«Siete andati in spiaggia? È stupenda!». A parlare è Gal Gadot, aka Wonder Woman in persona. Sono seduta a chiacchierare con lei, Chris Pine e una decina di altri giornalisti nel bel mezzo di una produzione mastodontica tra le dune del Corralejo, a Fuerteventura, in Spagna. Lo so, adesso pare assurdo pure a me che faccio questo lavoro da anni, ma c’è stato un tempo in cui sui set ci si poteva andare, era normale. In cui le interviste su Zoom erano ancora fantascienza. Prendevi un volo facile facile, ti ritrovavi con qualche collega da tutto il mondo. E, ancora più incredibile, non ti dovevi preoccupare di nessuna mascherina, bastava ricordarsi di portare crema solare, cappello e occhiali da sole per evitare l’insolazione. Era il 20 settembre del 2018, sì, ma sembra una vita fa.
Dopo un incasso record di 822 milioni di dollari al botteghino mondiale nell’estate del 2017 (numeri che, purtroppo, sembrano anch’essi fantascientifici adesso), alle Canarie la regista Patty Jenkins sta girando alcune sequenze di Wonder Woman 1984, attesissimo secondo capitolo della saga sulla supereroina DC che, dopo inevitabili rimandi a causa della pandemia, arriverà finalmente al cinema il 14 gennaio 2021: «Credo che il successo del primo film dipenda dalla visione molto chiara di Patty, non abbiamo mai fatto troppo caso al fatto che ci fosse una protagonista femminile», spiega Gadot. «Per noi è sempre stata una storia universale: quella di un personaggio che voleva fare del bene nel mondo. Un messaggio di amore e di accettazione che sarà sempre necessario. E lei è riuscita a raccontarlo in un modo bello, classico e semplice, senza cercare di diventare qualcosa che non è».
Appena finito di parlare Gal si ferma, adocchia una bottiglietta d’acqua e chiede: «È mia?». Poi beve a collo, come se fosse tra amici. È praticamente struccata (!), ha la stessa naturalezza ed eleganza con cui interpreta WW sullo schermo, lo stesso calore ed attenzione quando si rivolge a qualcuno. Chris Pine è un po’ meno friendly di carattere, ma il piglio è sempre quello del gentleman: «È difficile trovare una bella storia raccontata bene, Patty ha davvero un dono. Nel primo film abbiamo visto che la compassione può essere un’arma tanto potente quanto pistole, coltelli e pugni. E credo che ce ne sia un gran bisogno».
È il 59esimo giorno di riprese sui 106 in programma, siamo nel bel mezzo del deserto, è uno dei periodi meno ventosi dell’anno, ma il nome dell’isola – Fuerteventura – parla da solo. E auguri a sbobinare tutte le conversazioni, con il soffio di sottofondo costante. Dopo aver girato a Washington, D.C., Alexandria, Virginia, e in Inghilterra, la produzione ha ricostruito qui lo stadio in cui nel film si svolgono le Olimpiadi delle amazzoni e sta filmando alcune sequenze action. «Ci serviva un posto che potesse diventare Themyscira (l’isola immaginaria da cui provengono Wonder Woman e le Amazzoni, nda) e dove ci fosse anche una “open road”, che nella finzione in realtà si trova in Medio Oriente, appena fuori dal Cairo», spiega Chuck Roven, leggendario produttore della Trilogia del Cavaliere oscuro e di molti film DC, tra cui, ovviamente WW: «Sono sempre stato un fan di WW, e il fatto che non fosse mai stato realizzato un film su di lei è stata la mia grande fortuna, perché ci hanno provato in molti». «A lui potete fare tutte le domande a cui noi non abbiamo risposto, è davvero il migliore a non dare risposte», ci avverte la produzione. Roven ridacchia: «Scherzi a parte, qui le autorità ci hanno permesso di chiudere un tratto di strada lungo quasi 8 km per parecchio tempo. Altrimenti non avremmo potuto girare un’incredibile scena d’azione quasi tutta dal vero». Ma facciamo un passo indietro per contestualizzare il tutto. Partendo da una questione fondamentale.
Wonder Woman 1984 è un sequel?
La riposta è: tecnicamente sì, ma non si tratta un sequel standard. «Mi approccio ad ogni film come se fosse uno standalone, non mi viene mai da dire: è il secondo capitolo», precisa la regista Patty Jenkins. Quando la incontriamo in tarda mattinata è sul set da ore, ma ha un’energia inesauribile e contagiosa. «Ci sono gli stessi personaggi e nasce dalla stessa storyline certo, ma è anche una storia a sé, dall’inizio alla fine. Credo nel fare il miglior film possibile, che tu abbia visto o meno il primo o che ce ne sia un altro in futuro. È un atteggiamento mentale». Insomma, Wonder Woman 1984 non è un altro more of the same: c’è lo stesso humor, ci sono grandiose scene d’azione e tanto cuore, ma è un’avventura unica e originale con uno spirito tutto suo, quello degli anni ‘80. Un periodo in cui l’America era al massimo del suo potere, tra consumismo, benessere, ricchezza. Un decennio di avidità e desiderio, l’umanità al suo meglio e al suo peggio: «Volevamo in qualche modo parlare del mondo in cui viviamo oggi e mostrarne le assurdità. Era un’epoca molto politica, che risuona parecchio con quello che sta succedendo. C’era qualcosa di incredibile nell’ambientazione del primo film, il 1917, perché è una data che simboleggia la nascita della modernità, è l’inizio della guerra meccanizzata, ci sono nuovi modi di vivere, moda, indipendenza, il movimento delle donne. E ho trovato lo stesso spirito negli anni ’80: erano l’apice del mondo in cui viviamo, l’hanno creato, e noi ora ne vediamo le conseguenze». Quindi dimenticate la parodia degli Eighties, il kitsch o i cliché: WW 1984 è una celebrazione elegante del meglio del decennio in termini di design, luci, fashion, musica, colori: «Siamo stati tutti influenzati dal tocco old fashion di Robert Zemeckis e Steven Spielberg».
A distanza di quasi 70 anni dalla fine del primo capitolo, in questa età del glam e degli eccessi, ritroviamo Diana che conduce una vita molto riservata: quando non salva il mondo, lavora come antropologa e archeologa al Museo di Storia Naturale di Washington DC. «Che cosa farebbe Wonder Woman nel mondo moderno? È l’unica tra i supereroi ad avere un forte punto di vista su quello che gli uomini potrebbero e dovrebbero diventare», dice la regista. «Nel primo film Diana era appena arrivata nel loro mondo e doveva ancora imparare parecchio. Quando la incontriamo di nuovo ne fa parte, ne ha compreso le dinamiche, la complessità, ma è rimasta sola. È accogliente, aperta, ma non vuole legarsi troppo a qualcuno per non ferirlo nel caso dovesse scomparire all’improvviso o soffrire quando queste persone moriranno», racconta Gal.
Wonder Woman è sempre più demotivata, perché il mondo è impegnato a rincorrere desideri di ricchezza, felicità e potere: sono i sogni venduti da Maxwell Lord, il presidente della Blackgold International interpretato da Pedro Pascal, un imprenditore disperatamente egocentrico e narcisista che gestisce un business fraudolento, illudendo le persone di poter vivere l’America Dream: «Sarebbe noioso se “facesse” Donald Trump, è un character a sé, diverso per molti aspetti, ma certamente è uno dei quei “tipi”. E senz’altro Trump è l’epidemia da cui questo personaggio è nato», afferma Jenkins.
La villain: Cheetah
In questo contesto di You can have it all nasce la villain del film: Cheetah, interpretata da Kristen Wiig. Il suo personaggio, Barbara Minerva, lavora insieme a Diana al museo: è una scienziata brillante ma anche buffa, strana, introversa, timida. Quando cade vittima della truffa della Blackgold, inizia a trasformarsi: ha sempre voluto essere come Diana e adesso si sente finalmente più sicura di sé, più rispettata, ma il suo potere prende quasi subito una piega dark e Barbara diventa una creatura selvaggia e brutale. «Cheetah è probabilmente uno dei miei cattivi preferiti, perché non puoi fare a meno di amarla. Ed è soprattutto grazie alla performance di Kristen. C’è qualcosa in Barbara che la rende così vicina, vulnerabile, è un personaggio in cui ci si può davvero rispecchiare: è la ragazzina dentro ognuno di noi, pensa che tutto non sia mai abbastanza», dice Gal. «Il fatto che la protagonista sia una donna e la cattiva un’altra donna mi piace ovviamente, ma per me non fa nessuna differenza, non è uno statement. Amo fare film in cui si superano quei confini. Cheetah è una grande villain, punto», ribadisce Patty.
E per affrontarla Wonder Woman indosserà una fighissima armatura dorata che fa parte del canone dei fumetti e che nel film appartiene a una leggendaria guerriera amazzone dimenticata. Praticamente Cleopatra meets un’aquila dorata: «Sono 273 pezzi in poliuretano, con le ali fatte in fibra di carbonio. Sembra metallo, ma è molto leggera» ci spiega il costume supervisor Dan Grace. Gal l’ha provata e quasi salta sulla sedia dall’esaltazione: «È incredibile, non ho mai visto niente di simile».
Le scene d’azione al femminile infatti saranno ancora più numerose e complesse: «Come non ne avete mai viste in vita vostra!» esclama Gadot. «Uomini e donne combattono in modo diverso, è quasi una danza folle, è pazzesco». E la visione di Jenkins è ancora una volta unica: «Andiamo contro il cliché per cui alle donne non piace l’action. L’azione è drama. Piace a tutti, a patto che si possano calare nei panni del protagonista e capirne le dinamiche. Nei combattimenti, puoi avere lo stesso obiettivo, ma le donne hanno un modo molto diverso di fare le cose. Gal può interpretare qualunque emozione, ma nelle espressioni mentre lotta c’è qualcosa di diverso: è più un “ti conviene stare attento”, un po’ tipo “mamma arrabbiata”, per capirci. “Non voglio farti del male, ma adesso mi tocca, però non mi piace quella violenza”», racconta Patty.
Il ritorno di Steve
L’altra chicca di Wonder Woman 1984, ormai l’avrete capito (non è spoiler, si vedeva già nelle foto promozionali e nei trailer) è il ritorno di Steve Trevor, alias Chris Pine. Ma come, non era morto alla fine del primo film? Sì, ovviamente, ma la regista aveva le idee chiarissime dall’inizio e il personaggio non viene riportato indietro a caso o in maniera forzata: «Fa tutto parte di un piano serissimo che avevo già in mente con lo sviluppo della storia, non sminuisce in nessun modo il primo film ed è essenziale per il secondo», sottolinea Jenkins. «Patty me ne aveva parlato mentre giravamo il primo capitolo», aggiunge Chris. «È una riserva infinita di energia, guarda sempre avanti. A metà di Wonder Woman ci spiegava già come sarebbe stato figo il sequel, quali temi avrebbe esplorato». E Pine non vedeva l’ora di mostrare nuovi lati del personaggio: «Nel primo film Steve è molto realista, ha visto la guerra, è la definizione di mascolinità moderna, è ruvido ma vuole fare del bene. Qui invece è più ragazzino, entusiasta, innocente, ama la vita, vuole aiutare Diana». Anche il suo ritorno fa parte del grande progetto della regista: «Patty vuole cambiare la percezione delle cose: gli uomini posso essere protettori, forti e mascolini, ma anche vulnerabili e aperti. Il maschile e il femminile fanno la loro parte insieme, sono sullo stesso piano, non c’è gerarchia. Per il primo film mi chiedevano spesso: “Com’è fare il dude in distress“? Capisco lo humor, ma questa domanda mette l’uomo nella stessa posizione in cui si trovava la donna prima. Io posso essere forte, Gal può essere forte, io posso essere vulnerabile, così come può esserlo Gal. Tutti abbiamo il nostro posto qui».
Le Olimpiadi delle amazzoni
La storia si svolge principalmente nel 1984, ma il film inizia in un momento fuori dal tempo: siamo a Themyscira ed è una giornata di grandi festeggiamenti, quelli per le Olimpiadi delle amazzoni. È una sorta di Cinque du Soleil meets American Ninja Warrior meets sport estremi e, nello stesso tempo, qualcosa di unico e super cool. Mentre parliamo con il cast e la crew, una sezione di quel grandioso stadio, che poi verrà in gran parte ricostruito in digitale, è lì davanti a noi. Durante le competizioni le concorrenti devono affrontare diverse prove: «Ieri abbiamo filmato le atlete che nuotavano, uscivano dall’oceano e salivano sui cavalli», ci spiega la produzione. Per questo le riprese si sono svolte anche alla spiaggia di cui parlava Gal, che però era distante un paio d’ore dalla location e sarebbe stato impossibile riuscire a vederla in un giorno solo. Fra tutte queste guerriere fiere, concentrate e altissime, c’è anche la giovane Diana, interpretata da Lilly Aspell, 10 anni, vero prodigio: «Ha fatto tutti gli stunt a parte uno, perché non era coperto dall’assicurazione. Lo stunt coordinator dice che non ha mai lavorato con qualcuno così abile e concentrato. Per lei quella di ieri non è stata una giornata faticosa ma perfetta», ci raccontano, mentre altre comparse volano e fanno capriole attaccate a fili invisibili. Tutte sono impeccabilmente vestite e abbigliate a seconda del ruolo. Chi fa da spettatore sugli spalti porta il bianco e l’oro, che sono colori importanti e celebrativi per le amazzoni, chi gareggia invece indossa dei costumi avanzatissimi: «Con la costume designer Lindy Hemming abbiamo lavorato cinque mesi per provare tutti i look a 300 persone e trovare questi outfit strepitosi. La sfida più grande è stata quella di vestire le atlete, perché i loro costumi devono avere scopi diversi: devono sembrare di pelle alla vista, ma permettere il movimento come se fossero fatti di tessuto sportivo, andare nell’acqua ed essere sempre perfetti. Ci siamo ispirati agli speedo: dovevamo vestire delle triatlete, ma che appartenevano al mondo antico delle amazzoni», sottolinea il costume supervisor Dan Grace. La macchina della preparazione è impressionante: «Lavoriamo tutti insieme: capelli, make-up e costumi per velocizzare il più possibile. Qui riusciamo a far cambiare 80 persone alla volta: entrano, vengono vestiti, facciamo le foto, Patty decide se possono o meno comparire nel film. Lo chiamiamo “sistema da spogliatoio” come le squadre di football: siamo un team, è tutto veloce ed efficiente. A fine giornata le comparse si rimettono i propri abiti, li strucchiamo, togliamo loro le parrucche e li rimandiamo a casa velocemente, così posso riposare e tornare bellissimi il giorno dopo», sorride Dan.
L’altra parte di riprese che siamo autorizzati a vedere ce la anticipa la stessa Gadot: «È la prima volta che vediamo chi è il cattivo, sorprende me e Steve quando abbiamo abbassato la guardia. E iniziamo a fare i pazzi con le macchine. Abbiamo combinato di tutto: lui ha anche guidato a una velocità impressionante, perché c’è un convoglio da cui veniamo inseguiti. È stato entusiasmante, oggi dobbiamo girare un po’ di reazioni e riprese di raccordo». Poi ci saluta uno per uno per andarsi a preparare e indossare il costume da WW. Gal è un’icona ma sembra davvero non pensarci mai: «Devi solo essere il personaggio. Mentre crescevo non c’era nessuna supereroina al cinema, ed è fantastico per le ragazzine che ora esistano. Perché vuoi diventare quello che vedi e se non vedi nulla di simile a te, non pensi alle infinite possibilità di quello che potresti diventare. È importante fare questo film per le nuove generazioni, ma sapete, nella vita o sul set non ci penso». Anche Patty Jenkins ci saluta, inforca gli occhiali. È il momento: «Motore, azione!». Pelle d’oca, ora più che mai.