Tutto quello che Maurizio De Giovanni tocca diventa oro: intervista allo scrittore dietro le serie Rai del momento | Rolling Stone Italia
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Tutto quello che Maurizio De Giovanni tocca diventa oro: intervista allo scrittore dietro le serie Rai del momento

Il rapporto tra editoria e tv, il no alle scuole di scrittura e ai premi e i suoi personaggi – ‘Mina Settembre’, ‘Il commissario Ricciardi’ e ‘I bastardi di Pizzofalcone’ – che si sono presi la scena

Tutto quello che Maurizio De Giovanni tocca diventa oro: intervista allo scrittore dietro le serie Rai del momento

Lino Guanciale nel 'Commissario Ricciardi', Alessandro Gassmann nei 'Bastardi di Pizzofalcone' e Serena Rossi in 'Mina Settembre'

Artwork by Stefania Magli

«Mi creda, lo scrittore non esiste». Troverete questa affermazione di Maurizio De Giovanni più o meno a metà intervista quando, oramai, sarete giunti anche voi alla medesima constatazione: lo scrittore non conta, esistono solo i personaggi. E quelli di De Giovanni, in particolare, si sono presi tutti la scena: tre su quattro – ossia Mina Settembre, il commissario Ricciardi e l’ispettore Lojacono – sono diventati i protagonisti delle serie tv del momento. La quarta, che è più anziana e quindi si è presa il suo tempo, lo diventerà a breve: la società di produzione Palomar ha acquistato i diritti per adattare i polizieschi sull’ex agente segreto Sara. Risultato: in questi giorni non si fa altro che parlare di Mina e Ricciardi e, forse, troppo poco di De Giovanni, che è lo scrittore del momento (gli ultimi libri, Troppo freddo per SettembreFiori per i bastardi di Pizzofalcone, sono usciti per Einaudi nel 2020). «Guardi, io sto benissimo così», assicura lui.

Be’, però è giusto dare a Cesare quel che è di Cesare.
A me interessa che i personaggi siano visibili: non io. Amo quando una persona dice “Ho letto Mina” oppure “Ho letto Ricciardi”, mentre non mi piace sentir dire: “Io leggo De Giovanni”. Perché ok, va bene… ma cosa vuol dire? Cosa leggi?

Maurizio De Giovanni. Foto: Silvia Morara/Mondadori Portfolio via Getty Images

 

Adattare una storia significa anche un po’ tradirla. Ci sono autori, per esempio, che non prendono parte agli adattamenti proprio perché nei confronti dei personaggi non hanno quel distacco necessario per rimettere mano alla storia. Tu accetti di buon grado il tradimento?
Il fatto è che, nel momento stesso in cui esce un libro, la storia non è più tua. Ogni lettore visualizzerà infatti in modo diverso i personaggi, l’epoca, l’ambientazione: farà suo il libro, cambiandolo. Per questo trovo sia stupido essere gelosi di una storia edita. Allo stesso modo, non ha molto senso nemmeno mettere troppo bocca negli adattamenti. Quando scrive, un autore è infatti autonomo: si mette in tuta davanti al computer, con i capelli sporchi e la barba incolta, crea la sua storia e la cosa finisce lì. Quando però il testo deve essere tradotto per immagini, siano esse televisive, teatrali o a fumetti, subentrano altre professionalità che esercitano, giustamente, la propria autonomia. Lo scrittore non è il regista o il direttore del casting o il costumista, quindi è logico che le storie si allontanino dai libri: è giusto che sia così. Si tratta anche di una questione di linguaggio: sarebbe impensabile pretendere, per esempio, che in prima serata su Rai 1 si veda un bambino orribilmente sfigurato…

Quindi hai consegnato i tuoi personaggi-chiave in mano agli sceneggiatori?
Dipende. Per quanto riguarda la serie I bastardi di Pizzofalcone, i romanzi non erano sufficienti a coprire l’intero numero delle puntate: quindi, insieme ad altri professionisti, sono intervenuto scrivendo le storie mancanti e riconfigurando le linee orizzontali. Un conto, infatti, è leggere un libro all’anno, un altro guardare un episodio a settimana. Per Il commissario Ricciardi ho supervisionato la fedeltà delle storie: ogni puntata è tratta da un mio romanzo. Quanto a Mina Settembre, ho fornito l’idea, i personaggi, l’ambientazione e i ruoli, ma non ho scritto io le storie.

Quale dei tre adattamenti ti soddisfa di più?
Devo dire che sono mediamente contento di tutti e tre.

“Mediamente”?
Be’, è logico: come dicevo, c’è un inevitabile (e necessario) scostamento rispetto ai libri. I miei romanzi sono un po’ più crudi e fanno emergere con più forza un certo tipo di dolore nei confronti della violenza. Le fiction tendono inoltre a essere forzatamente centrate sugli aspetti sentimentali, mentre i miei polizieschi privilegiano i casi di puntata. Si tratta però di una questione di linguaggio: non ne faccio una colpa alla tv, mi limito semplicemente a rilevarne la differenza. Detto questo, I bastardi di Pizzofalcone ha avuto vita propria anche grazie alla meravigliosa interpretazione di Alessandro Gassmann, che reputo il più bravo attore in circolazione. Mina Settembre, poi, è molto divertente: è leggera, è commedia pura, e soprattutto offre un interessante spaccato della mia città. Ridendo si possono dire anche cose importanti. Con Ricciardi hanno fatto un ottimo lavoro, anche dal punto di vista di ricostruzione del periodo storico.

Alessandro Gassmann nei ‘Bastardi di Pizzofalcone’. Foto: Rai

 

Immaginavi quegli attori per quei personaggi?
Alcuni personaggi sono migliori di quello che avevo immaginato. Altri sono uguali, e poi c’è qualcuno che è peggio del personaggio letterario.

Vogliamo i nomi.
Ma nemmeno sotto tortura! Comunque i tre protagonisti, Alessandro Gassmann, Serena Rossi e Lino Guanciale, sono ampiamente promossi.

Cosa replichi a chi sostiene che gli adattamenti letterali siano una scorciatoia creativa?
Sono convinto che siano invece una sinergia molto virtuosa. Mi spiego meglio. L’approccio alla fiction e quello a un romanzo sono diametralmente opposti. La serie tv è infatti costruita su quello che si pensa possa avere successo, quindi tende a ripetere format, a omogeneizzarsi. Il romanziere cerca invece qualcosa che non è mai stato scritto. Il lettore vuole essere sempre sorpreso: non gli interessa leggere una copia della Solitudine dei numeri primi o di Gomorra. Se la fiction attinge alla letteratura, reperirà per forza di cose originalità. Il che è solo un gran bene.

Non c’è però il rischio che l’editoria inizi a ragionare in funzione degli adattamenti tv, snaturandosi?
Be’, devi essere uno scrittore potentissimo per essere sicuro, già prima di scriverla, che la tua idea verrà messa in scena. Chi te lo garantisce?

Tu però sei ormai sufficientemente potente per saperlo. Non hai mai tentato di scrivere tenendo presente le esigenze tv?
Non solo non mi curo mai del telespettatore, ma manco del lettore! Se lo avessi fatto, molte storie sarebbero finite in modo diverso. Quando scrivo, penso solo al personaggio: è a lui, e a nessun altro, che devo lealtà. Per questo, per esempio, ho deciso di mettere la parola fine alla saga di Ricciardi: dal punto di vista commerciale è stata una scelta suicida, perché era la più amata dopo quella di Montalbano. L’ho fatto perché lo dovevo ai miei personaggi.

Hai iniziato a scrivere piuttosto tardi, alle soglie dei cinquant’anni. Sappiamo che non è stata una scelta: a causa della morte prematura di tuo padre, hai dovuto subito trovarti un lavoro, in banca. Guardandoti indietro, hai mai la sensazione di aver perso del tempo prezioso?
A volte ci penso, non lo nego. Però ero anche frenato da un problema di scarsa autostima: non mi ritenevo all’altezza, perché avevo un’idea quasi medianica dello scrittore.

Adesso invece?
Ora ho capito che lo scrittore non c’è. Chiunque può esserlo. In questi quindici anni ho conosciuto gente stupenda e gente pessima, così come persone assolutamente di talento che faticano a farsi pubblicare. Come in tutti i contesti umani, ci sono persone di ogni tipo.

Lino Guanciale nel ‘Commissario Ricciardi’. Foto: Anna Camerlingo

 

C’è chi sostiene che per scrivere una buona storia serva aver vissuto, e anche parecchio. Credi che avresti mai potuto scrivere Ricciardi a vent’anni?
La storia è autonoma rispetto alla vita dello scrittore. Poi, certo, nei libri ci finisce anche tutto quello che sei: le antipatie e le simpatie, le passioni, i libri che hai letto, i film che hai visto, gli incontri fatti… quindi, più sono e meglio è. Però una storia è una storia, ed è buona a vent’anni come a cinquanta. Basta saperla scrivere, e non servono le scuole di scrittura: gli strumenti si acquisiscono con una buona terza elementare.

Perché non ami le scuole di scrittura?
A mio avviso tendono a omologare: spiegano dei modelli e tu sei costretto a seguirli. Questo toglie quelle imperfezioni che sono poi il sale dell’originalità. Lo scrittore non deve infatti tendere alla perfezione. Leonard Cohen diceva che dalle crepe entra la luce: dai muri perfetti non passa nulla. Aveva ragione.

Hai mai avuto il blocco dello scrittore?
Scusa, ma… io sono un napoletano: come potrei averlo? Un napoletano esce per strada e le storie gli arrivano addosso a migliaia. Semmai ho il blocco del tempo, nel senso che non ho tempo per scrivere tutte le storie che avrei in mente.

È vero che hai fatto inserire nel contratto che non parteciperai mai a un premio Strega?
Sì, è così. I premi mi fanno orrore: mi spaventano le dinamiche, così come i sentimenti negativi che aleggiano spesso intorno a queste gare. Non fa per me. In ogni caso, non rientrerei mai nei canoni della Strega. Io ho uno stile di scrittura popolare, parlo alla gente, mentre il premio Strega predilige la grande letteratura, che si caratterizza per una scrittura più curata rispetto alla mia. E va bene così: non ho alcuna pretesa di essere tramandato ai posteri per aver fatto la storia della letteratura. Non cerco una visibilità personale.

Serena Rossi in ‘Mina Settembre’. Foto: Rai

 

Sfatiamo qualche mito legato alla scrittura. Il primo è: «Solo le donne possono raccontare bene e fino in fondo una donna».
Io non ho avuto nessuna difficoltà nel raccontare Mina e Sara. Le donne sono un ampliamento: raccontarle è come uscire in piazza. Sono personaggi molto più articolati e più facili. Mina e Sara mi hanno fatto crescere.

E Napoli? Può essere raccontata bene anche da un non napoletano?
Sarebbe interessante se Napoli fosse raccontata da un non napoletano. A patto però che la racconti dal suo punto di vista. Se invece volesse raccontarla come se lui fosse napoletano, sarebbe come se io raccontassi New York fingendo di essere americano: lo posso fare, per carità, ma non sarebbe molto realistico.

I polizieschi spopolano tanto in tv quanto in libreria: qual è il punto di forza di questo genere?
I gialli hanno il coraggio di guardare in faccia la strada e raccontarla per com’è. Ma, soprattutto, indagano quelle alterazioni dei sentimenti che portano ai delitti: è una dinamica che ci interessa perché riguarda ognuno di noi. Il seme dell’omicidio è infatti radicato nell’animo umano. Non a caso, il primo delitto della storia dell’umanità è avvenuto a pagina 2 della storia della Genesi.

Adesso su cosa stai lavorando?
Sto scrivendo Gli occhi di Sara e, se riesco a scriverlo per come ce l’ho in testa (non sempre mi riesce…), sarà una gran bella storia.

Nessun nuovo personaggio in vista?
Qualcosa si muove. Posso solo dire che potrebbero nascere dei romanzi da un paio di mie idee televisive, svincolate dai miei libri. Sono in cantiere…