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Uno, nessuno e centomila Paolo Calabresi

'Perfetti sconosciuti' a teatro, 'Cortina Express' e l'archetipo del cattivo, il film su Berlinguer e la politica come servizio. E ovviamente due cult come 'Smetto quando voglio' e 'Boris'. Ma soprattutto Nicolas Cage e quei 9 anni folli di trasformismi. Una chiacchierata totale

Foto: Gabriele Colafranceschi

Partiamo con l’identikit digitale, che spesso dice molto, moltissimo. Come in questo caso. Nome: Paolo Calabresi. Foto profilo di WhatsApp: La vita è meravigliosa. Il primo motivo è anagrafico: «Nella foto George Bailey ha quattro figli che gli stanno aggrappati ed è esattamente quello che ho vissuto per tanti anni con i miei. Li sento ancora aggrappati, non fisicamente, ma con lo stesso amore disperato», mi racconta al telefono da Foligno, dove l’ha portato la tournée teatrale di Perfetti sconosciuti (ci arriviamo). «E poi è un film memorabile, è commovente: quante volte abbiamo pensato di tornare indietro? Addirittura a lui viene data l’occasione di vedere la sua vita come se non fosse mai nato. Trovo che sia di una profondità e, come tutte le cose veramente profonde, sono molto semplici nella scrittura».

Su Instagram invece la bio recita: “Limortanguerieri Official”. E non poteva essere altrimenti: «Era un’espressione che usava sempre mio nonno, molto romano e romanista. Calcisticamente parlando, certo, ma faceva anche parte di un’associazione antica, il Gruppo dei Romanisti, che ha come obiettivo quello di scoprire le radici vere della romanità. Per lui era una specie di edulcorazione de “li mortacci tua”. Però “limortanguerieri“ ricorda un po’ anche la guerra, no? Ci sono molto affezionato, è importante che nessuno se ne appropri. E poi messa in bocca a Biascica ha un altro sapore». Ok, ora mettetevi comodi perché la chiacchierata è lunga e – a tratti – pazzissima. Ma ne vale la pena. Cominciando appunto da Perfetti sconosciuti.

Mi sembra che stia andando, non alla grande, alla grandissima.
Sì, esagerato. Stiamo al terzo anno e quest’anno facciamo 103 repliche.

Come vivi questo ruolo, che viene dal film di Paolo Genovese, dove era interpretato da Marco Giallini, ma che ormai è tuo da tre anni?
Marco non può più rompere le scatole, dici (ridiamo). La vivo molto bene perché è un ruolo bellissimo, positivo, finalmente. Mi danno sempre cattivi o disgraziati e quindi sono molto contento di fare questo uomo saggio, come invece non sono io. Però si sa che gli attori fanno meglio i ruoli che non gli stanno troppo vicini.

Perfetti sconosciuti è del 2016, sono passati quasi 10 anni. Sul discorso proprio al centro del film, quindi tecnologia, telefonini ecc. quanto sono cambiate le cose?
C’è questo hard disk esterno dei nostri segreti, ma non solo quelli più piccantelli. Abbiamo appoggiato la nostra vita interiore su qualcosa che sta fuori da noi e quindi questo trend è andato peggiorando, è diventato uno stile di vita, ormai sembra impossibile tornare indietro. E questo rende lo spettacolo – ma già lo faceva l’intuizione straordinaria del film – di una modernità, di un’attualità spaventosa, nel vero senso della parola. Il film è molto inquietante. L’operazione in teatro è molto curiosa, perché usiamo esattamente il testo della sceneggiatura, non c’è niente di diverso. Eppure la gente ride molto di più.

Per la vicinanza che crea il teatro?
Il film indulge giustamente molto su i primi piani, sugli sguardi, sui piani d’ascolto dei personaggi, qui invece hai un quadro completo sempre, per un’ora e mezza vedi tutto e tutti. E questo rende la situazione più comica. Non a caso la famosa commedia all’italiana aveva molti piani a due, cioè i due comici – da Totò e Peppino e tanti altri – erano sempre inquadrati insieme per aumentare la comicità. Però, anche se ridono molto di più delle disgrazie altrui per tutto lo spettacolo, poi alla fine la botta arriva.

Anche perché tornano a casa col telefonino e, inevitabilmente, ci pensano.
Ed è forse peggio che nel film, perché quando nel finale arrivano le tragedie più grosse, le botte più forti, si crea un silenzio inquietante in teatro.

In Berlinguer – La grande ambizione interpreti Ugo Pecchioli, dirigente comunista torinese: come si fa raccontare quella politica come responsabilità collettiva oggi?
È un film malinconico e un po’ disperante perché lascia un senso di amaro, non tanto per la figura di Berlinguer in sé, per quella parte politica, ma perché ti accorgi che quella politica in generale, anche degli avversari, non esiste più. Non esiste quella capacità di ascolto, quel modo di intendere il ruolo del politico non come una professione, ma come un servizio. Hai la sensazione che anche questa sia una delle cose su cui è impossibile tornare indietro. Però l’altro giorno Andrea Segre mi ha mostrato un sondaggio in cui risulta molto alta la percentuale di giovani che sono andati a vederlo al cinema. E sono state tante persone inaspettatamente, quasi 4 milioni di spettatori per un film del genere, adesso: è quasi miracoloso. Molti ragazzi, moltissimi. Io ho un figlio di 18 anni che l’ha visto con gli amici e mi ha chiesto: ”Papà, ma veramente era così?”.

E poi è bellissimo per come siete riusciti a creare con Segre questo gruppo che pratica quasi una forma di ascesi e che però ha anche momenti buffi, si diverte.
Andrea ci ha riempito di video presi dagli archivi, dove vedevi queste riunioni infinite immerse in una cortina di fumo. Io maledico questo film perché avevo smesso di fumare da 12 anni e in un mese e mezzo penso di aver recuperato in negativo tutto quello che di buono avevo fatto. Parlavano di dove andare a mangiare, si facevano le battute su chi magnava de più. Cose normali. Però avevano il senso di fare qualcosa insieme, di un progetto comune. Quindi tutti i sacrifici pesavano meno.

Paolo Calabresi nei panni di Ugo Pecchioli. Foto: Massimo Calabria

Andiamo all’opposto per testimoniare la tua versatilità: è appena uscito al cinema Cortina Express, dove interpreti un villain russo. Ma eri già stato anche King in Diabolik. Insomma, è chiaro che, come dicevi tu, l’archetipo del cattivo interpretato da te piaccia. A te piace?
Gli attori se gli danno i cattivi sono felicissimi, chissà perché, tirano fuori delle cose incredibili, non vedono l’ora di fare i cattivi. Questo è stato molto divertente perché con Lillo, Christian De Sica, Eros Puglielli – che è un regista preparatissimo, tant’è vero che viene da un cinema molto, molto più impegnato – diventa tutto più semplice. E siamo la disperazione degli sceneggiatori, perché il copione diventa un canovaccio da cui partire, come si faceva una volta.

Poi Cortina porta avanti la tradizione del cinepanettone spesso molto bistrattata, ma è davvero un filone che ha fatto la storia anche del nostro cinema recente.
Mi sono stupito perché in conferenza stampa tanti giornalisti chiedevano questa differenza tra la commedia, il film di Natale, il cinepanettone. È vero che per fortuna abbiamo superato una fase della nostra cinematografia in cui i cinepanettoni erano delle commedie pretestuose, dove non vinceva la storia, ma le singole situazioni che potevi estrapolare dal film e funzionavano più o meno ugualmente. Una fase in cui gli attori, i personaggi erano quasi coscienti di stare dentro un film. Invece il segreto per una commedia fatta bene è che il personaggio, pure surreale, folle come Alexei il russo senza un occhio, viva il suo piccolo dramma in maniera verosimile, con un’impostazione naturalistica e realistica della recitazione.

Paolo Calabresi nel ruolo di Alexei Smirnoff. Foto: Medusa Film

E immagino che sia quello il tuo segreto: cioè, da Tornatore al Terzo Segreto di Satira, da Bellocchio a Cortina Express, il nucleo non cambia?
Sì, sono cosciente di passare di palo in frasca, ne faccio ammenda da un certo punto di vista (ridiamo) anche nei confronti di me stesso, perché oggettivamente, nel nostro Paese se fai bene il commissario, poi rischi di farlo bene per tutta la vita. La tendenza del “sistema” è quella un po’ di settorializzare anche le interpretazioni. Invece secondo me gli attori dovrebbero fare tutto, anche perché poi ritrovando quella credibilità – quando ci riesci – su quello che affronti, non esiste molta differenza tra comico e tragico. La nostra celebratissima commedia all’italiana in realtà raccontava delle situazioni dolorosissime. Se pensi a Il sorpasso, Guardie e ladri, La grande guerra che finisce con loro due sparati… ma sono tutti film per cui abbiamo riso tantissimo e abbiamo riso proprio perché c’acchiappava pure il cuore vedere quando i disgraziati vengono rappresentanti.

Mi viene in mente Smetto quando voglio: parti da una situazione tragica che è quella della disoccupazione, della situazione dei ricercatori universitari, e ci costruisci sopra un’ottima commedia contemporanea.
Dove si ride molto, ma l’archeologo Arturo Franchini è disperato ed è giusto che sia disperato. Se sfonda la cosiddetta quarta parete e ammicca al pubblico, il pubblico ce crede meno. Poi magari se lo andrebbe a vedere comunque un film così, però non gli lascerebbe niente.

A proposito di quell’esperienza, tu nella tua carriera di attore hai fatto tantissimo, però nel tuo curriculum ci sono almeno due titoli di culto: uno è sicuramente Smetto, in cui c’è più un discorso corale, l’altro è Boris, in cui c’è sempre un discorso corale, ma il tuo Biascica ha preso quasi vita a sé. Di solito un attore è fortunato se fa una cosa cult.
Sono un ragazzo fortunato (ridiamo), anche perché Smetto quando voglio poi è moltiplicato per 3, Boris è moltiplicato per 5, se ci metti pure il film dentro. E chissà che non venga moltiplicato per 6.

Il cast della quarta stagione di ‘Boris’. Foto: Disney+

Ma si può dire che c’è una possibilità concreta per una quinta stagione, che se ne sta parlando?
Certo, c’è una possibilità, anche perché qualche tempo fa l’ha detto Lorenzo Mieli in un contesto ufficiale. Però io sono abituato all’attesa, soprattutto con Boris, che per anni si è detto che sarebbe tornato ma poi non partiva mai per qualche motivo.E quindi vediamo, noi stiamo tutti a rota, come si dice a Roma.

State aspettando la telefonata, insomma.
Sì, aspettiamo l’ufficializzazione. Per me fare Boris è come… sai quelli che devono lavarsi il sangue ogni tanto? Per me è come andare in una spa. È arrivato in un momento della mia vita in cui mi ero infognato in tutti i miei trasformismi, mi ha riportato a fare il mio lavoro “normale”, entro certi canoni di decenza. Sarà sempre nel mio cuore, perché Biascica è un pezzo di me, ha un corpo da yeti con un cuore da orsacchiotto. E poi dietro c’è Mattia (Torre, nda): abbiamo fatto tante altre cose insieme come La linea verticale, lo spettacolo in teatro Qui e ora, ma era soprattutto un amico vero, con cui condividevamo tanto. Quel tipo di comicità così coraggiosa, mai scontata, poco convenzionale e quindi così moderna, ha fatto sì che la gente, che aveva 6-7 anni quando è uscito Boris, oggi a 18 anni lo scopre e impazzisce quanto allora.

Ma ti ricordi il tuo primo approccio con Boris? E magari anche la prima volta che hai letto di Biascica?
Perfettamente, mi ricordo una telefonata di Luca Vendruscolo che mi chiamò con la sua vocina (lo imita, nda): “Vorremmo che leggessi questa cosa che abbiamo scritto”. Era una puntata pilota dal titolo Sampras, che era il nome che all’inizio avevano scelto per il pesce e che poi hanno dovuto cambiare, perché Sampras allora aveva un contratto con la Nike e la Nike ci avrebbe fatto un mazzo tanto. Lo abbiamo chiamato Boris, che poteva ricordare Boris Becker, ma non era così immediato. Mi hanno convocato a fare il provino per René e alla fine Giacomo Ciarrapico ha detto: “Ma no, lui deve fare Augusto Biascica”. Non avevo ancora letto niente di Biascica, non sapevo chi fosse, e ho risposto: “Be’, se la scrittura è bella come quella di René, ci sono”. All’inizio Biascica era un po’ solo il re della savana, un uomo violento mobbizzatore dei propri schiavi, in realtà poi, lavorando in lettura e sul set, abbiamo capito che la sua forza doveva essere la fragilità.

Parliamo del periodo più incredibile della tua vita: quello, del trasformismo – “Genio!”, direbbe René – che però viene da un momento molto difficile per te.
Sì, ma l’ho scoperto dopo. Mentre lo vivevo, non avevo nessuna coscienza di me o di quello che stavo facendo, né dei motivi reali e profondi. Ho vissuto dei traumi forti, inaspettati: prima la morte dei miei genitori, a distanza di 10 giorni uno dall’altra, tutti due giovanissimi. Mia mamma era malata, ma mio papà stava benissimo. Quando lui si è reso conto che per lei non c’era più nulla da fare, si è fatto venire un infarto nel sonno. Ed è morto prima. Subito dopo se n’è andato Strehler, che è la persona che mi ha preso e mi ha messo a fare questo mestiere, io non avevo assolutamente progettato di fare l’attore. Tutto questo all’inizio non ha provocato nessuna reazione.

Nemmeno una lacrima?
Qualche lacrimuccia al funerale, però vedevo i miei quattro fratelli disperati e quasi mi sentivo in colpa. In realtà mi stavo facendo del male, mi stavo negando la possibilità di soffrire. E un paio d’anni dopo, come conseguenza, ho perso la voglia di fare il mio lavoro: stavo recitando in uno spettacolo di Ronconi al Piccolo senza nessuna gioia.

E c’era questa partita della Roma a Milano.
Erano finiti i biglietti, in quei giorni era in uscita il film di Scorsese, Al di là della vita. Penso: “Chiediamoli per Nicolas Cage, gli assomiglio pure un po’”, ma non avevo alcuna intenzione di fingermi lui, l’ho fatto perché volevo andare a vedere la Roma, che era una delle poche cose che mi teneva ancora attaccato a questa Terra. Però, siccome si trattava del Milan – e parliamo del Milan targato Mediaset di Galliani, Berlusconi, quello degli anni 2000, potente a livello di comunicazione – ovviamente ha dato la notizia della presenza di Cage. Per cui a quel punto o non andavo, e sarebbe stata la scelta più sana, o dovevo per forza fingermi lui. Ho scelto la seconda strada perché non avevo nulla da perdere. E quando pensi di non aver nulla da perdere, puoi fare tutto.

Infatti ha funzionato in maniera clamorosa.
Con un coraggio, un’abnegazione che era dettata da questo mio stato psicologico. Avrò firmato 300 autografi, la televisione in diretta ha detto che io ero Nicolas Cage.

E Nicolas Cage non l’ha mai saputo?
Non credo, i suoi avvocati non si sono mai fatti sentire. Un giorno vorrei fare qualcosa che riguardi questa storia e che lo coinvolga. In realtà c’è un precedente.

Racconta.
Sono andato per lavoro a Los Angeles una volta, molti anni fa. E ho comprato la Star Map, la mappa delle ville dei vip, che vendono per un dollaro a Beverly Hills. E sì, sono andato a casa Cage. (Ridiamo, Paolo deve fermarsi un attimo perché ridiamo troppo) Mi sono affacciato al cancello, non c’era neanche il citofono, per dire. Ho guardato da alcune fessure e dava la sensazione di essere tutto chiuso. C’erano due o tre macchine bassissime, saranno state Maserati, coperte con il classico telo grigio. E allora ho pensato: “Gli lancio questo DVD dal cancello”.

Sopra c’erano quei momenti allo stadio?
Certo, documentava le cazzate che avevo fatto.

Quindi in realtà in qualche modo potrebbe essergli arrivato quel DVD?
No! Dopo qualche minuto sono arrivate tre macchine della sicurezza e mi hanno circondato, mani sul tettuccio della macchina, mi hanno perquisito. Mi hanno fatto un sacco di domande e vagli a spiega’… Ho detto soltanto che era una cosa scherzosa. Me l’hanno ridato e mi hanno detto che non erano autorizzati a prendere nulla. Quindi è finito così il mio unico tentativo di approccio con Nick.

Ma ci devi riprovare.
Sì, ma in modo più professionale, più strutturato. Lo farò chiamare da qualcuno. Anche se ormai ci assomigliamo molto meno. Lui sta invecchiando molto peggio di me, pur essendo coetanei (ride).

Con John Turturro è andata meno bene, è successo un casino.
É andata meno bene perché gli assomigliavo molto meno. Ma io ero entrato in un loop tragico, era l’inizio di una patologia vera e propria. Alla fine ne ho fatte una ventina di queste follie trasformiste, alcune riuscitissime, alcune per niente, però a me non interessava neanche troppo, non c’era dietro nessun desiderio di commercializzazione.

Era una cosa che serviva a te, quasi una catarsi, una terapia?
Lo facevo per me, trasportavo il mio lavoro fuori dai luoghi deputati, nella vita reale, che era diventata il mio palcoscenico o il mio set cinematografico. Per cui quando avevo davanti a me Galliani o, nel caso di Turturro, la Sandrelli, che era seduta vicino a me nel pubblico, per me loro erano dei colleghi di lavoro, di una credibilità esagerata. Il Galliani interpretato da Galliani era un’interpretazione straordinaria, era ignaro di star recitando. Io invece sapevo di recitare e quindi dovevo per forza essere al massimo, non potevo sbagliare niente, non potevo rifare un ciak. Quello stato di necessità era una forma di doping mi obbligava a non sbagliare, a essere profondamente vero, verosimile, simile al vero. E quindi tutte queste operazioni erano anche una cura allo stato di depressione professionale che avevo accumulato. Solo che poi, come tutte le medicine, il rischio è di diventarne dipendente, finché non me ne sono liberato attraverso la nausea, a un certo punto non ne potevo più. È andata avanti per 9 anni, per me era uno stress psicofisico che partiva molto prima della performance, poi dipendeva dalla difficoltà della missione folle che mi prefiggevo. Quando sono andato al concerto di Gigi D’Alessio fingendomi un cardinale è stato più semplice, ma se si trattava di fare cose molto più complicate, viaggiavo intere settimane con due, tre cellulari addosso: ognuno corrispondeva a una persona diversa, a una personalità diversa, aveva del patologico. Però ne siamo usciti, anche grazie alla mia famiglia che mi riportava sempre alla realtà.

Sulle tue trasformazioni hai scritto un libro, dove ne hai raccontate tante: da Marilyn Manson al capo di Stato africano con Veltroni. Ma ce n’è una che è passata inosservata?
Ce n’è una che nel libro è solo accennata, ma che è stata un’esperienza pesante: per mesi mi sono finito un russo – a proposito di Cortina Express – che veniva in Italia in rappresentanza di una casa da gioco russa realmente esistente per chiedere l’apertura di un nuovo casinò da gestire e su cui far soldi, pur sapendo perfettamente che in Italia è vietata l’apertura di nuovi casinò. E sono andato in una città della Puglia, a Fasano, dove nei primi del ‘900 c’era un casinò che tante volte hanno tentato di riaprire, ma gli è sempre stato negato, ho preso contatto con politici prima locali e poi nazionali fino al Parlamento, creando una lobby in cui promettevo denaro per avere in cambio un’alzata di mano positiva quando si sarebbe votata la legge per riaprire quel casinò. E questa situazione è stata messa sotto silenzio, perché metteva nella merda troppa gente importante.

Ma l’esperienza delle Iene poi è arrivata da avventure di questo tipo?
Da scheggia impazzita del sistema, piano piano sono stato inglobato da quel sistema stesso, queste mattate per qualcuno risultavano talmente eclatanti che hanno pensato di coinvolgermi, di “usarmi” a livello proprio produttivo. E io avevo molti più mezzi per inventarmi delle cose anche belle, come lo scherzo a Corona. Mi sono ritrovato all’interno di questo grande ingranaggio che funziona perfettamente, però alla fine stavo con un microfono in mano a rompere coglioni a questo e a quell’altro. E non era il mio, c’è gente che lo fa per scelta, per professione, molto meglio di me, ma – a prescindere – non era proprio il mio lavoro. A un certo punto me ne sono distaccato. E poi diciamo che la morte di Nadia (Toffa, nda), con cui ho condotto l’ultima stagione, ha contribuito. Però Le Iene mi ha insegnato che, quando sei in un contesto televisivo, devi essere te stesso. Esattamente il contrario di quello che faccio come attore. Se ci pensi i grandi presentatori, Vianello, Corrado, Pippo Baudo, ma anche quelli più contemporanei, Carlo Conti, Amadeus, sono sempre uguali, sono sempre loro stessi. Frizzi era straordinario perché era proprio se stesso. “Fabrizio Frizzi attore di prima fascia”, questa è una citazione di Boris.

Certo, nella seconda stagione: al contrario del Mariano di Guzzanti, attore di seconda fascia.
Questa cosa lo faceva impazzire Frizzi, rideva come un pazzo. Ogni tanto mi chiamava e mi diceva: “Mi rimandi quella scena che non la trovo più?”.

Alle Iene però di cose ne hai fatte tante, penso al corto La sottile mensola rossa, “il primo film interamente girato all’Ikea a scrocco”: se anche questo non è cult, non so cosa lo possa essere.
Sì, andrebbe rispolverata effettivamente, perché in fondo appartiene un po’ a quel mondo del finto vero che a me piace tanto. Usare l’Ikea con tanto di cartellini che scendevano giù.

Devi fare un film, nel senso che ti tocca girarlo.
Me lo dicono in tanti. Vediamo se questo film sarà un’evoluzione di tutta questa storia folle di trasformismo oppure qualcos’altro, che non c’entra niente. Dovrei fare un film, ma dovrei fare anche una regia in teatro, ci sono tante cose che dovrei fare, ma che poi alla fine non faccio.

Ecco, il teatro. Tu sei uno degli ultimi veri attori strehleriani: sei allievo di Strehler, della scuola del Piccolo. Che cosa significa portare quel modo di fare recitazione, non solo teatro, adesso? E che cosa ha rappresentato per te Giorgio Strehler?
Mi ha trasmesso, non insegnato, perché Strehler non era un maestro: i maestri sono quelli che ti insegnano e poi ti lasciano andare per la tua strada, lui non ti lasciava andare per la tua strada, si incazzava moltissimo se te ne andavi per altre strade. Vedeva in me una curiosità, una follia lucida, che me lo faceva sentire molto vicino e, credo, viceversa. E mi ha insegnato una cosa molto semplice: che questo mestiere consiste nel far finta di essere altri, significa raccontare nella maggior parte dei casi delle storie finte alle persone e fargli vivere dei momenti in cui la realtà rappresentata è qualcosa di alternativo alla difficile quotidianità che viviamo. Strehler aveva questo approccio così, mi viene da dire di stomaco, ma anche dal diaframma in giù, senza entrare nei particolari (ride), per cui veniva tutto da lì. Niente passava per il cervello, poi ci arrivava, però partiva tutto da quello. Dalla scuola al Piccolo agli ultimi anni della sua vita, fino al ’97, l’anno in cui è morto, ho fatto praticamente tutti i suoi spettacoli. E mi porterò dietro per sempre questa modalità di vivere il teatro e il mio mestiere come qualcosa di quasi sacrale, che è molto più alto e anche socialmente molto più importante e utile di quello che si possa pensare.

Prossimamente: la serie Il gattopardo, nel ruolo di Padre Pirrone che fu di Romolo Valli. Una mega produzione.
Grandi mezzi, un’operazione coraggiosa e anche pericolosa, visto quello che è per l’immaginario di noi italiani quel film. Che però in questo caso segue una linea leggermente diversa, pur contenendo tutto quello che Tomasi di Lampedusa metteva nel romanzo, il cambiamento dell’Italia e tutto quanto. La linea dei personaggi privilegia le relazioni della famiglia, in particolare don Fabrizio nel rapporto con la figlia Concetta, che nel film appare meno rispetto all’Angelica di Claudia Cardinale. Mi sono trovato benissimo con il regista Tom Shankland, una bellissima esperienza, che non capita spesso.

Cosa vuole fare Paolo Calabresi adesso, dopo tutto quello che ci siamo raccontati?
C’è qualcosa, vorrei fare quello che ti dicevo prima, vorrei dare un compimento audiovisivo a quell’enorme materiale che documenta quel periodo strano, folle, ma anche se poi molto poetico della mia vita. Però ho sempre paura dell’autocelebrazione, quindi voglio cercare una modalità che possa andare bene per tutti.

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