Valeria Golino Inno alla gioia | Rolling Stone Italia
Cover Story

Valeria Golino
Inno alla gioia

Attrice e autrice totale, porta il suo sguardo magnetico dentro e fuori dal cinema. E con ‘L’arte della gioia’, la nuova serie che ha scritto e diretto per Sky, si confronta con Goliarda Sapienza: il suo mondo, le sue parole, la sua disobbedienza. Lei che non ha disobbedito mai, ma che per restare nelle cose ne è sempre in qualche modo fuggita, per poi ritornare sempre. Una lunga chiacchierata tra euforia, contraddizioni, eros, potere (no: potenza). E bellezza, «che è ovunque»

Foto: Carolina Amoretti per Rolling Stone Italia

«Ho fatto un film che si chiamava Euforia, e ora L’arte della gioia», ride Valeria Golino. «Ma l’euforia non è la gioia, e la gioia non è la felicità. Abitano nella stessa città, nello stesso quartiere, sono forse apparentate ma non ne sono sicura, nessuno l’ha mai dato per certo. Sono sorelle, o cugine, sicuramente avranno qualcosa in comune nell’albero genealogico. Ma la gioia, rispetto alla felicità, è molto più mobile, ha una tensione diversa. La felicità me la immagino più ferma ed effimera, ma non la conosco. Ci giro intorno, cerco tramite il ponte della gioia di arrivarci, ma finora non mi è apparsa. O forse sì, ma non ci siamo presentate. Invece la gioia è andante, discontinua, ma più presente».

Questa con Valeria Golino è una lunga chiacchierata in tre atti. Il primo: una notte sanremese, dentro c’è una grande festa, fuori noi a parlare vicino a un fungo, una fiamma che ci scalda. A un certo punto, Valeria dirà che «la bellezza bisogna cercarla dappertutto, perché sta da tutte le parti», ed è un’altra fiamma. Il secondo: sempre a Sanremo, mi trovo a condurre una conversazione tra lei ed Elodie. Si sono conosciute sul set del nuovo film di Mario Martone, Fuori, dove Golino interpreta Goliarda Sapienza, che è diventata spettro, altro da sé e insieme specchio, proiezione. Valeria l’ha conosciuta, Goliarda, quand’era ragazza, e ora dal suo libro più famoso – inglorioso quand’era in vita e poi di culto dopo la morte – ha tratto il suo ultimo lavoro da regista: L’arte della gioia, la serie che ha scritto e diretto (con Nicolangelo Gelormini) e che, dopo l’anteprima a Cannes l’anno scorso e il passaggio nelle sale, arriva su Sky e NOW il 28 febbraio. Di quel secondo atto mi restano altre parole: «L’attore vive nell’imprecisione, quando lo guardi devi sentire che tutto può crollare, può finire da un momento all’altro».

Foto: Carolina Amoretti. Look: Miu Miu. Shoes: Prada

Il terzo atto, il più lungo, è a distanza, un sabato mattina, io con fuori il grigio intossicante di Milano, lei su una terrazza romana con i gabbiani e «le coscette di fuori: è la bellezza di questa Roma Rometta, se no chi la sopporterebbe». È un dialogo che è un viaggio dentro il mondo di Valeria, dentro il suo sguardo su di sé e sugli altri, attraverso il suo ruolo (i suoi ruoli) nel cinema e quest’ultimo lavoro che è la somma di tante esperienze, parole, incontri. «Se non fosse un’assassina, Modesta sarei io», ride ancora lei parlando del personaggio che ha modellato, quasi confondendovisi, sullo schermo. Modesta è una giovane donna (Tecla Insolia) nella Sicilia di inizio ’900, padre violento, la fuga dalla famiglia, poi il convento con quella Madre Superiora (Jasmine Trinca) che sembra strappata a Narciso nero, e poi una nuova vita, la villa di una principessa (Valeria Bruni Tedeschi) e della sua figlia in fiore (Alma Noce) con fuori la ribellione rossa che infuria, l’Italia che prova a cambiare. E l’incontro con gli uomini (su tutti Guido Caprino) che dà il via a una specie di rivoluzione del sesso, dei sessi, tra nero e luce. Insomma, il romanzo l’avete letto (spero).

Come ogni volta con Valeria Golino, anche questa è una conversazione da cui si trattengono delle parole precise, attorno a cui lei costruisce il suo racconto. Come sullo schermo, come sempre fuori. Cominciamo dalla prima.

La bellezza

«Quando sei stata fotografata mille, duemila, tremila volte, non fai più le foto per essere carina: certo, se poi succede tanto meglio». Mi manda su WhatsApp uno scatto che le piace. «Ecco, guarda questa. Non si vede neanche che sono io, ma chi se ne frega: son solo due gambette con quel vestito rosso sopra, sembra un fiore» (la trovate alla fine di questa cover story, nda). Ancora la bellezza, ma non la sua. «Mi interessa che le foto abbiano una loro bellezza al di là di me, se no è inutile». C’entra sempre «lo sguardo tuo sugli altri e lo sguardo degli altri su di te», che è un punto fermo: ci torneremo su diverse volte. Ma anche il tempo. «Più vai avanti nella vita, più il tuo gusto personale, il bagaglio che hai, gli incontri che hai fatto ti direzionano. Più passa il tempo e più diventa specifico quello che ti piace, e anche quello che non ti piace. Perché la verità è che a un certo punto l’ambizione se ne va a casa. L’ambizione di arrivare da qualche parte, di essere parte di un sistema. Quella cosa che c’hai da giovane del voler esserci, no: di esistere. Di essere riconosciuto in quello che fai, o di avere successo, o di fare soldi. Tutte ambizioni giustificatissime, quando sei giovane».

Foto: Carolina Amoretti. Look: Sunnei

E poi?
E poi, quando quell’ambizione si è un po’ placata, il motivo per cui fai le cose è la ricerca della bellezza. Della tua idea di bellezza. È l’urgenza – anche se mi sembra una parola esagerata – che una certa cosa sia detta, sia vista. Cominci a lavorare più per quello che per essere riconosciuto, anche se la percezione degli altri è la tua rete di salvezza. Sei come un funambolo che sa che, se cade, ci sarà una rete ad accoglierlo. Perché la percezione degli altri nel nostro lavoro è sovrana, al di là di questo momento in cui è facilissimo mortificare le persone, farle diventare altro, ucciderle, cancellarle. Ma mi fermo perché apriremmo troppe parentesi, ho capito come siamo io e te… (ride)

Torniamo alla bellezza. Quella di Modesta, e dell’Arte della gioia in generale, è complessa, multiforme, anche scura.
È impossibile non essere incuriositi da quel libro, è un oggetto che va al di là della letteratura, ha una sua potenza che ti entra sotto pelle e che ti fa pure innervosire. Mentre lo leggi ti viene da parlarci, con Goliarda, le dici proprio: “Scusa ma non avevi detto questo, perché adesso lo scrivi!”. Ha un disordine, una disobbedienza totale a una letteratura che sembra tradizionale e invece se ne va da tutte le parti. È distratta, ritorna, si imbellisce, diventa lirica e poi improvvisamente di nuovo disordinata. E da lettore a volte ti infastidisci, però sei sempre con lei.

Anche da sceneggiatrice ti sei innervosita?
Era come stare in una corrida, quel libro ti butta sulla sella, tu stai lì e cerchi di andare e quello pam!, ti fa cadere. Dopo due anni di scrittura (insieme a Luca Infascelli, Francesca Marciano, Valia Santella e Stefano Sardo, nda), più che capire che avevo il toro in mano ho detto: “Basta, mo’ lo devo fare, e solo facendolo capirò”. Ero già caduta da cavallo mille volte, cercando di trovare il modo giusto di mettere il libro nella forma della serie, che da un lato ti permette di approfondire, sì, ma dall’altro ti costringe a tenere sempre accesa l’attenzione dello spettatore, che se no cambia canale o si addormenta. Goliarda è spregiudicata, non sempre ti spiega perché Modesta fa questo o quello, lascia l’immaginazione al lettore, e invece tu quando fai un film qualcosa lo devi spiegare, devi far restare il pubblico con il tuo personaggio, devi farglielo amare anche se fa cose non edificanti, anche se tu per primo non lo giustifichi. E quindi, quando Sky mi ha detto “Va bene così, si può girare”, non era più tanto il fatto che fossi convinta io: se gli altri dicono che va bene, io non mi incaponisco, anche perché so che poi il film lo fai di nuovo mentre lo monti, e lì puoi fare pure il contrario di quello che pensavi avresti fatto, perché il film te lo chiede. E questa è un’altra delle cose belle del nostro lavoro: alla fine il film stranamente ti somiglia sempre di più tramite gli errori che fai, e i mille passaggi attraverso gli occhi e il lavoro degli altri. È alla fine, quando ti è scappato di mano mille volte, che dici: “Oh, questo è il mio film”.

Foto: Carolina Amoretti. Total look: Miu Miu

La potenza

“Il mio film”, dice Valeria. Che a un certo punto ha deciso di ribaltare lo sguardo, di passare dall’altra parte. Ha fatto due film bellissimi (Miele ed Euforia) e ora una bellissima serie, che è solo un film «con più tempo». Si è ribaltata la sua percezione delle cose. «Anche la mia su me stessa è diversa, rispetto a quando ero solo un’attrice. Perché da attrice interpreti il punto di vista di un’altra persona, sei il veicolo delle idee e del gusto di qualcun altro, sei incaricata di qualcosa ma anche deresponsabilizzata. Sei lì in prima persona come un soldato, ma metti la faccia e il corpo per salvare o portare alla vittoria qualcun altro. Mentre se quello che fa le cose sei tu, allora tutto si acutizza: è quello che stai dicendo tu che è bello o brutto, è quello che hai deciso di mettere in scena tu che piacerà o non piacerà».

Può essere anche ubriacante, quella posizione ribaltata.
Lo è se quello che ti ubriaca è il potere. Il potere sugli altri o su un progetto. Per me è una condizione ubriacante, sì, ma non riguarda il potere. Non è l’essere a capo di qualcosa che mi interessa. Il potere lo devi gestire, e per potere intendo la responsabilità, che è una cosa interessante e anche un po’ pericolosa. A me non interessa il potere ma la potenza, la potenzialità. Tutto quello che è in potenza di essere, di diventare, di cambiare, di essere creato. Quello mi piace molto, lì trovo la gioia. Ma non lo dico io, lo dice Spinoza: la gioia è l’amplificazione del senso della nostra potenza. Così come la tristezza è la perdita di quella sensazione di potenza. Quella cosa per me è ubriacante, anche quando la vedo succedere su un’altra persona. Mi piace tutto ciò che avviene durante, non la cosa finita, risolta.

Foto: Carolina Amoretti. Total look: Prada

L’altra faccia del potere, che lo si cerchi o no, è l’autorità.
Se resisti agli anni che passano e trovi un tuo peso – chiamiamolo così – in quello che fai, sono gli altri a dirti che ai loro occhi hai un’autorità, che quello che pensi è diventato più importante, anche se tu sei quello di prima. L’autorità la acquisti anche se non la vuoi, semplicemente resistendo al tempo e diventando più vecchio. Io mi schermisco molto, di fronte a tutto questo. A me piace la leggerezza del non essere considerata, mi piace anzi essere proprio sottovalutata, soprattutto da donna. E qui porto un discorso che cerco di evitare, perché non mi piace una certa ideologia sul tema. Faccio l’attrice da quando ero giovanissima e ho avuto successo subito, cosa che reputo una grande fortuna. Ma l’essere sottovalutata mi ha sempre fatto muovere da underdog, e quella condizione mi è sempre piaciuta ancora di più. Mi piace il fatto che gli altri non si aspettino da te quello che poi farai, mi ha sempre dato grande libertà.

La disobbedienza

Prima, parlando di Goliarda, hai usato la parola “disobbedienza”. Ti ci riconosci?
No, io purtroppo non ce l’ho. Se lo fossi stata di più, forse qualcosa di inaspettato sarebbe successo. Io invece mi sono fin da subito adattata al sistema, è inutile che me la racconto. Infatti nel mio lavoro esisto, faccio parte di quel sistema. La disobbedienza ha delle conseguenze, e Goliarda le ha pagate tutte. Non era gradita a un sacco di gente, è stata socialmente bandita, persino messa in carcere. Era una disobbedienza che lei aveva per sua natura e che poi forse si è costruita nella sua testa, in qualche modo se l’è anche raccontata. Io, sia per natura sia forse per scaltrezza, non mi sono mai riconosciuta nella disobbedienza, il che non vuol dire che ubbidisco sempre agli altri. Ma ho sempre troppa attenzione verso quello che mi succede attorno, non riesco mai a ribellarmi davvero a un certo status. La disobbedienza ce l’ho solo intellettualmente, lì non sono docile. Ma nel quotidiano sono una Modesta buona: se non fosse un’assassina, Modesta sarei io. Anche lei si adatta alle cose con scaltrezza. Se disubbidisci sei messo al bando, se invece vuoi restare a galla paf!, paf!, paf!, impari a farlo.

Nessun atto di ribellione?
Nemmeno uno. Ho sempre avuto la fuga a portata di mano, quello sì, anche da piccola mi piaceva. Sono stata trasportata dai miei genitori, che si erano separati, da un Paese all’altro, non sono stata mai veramente in un posto fino alla fine. C’ero sapendo che poi forse non ci sarei più stata. Sono cresciuta con quest’idea dell’andarmene e ho continuato a farlo anche da adulta, e forse è lì che ho disubbidito: vado altrove, mi assento. La mia disobbedienza è il non esserci. Ci sono, ci sono, ci sono, e poi se c’è qualcosa che mi offende profondamente, o se arriva il disamore, a un certo punto me ne vado. È un atto non eroico, me ne rendo conto, ma è il prendere atto di qualcosa in cui non voglio più stare, e allora decido che non ci starò. Me ne sono andata in America e poi sono tornata, me ne sono andata in Francia e sono ritornata ancora. Forse è un voler essere tante cose allo stesso tempo, non appartenere completamente a nessuno e a nessun luogo.

Foto: Carolina Amoretti. Total look: Valentino

Lo sguardo

Nella conversazione con lei ed Elodie, a un certo punto Elodie ha detto quello che chiunque ha provato, quando si è trovato a parlare, per poco o a lungo, con Valeria Golino: “La guardi e in quei suoi occhi ti perdi, ci navighi dentro”. È una forma di magnetismo a sé, una disciplina innata, una forma di seduzione non studiata. «Di recente ho fatto un’intervista e poi, quando l’ho letta e ho visto come venivo descritta, ho pensato: “Ma di chi sta parlando?”. Non è umiltà o finta modestia, in tanti dicono questo di me e mi riempie pure di vanità, sono anche un po’ presuntuosa. Ma io non mi vedo in quella cosa lì, non so nemmeno chi è quella persona di cui parlano. Io non mi ricordo nemmeno più chi ero: la memoria ha a che vedere con l’identità e io non ho memoria di me, vivo nell’eterno presente di chi sono in questo momento. Tutto quello che sono stata lo so perché mi è raccontato dagli oggetti, dalle fotografie, dalle parole degli altri, ma è sempre come fosse altro da me. Sono sempre stata così, senza passato».

E senza nostalgia, direi.
È così. Per la bambina che ero provo forse tenerezza, ma non nostalgia. Se tornassi indietro, vorrei forse essere un’altra bambina, non la stessa. Sono sempre stata così, ma solo adesso riesco ad esprimere quel sentimento, ora che sto invecchiando tutto si acuisce nel bene e nel male: le tue certezze, la tua natura, diventi sempre più te stesso. Qualche volta anche troppo, e allora, appena vedi che sei troppo te stesso… via, fuggire.

Foto: Carolina Amoretti. Look: Sunnei. Shoes: Aquazzura

La fuga, ancora. Diventare regista ti ha fatto fuggire ancora di più verso gli altri, è lì che metti il tuo sguardo adesso. Nell’Arte della gioia si vede moltissimo. Parliamo di come guardi i tuoi attori.
Tecla [Insolia] la vedi anche tu com’è. Ha la potenza, la natura ferina, ma anche la vulnerabilità. È totalmente permeabile ma anche feroce. Che regalo mi ha fatto, il dio del cinema! Io la vedevo e lei vedeva me, era un continuo imitarsi, emularsi, come facevo io alla sua età. Gli attori più bravi sono quelli che diventano il loro regista, e io ho tentato di farlo sempre: certo, quando il regista è un idiota è impossibile (ride). Ma quando senti che c’è un regista che ti può dare quello che ti interessa, allora devi andare dove ti porta, e in questo Tecla è incredibile, è come una scimmia: mentre io muovevo anche solo il collo per guidarla, lei mi veniva dietro. Ma questo rapporto, che ha diversi gradi, l’ho avuto con tutti, con le femmine, con i maschi.

Ecco, parliamo dei maschi di questa storia.
Guido Caprino che lavoro ha fatto? È l’archetipo dell’uomo totale, senza però essere mai nel cliché. E Giuseppe Spata (nella serie interpreta Rocco, nda): adoro quello che ha fatto. E Lollo Franco, che fa Antonio il maggiordomo. E persino il padre stupratore di Modesta (Antonio De Matteo) ovviamente è osceno, ma non ho preso un mostro per farlo, volevo che avesse una specie di grazia, e so che capisci cosa voglio dire. Quello che sento e che mi piace molto in Goliarda è questo amore che ha per gli uomini, per tutti gli uomini. Non è mai contro i maschi. E vogliamo parlare del figlio della principessa? Giovanni Bagnasco è un altro regalo del dio del cinema, è una rockstar, è un altro che dovrebbe essere un mostro è invece quando lo guardi ti incanta, ti fa riconsiderare tutto quello che per noi è bellezza.

Valeria Golino sul set con Tecla Insolia. Foto: Valentina Glorioso/Sky

Parli dei tuoi attori come un’innamorata, e allora parlami anche di quella che è un po’ tua “sorella”, Valeria Bruni Tedeschi.
È la più grande attrice europea della nostra generazione, e mi senti come lo dico con rammarico, perché in quella generazione ci sono anch’io… (ride) Valeria è la mia amica geniale. Ma tutte le mie amiche care hanno dei tratti che vorrei avere io. Isabella [Ferrari] è la mia amica più antica, perché l’ho conosciuta a diciott’anni, quando eravamo tutte e due giovanissime ma eravamo già in questo mondo. Ancora oggi la guardo mentre mi parla e mi incanto.

Immaginare Valeria Golino che si incanta nel guardare qualcun altro è un ribaltamento interessante.
(Ride) Ma lo vedi come guardo anche Jasmine?

Lo vedo, lo vedo.
Lei è una super attrice, bellissima, e riesce sempre ad essere bravissima, ma quando siamo io e lei insieme non so cosa succede. È la terza volta che la dirigo, e quando la guardo io è come se mi porgesse un altro lato di sé. Stavo cercando l’attrice per Leonora e una mattina, mentre dormicchiavo, ho pensato: “Ma che cazzo sto a fa’, ma è Jasmine!”. Che è scura, ha gli occhi neri, è romana e non siciliana: ma era lei. Mi è proprio entrata in sogno, lei e il pericolo che porta, quella fragilità pericolosissima, quella bellezza danneggiata.

Foto: Carolina Amoretti. Total look: Prada

Ancora lo sguardo.
Quella è la gioia. È un lavoro usurante, quello con gli attori, ma anche il più bello del mondo, perché si basa sul romanticismo dei rapporti. Quello è il problema di questo momento politico. Non si può levare l’eros dai rapporti, e non parlo ovviamente di abuso di potere. Ma per me l’eros – non la sessualità: l’eros – è una componente troppo importante di questo lavoro.

Gli altri

Mi viene in mente una chiacchierata che ho fatto quest’autunno con Jacques Audiard, in cui lui diceva più o meno la stessa cosa: “Nel momento in cui sullo schermo appaiono i volti delle donne e degli uomini, c’è sempre un’erotizzazione dello spazio. […] Il cinema è una macchina libidica, è ciò che permette di riconoscersi in certe cose. Il veicolo del cinema è sempre la libido”. «È esattamente questo. E se lo vuoi regolamentare, allora vedi la salma gelida di Eros sul pavimento. Ci sono cose che possono essere regolamentate e altre che diventa un parossismo anche solo parlarne».

È il tuo modo di fare politica, se capisci cosa voglio dire.
Forse. Ognuno deve fare il suo in buona fede, anche dissentire. Ognuno deve fare la sua parte e cercare di lasciare traccia di qualcosa. E non è ribellione o provocazione, che sono cose che non so dove stanno di casa. Oggi ci sono registe che sono ideologiche, provocatorie, e che sono bravissime, vedi quella di Titane (Julia Ducournau), che è una gigantessa. Guardavo il suo film e pensavo “Ammazza”, e non sapevo nemmeno se era bello o no, a tratti era bellissimo e altri meno, ma quella roba lo vedi che lei la sa fare, è nella sua natura. Io invece non la so fare, perciò ho questo stupore assoluto verso l’altro da me, soprattutto quando ti fa cambiare idea.

Foto: Carolina Amoretti. Look: Loewe. Shoes: Sportmax

A te chi fa cambiare idea?
Gli interlocutori che scelgo nel mio lavoro, per esempio. Tu come regista devi prendere prendere prendere e poi difenderti difenderti difenderti. È un balletto. Prendere dagli altri quello che ti possono dare e poi difenderti quando quello che sta succedendo non è congruo con il tuo immaginario. Io scelgo sempre interlocutori contraddittori, il mio montatore (Giogiò Franchini), gli sceneggiatori, il direttore della fotografia (Fabio Cianchetti). Non prendo mai persone che sono completamente dalla mia parte, non voglio avere yesmen attorno.

Il bisogno di continue conferme su quello che siamo e che facciamo è il grande limite del nostro tempo.
In questo siamo agevolati, o limitati, da internet, che è ormai il luogo del non dissenso. Vuoi trovare solo cose che confermino il tuo pensiero, sapere che quello che dici tu è giusto e l’altro è ’no strunz’. Forse una delle tante ragioni per cui non ho i social è anche questa. Per come sono fatta io, andare a cercare conferma che quello che penso è giusto non mi sembra interessante. E poi non voglio che, appena faccio una cosa, qualcuno mi venga a dire se ho fatto bene o male: tanto lo fanno comunque, ci sono migliaia di persone che penseranno che sono nel torto, o che sono una scema, o una vecchia pazza. Non so quello che pensano gli altri di me e voglio continuare a non saperlo. Voglio poter fare una cazzata e anche pagarne le conseguenze, ma non dev’essere l’opinione degli altri a indurmi a fare una cosa oppure no, soprattutto quando si parla di progetti artistici. Diverso è il discorso sulla critica cinematografica, che può essere molto interessante: ti fa capire delle cose, ti fa vedere anche i difetti che magari sapevi che c’erano ma non te li eri formulati per proteggerti.

Foto: Carolina Amoretti. Look: Sunnei. Shoes: Aquazzura

La contraddizione

Abbiamo preso mille strade che mi sembrano però le declinazioni dello stesso discorso.
È un discorso pieno di contraddizioni, sì, ma penso sia la dinamica di tutti gli artisti. Esiste il diritto a contraddirsi. Nell’Arte della gioia a un certo punto ho fatto dire a Valeria Bruni Tedeschi una frase che non è di Goliarda ma di Baudelaire: “Avrò il diritto di contraddirmi? Avrò il diritto di andarmene?”. E se ci pensi, io in questa chiacchierata con te ho parlato tanto di andarmene, e però resto sempre qui. Mi sono contraddetta mille volte. Nell’Arte della gioia ho messo tantissime cose che non erano di Goliarda, anche se il libro era già pieno come un uovo. L’ho spogliato di tante cose e ne ho messe altre che non sono sue ma gli somigliano. Ho pensato: “Goliarda avrebbe potuto dire questo? Sì, e allora lo metto”.

Oppure lo puoi dire direttamente tu, che di questa nuova Arte della gioia sei l’autrice.
Sì, lo posso dire io. Tante delle cose che stanno nella serie sono storie mie, non di Goliarda, eppure lì ci stanno come il cacio sui maccheroni. Così come ho preso tante cose di Goliarda che non facevano parte dell’Arte della gioia ma di lei, della sua vita. Questa è la cosa che mi dà più gioia, il rimescolio delle idee che passano da una persona a un’altra e diventano simili ma non troppo, e poi però finiscono per risomigliarsi. A me è successo mille volte nella vita: conoscere persone che ti dicono qualcosa e quelle loro parole ti rimangono nella testa, e poi tu le rimetti in mostra da qualche altra parte perché ormai sono diventate tue. È l’appropriazione debita delle idee, ed è una cosa bellissima.

La gioia

A Roma continuano a strillare i gabbiani, e noi ci ritroviamo a parlare di amore, di matrimonio, ancora di restare, di andare, ma dove. E alla fine arriva di nuovo la gioia, che è un lampo, come Valeria diceva all’inizio. E lì si chiude tutto. Si definisce, anche se a lei piace l’indefinito. «Natalia Ginzburg ha scritto quella commedia bellissima che è Ti ho sposato per allegria. Ecco, l’allegria è la quarta parente, se quelle lì sono parenti. Allora, secondo me sarebbe così: allegria, euforia, gioia, felicità. Sono tutte collegate da dei ponti. Solo che quello tra l’allegria e l’euforia è un ponticello, quello che dalla gioia porta alla felicità è un ponte lunghissimo».

***

CREDITS

Photographer: Carolina Amoretti
Art Director: Alex Calcatelli per Leftloft
Producer: Maria Rosaria Cautilli
Fashion Editor: Francesca Piovano
Makeup Artist: Nicoletta Pinna
Hair Styling: Roberto D’Antonio
RS Graphic Designer: Stefania Magli
Video Production: Simone Durante
Studio Assistant: Gabriele Camponi
Photographer Assistant: Carlotta Ricci
Fashion Editor Assistant: Lavinia Bozzini

Leggi altro