disposti a farci trasportare. Quello che ho deciso di fare anche io, sedendomi davanti a un caffè con Santambrogio in un pomeriggio di fine anno, dopo che era già ripassato da Milano in occasione del MUBI Fest a metà dicembre. Per parlare di oceani, separazioni, e parole che comunicano senza farsi davvero intendere.
Andare a bottega, nel cinema, sembra essere passato di moda. Invece è stata proprio la tua strada.
Non ho studiato cinema, e le volte che l’ho visto attraverso la dimensione accademica ne ho sofferto. Una volta capito che era nel pratico che volevo mettere le mani in pasta, ho iniziato a chiedermi come avrei potuto crescere a livello artistico. Ero arrivato alla conclusione che le strade fossero due: fare, fare, fare, anche con i limiti che avevo a livello tecnico, con lo spirito del “forse se metti insieme scrittura e fotografia ottieni il cinema”. Oppure potevo imparare da qualcuno che stimavo a livello artistico.
Come si fa oggi?
Avrei potuto spedire una lettera d’amore a qualche regista italiano, ma mi sembrava anacronistico. Allora ho fatto qualche ricerca e ho visto che Werner Herzog sarebbe tornato in Sud America per la sua prima residenza artistica, proprio dove aveva girato Fitzcarraldo. Ci ho provato, non credevo andasse bene. Invece mi hanno selezionato e sono stato buttato letteralmente nella giungla. È stato lì che ho iniziato a formarmi sia a livello tecnico che di immaginario. Sono uscito dalla mia comfort zone per seguire un maestro.
Dopo Herzog c’è stato Lav Diaz.
Diaz è stato il mio maestro più completo, nel senso che con lui ho imparato tanto anche sul processo produttivo del film, non solo artistico. È stato supervisore del cortometraggio che ho realizzato alla Scuola di Cinema Alternativo di Cuba, di fatto un mediometraggio, che conteneva già il nucleo narrativo degli Oceani. Così è anche nato Taxibol, avevo già in mente lui che conversava con questo tassista che avevo conosciuto, Gustavo, e quando Diaz mi ha chiesto se ci fosse nulla in cui poteva aiutarmi, non ci ho pensato due volte. Ho anche lavorato con lui nelle Filippine. Diaz è punk, libero, non ti dice cosa devi fare. Ha un approccio alternativo al filmmaking, che poi è anche quello che ha tenuto lungo tutta la sua carriera, arrivando dov’è arrivato: fai quello che ti senti, e fregatene.
Come si sta su un suo set?
È bello, intimo, si è come un gruppo di amici. Sembra una comunità, un’occupazione. Lui la mattina scrive e il pomeriggio si gira, la sera si mangia e si suona la chitarra, si beve e si chiacchiera, lui dorme tre ore e torna a scrivere tutta notte. Intanto tu magari leggi qualcosa, o ti occupi di altri progetti che hai in loco. È un’esperienza di vita, ti apre non solo alla comunità internazionale ma anche al cinema del Sud globale, che prescinde dalle logiche produttive che nell’Ovest benestante applichiamo dagli anni Sessanta.
Hai parlato di Cuba, dove hai girato Gli oceani sono i veri continenti. Che cosa ti lega all’isola?
Cuba è stato il mio primo viaggio grosso fuori dall’Italia, avrò avuto otto anni. I miei non c’erano mai stati ma erano patiti della storia e della cultura locale, quindi l’impatto è stato molto forte, e credo mi abbia influenzato per come concepisco il diverso a livello linguistico e culturale. Poi sono cresciuto e ci sono tornato, mi sono appassionato del contesto musicale, culturale, sociale. È a Cuba che ho incontrato i personaggi degli Oceani. Quello che ho visto è che il mio cinema è sempre partito dai luoghi, passando poi per i personaggi, e solo alla fine, in un certo senso, arriva al tema canonicamente inteso. Ma quando lo fa, ha già in sé tutto quello che serve per svilupparsi come opera.
Quanto è finzione e quanto realtà, negli Oceani?
San Antonio, il posto in cui abbiamo girato, è reale, è un luogo figlio di un mito del progresso fallito. I personaggi, che sono anche gli attori, sono reali, nel senso che hanno le loro identità e che abbiamo scritto i loro ruoli insieme, basandoci sulle loro reali esperienze di vita. Il resto è finzione, Alex ed Edith (due artisti tra i protagonisti del film, nda) non sono realmente una coppia. Volevo trattare il tema della separazione, e ho trovato tre storie che mi permettevano di farlo a tre livelli ideali e temporali diversi. Ci sono i bambini che giocano e che vedono i problemi dei genitori, Milagros, un’anziana signora che rilegge le lettere speditele dal marito dall’Angola, e poi Alex ed Edith, che sanno che stanno per vivere la loro separazione. Tutte avvengono per lo stesso motivo: a Cuba è venuta meno la possibilità di sognare.
Quindi il tuo cinema è documentario o finzione? C’è differenza?
Se c’è, è sempre più sottile. Dovendo etichettare, io faccio cinema di finzione, visto che il solo fatto di organizzare e programmare una scena ti impedisce di parlare di documentario. Bisognerebbe rubare le cose di nascosto. È un discorso diverso se si parla di cinema del reale, dove i personaggi interpretano loro stessi. Da quel punto di vista, certo, faccio sicuramente più cinema del reale. Ma il dispositivo narrativo rimane di finzione. Credo che oggi sia più interessante ragionare su altri aspetti del cinema e di un film. L’impatto della tecnologia sarà sempre più forte, sopravviverà solo chi ha uno stile molto riconoscibile o chi saprà porsi le giuste domande. E penso che alcune delle più interessanti riguardino il rapporto tra cinema e realtà. Per questo per me sono più interessanti gli artisti che lavorano sul confine tra i vari linguaggi artistici e che riflettono sul processo produttivo.
Ecco, il nuovo, la giustificazione: come si fa, al cinema?
Il punto è questo secondo me, ragionare sul contemporaneo. A prescindere dal genere, l’importante è avere un termometro di quello che è il mondo intorno a te e di quella che è la tua sensibilità. Devi negoziare continuamente tra dentro e fuori, come un Giano bifronte. Ma bisogna dire qualcosa, prendere una posizione anche solo a livello produttivo.
Per questo per me sono più interessanti gli artisti che lavorano sul confine tra arte e produzione. Prendiamo Herzog proprio nel documentario, la sua è stata una rivoluzione. Ci si è messo in mezzo, ha influenzato la narrazione… Diaz invece ha stravolto lo standard dell’ora e mezza, ha creato un nuovo modo di fare cinema. Non dimentichiamoci che ha vinto a Venezia con un film girato con una camera GH5, un arnese poverissimo. Cinema povero a livello dei mezzi, ma ricco a livello artistico. È importante riflettere sul linguaggio, ed è questo che ti fa capire quanto il cinema sia un’arte viva.
Gli oceani sono i veri continenti: è un titolo secondo me bellissimo, però bello ermetico.
È un verso contenuto nella poesia di un poeta minore cubano, ha pubblicato solo due libri di cui uno in vita. Me l’aveva recitato Alex mentre lavoravamo al cortometraggio, è inserito nel contesto di una separazione, è come un dialogo a una voce, o una lettera che non riceve risposta. La voce parlante spera che i sentimenti possano trascendere la distanza. Quindi c’era questo, che è quello di cui parlo nel film. Poi i titoli mi piacciono evocativi, di quelli che ti danno subito un’immagine rappresentativa e fanno l’ecfrasi di un sentimento. Il mare, l’oceano, l’orizzonte, erano tutti elementi che mi interessavano per questo film.
Cuba è molto legata all’acqua, alterità e viaggio sono concetti che passano sempre per l’oceano, anche fisicamente. Fa parte del loro immaginario collettivo quando pensano all’altrove. Allora l’acqua diventa una sorta di terra, e si crea un’immagine che contiene tutti gli elementi della vita. Per dire che tutti si confrontano con quello che accade, tutti sono toccati dalla separazione.
In questo “tutto” entra in gioco anche la natura, lo vediamo nella scena d’apertura con una performance a metà tra religione e spettacolo teatrale.
Per Cuba questo legame è importante, ma non volevo essere troppo didascalico. Sta a metà tra l’elaborazione artistica del lutto, visto che i protagonisti sono Alex ed Edith, e un certo realismo magico.
Arriva anche il sincretismo religioso della Santeria nei discorsi dei bambini, però non fai lo spiegone. Lasci che succeda e basta.
Gli oceani vuole essere un film globale, internazionale, che parli a tutti trascendendo i confini. Questo vuol dire essere anche un film per i cubani, quindi non puoi arrivare lì come il solito europeo che vuole fare la cartolina per gli europei in vacanza. Pensa che i bambini hanno improvvisato quasi tutto, li abbiamo allenati al metodo ma poi li abbiamo lasciati liberi. Avere questo approccio è più faticoso, bisogna documentarsi a fondo.
E allora com’è stato preso questo film non per occidentali?
Non pensa di avere una percezione chiara della cosa. L’autore non ce l’ha mai, magari ti rendi conto a distanza di anni se quello che hai fatto è stato davvero rilevante e l’impatto che ha avuto. Mentre lo promuovi sei in un frullatore, cerchi di far in modo che arrivi il più possibile. Posso dire però che per ora sono molto contento del risultato, e che siamo andati oggettivamente oltre le aspettative, soprattutto considerando che non si tratta di un film doppiato, e che nonostante questo anche in Italia è stato molto visto. Abbiamo girato tanto, ci sono state tante reazioni positive. Qualcuno si è davvero affezionato al film, mi hanno scritto per chiedermi il poster per dire, perché era stato tanto importante per una relazione…
Tu invece che spettatore sei?
Guardo di tutto, sono innamorato del cinema. Come regista voglio fare i film che vorrei vedere, con spunti internazionali e uno sguardo riconoscibile. Mi interessano gli autori che portano in avanti il linguaggio cinematografico: Miguel Gomes, Radu Jude, Apichatpong Weerasethakul, Alice Rohrwacher, ma questi solo per dirne alcuni. Il che non esclude il cinema impegnato, che riflette sul contemporaneo. Poi è importante che non ci si dimentichi di un film.
L’Italia com’è, da questo punto di vista?
All’estero hai più fiducia se sei visto come un giovane, e in Italia lavori di più se hai lavorato all’estero. È un cerchio strano perché in Italia ai giovani non viene lasciato questo spazio. C’è il rischio che passi 15 anni come “assistente alla regia” e nel pratico porti i caffè senza imparare nulla. Il cinema italiano non è ancora davvero aperto all’ambiente internazionale, viviamo in una bolla anche a livello di tematiche.
Tu hai cominciato decisamente bene: non hai paura del dopo?
In realtà non ve do l’ora che arrivi, questo dopo. Stare sul set ti dà vita. Sto lavorando a due progetti in questo momento, e posso dire che il prossimo non sarà a Cuba e che non girerò in bianco e nero. Continuerò a basarmi sui luoghi e gli incontri per le mie storie. Vorrei continuare a trascendere confini, geografici, linguistici, umani. Alla fine, tutti i discorsi che prevedono barriere o un nazionalismo forzato non mi convincono molto.