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Valerio Piccolo e ‘Parthenope’, non era già tutto previsto

‘E si’ arrivata pure tu’ del cantautore campano , ma «prima di tutto un cinefilo» , formatosi tra Roma e New York è stata scelta da Paolo Sorrentino per il suo ultimo film. Che per lui è diventata la storia di un ritorno a casa: «Questa canzone mi ha un po’ fregato». Ecco perché

Foto: Gianni Fiorito

Ha ragione Gary Oldman, quando dà voce allo scrittore John Cheever e dice che il silenzio nei belli è un mistero, ma nei brutti è un fallimento. Spesso vale anche per i film: alcuni si elevano nella bellezza del silenzio, altri si incipriano con troppa musica. E il tappeto sonoro di Parthenope di Paolo Sorrentino è composto perlopiù da silenzi, squarciati dal rumore del mare, dal garrito dei gabbiani, dal frusciare di un foulard che poi cade, anche quello, e resta solo il tintinnio del tesoro di San Gennaro su un corpo nudo di papessa. Allora quando la musica arriva sembra quasi una grazia, prima con Frank Sinatra e Gino Paoli, poi con le percussioni del Trio Ternura, con gli archi e il sax di Enzo Avitabile e, neanche a dirlo, con quel giro di piano del ’75 che era già tutto previsto, certo, ma quando ti piomba addosso nel buio di un cinema diventa un’altra storia ancora, e quel Cocciante non sarà mai più lo stesso.

Non era facile inserirsi qui, accanto a un silenzio ferocemente bello e a un Olimpo ferocemente solido. A guardare la scena della canoa, quella in cui Parthenope rema su Napoli accompagnata dal brano originale del film, E si’ arrivata pure tu, viene da pensare che immagini e musica siano state partorite insieme. Da Cocciante a Valerio Piccolo, sta tutto nel malinconico battito di ciglia di Celeste Dalla Porta: la stagione della giovinezza ha ceduto il passo a quella dei fantasmi e della nostalgia. «Paolo Sorrentino è questo, non è solo un premio Oscar e un regista magnifico, è un vero cultore della musica. Ed è il massimo che può capitare a un musicista», mi dice Piccolo, vent’anni di formazione tra New York e Roma, cantautore di origine casertana che però, dentro quelle origini, non aveva mai scavato troppo. A casa sua si parlava solo italiano, niente dialetto, e anche la musica suonava internazionale, con Sinatra e Duke Ellington. Solo adesso, insieme al nuovo album Senso, è nato un primo brano in napoletano. Sorrentino l’ha ascoltato e ci ha visto dentro una scena. Piccolo ha visto Parthenope e qualcosa è cambiato: «Chi se ne va, forse ha problemi con l’amore. La verità è che questa canzone parla di un ritorno a casa e mi ha un po’ fregato».

La prima clip ufficiale del trailer realizzato per Cannes è arrivata a sorpresa. Era la scena con il tuo brano.
Eravamo a Cannes, mi stavo mettendo lo smoking, e già questa per me è un’operazione non abituale. Mancavano due o tre ore, fino a quel momento non avevo visto niente del film, poi hanno iniziato ad arrivarmi i messaggi: “Che bella la scena”. Così ho scoperto che avevano fatto girare quest’unica clip.

La prima volta che hai visto arrivare la tua canzone nel film?
Vederla liberata su uno schermo enorme in mezzo a tutta quella gente è stato il genere di cosa che uno non si scorderà mai. È una canzone che ho tenuto in grembo per tanto tempo, tra la genesi del brano e il debutto a Cannes il tempo è passato. Io sono prima di tutto un cinefilo, questa roba rappresenta un triplo salto mortale e un ritorno nel posto dove sto più comodo, tra musica e cinema.

L’immaginario della tua giovinezza si è formato in un cineclub di Caserta, e il colpo di fulmine per Sorrentino è arrivato con L’uomo in più. Avevi mai pensato a un tuo brano in un suo film?
In realtà no, per un semplice motivo: la musica nei suoi film è perfetta. Paolo è questo, non solo un premio Oscar e un regista magnifico, ma un vero cultore della musica. Lo dimostra anche il fatto che ha scelto un semisconosciuto e lo ha messo in compagnia di Frank Sinatra, Riccardo Cocciante e Gino Paoli. Non sapevo stesse girando un film su Napoli, ma quando ho finito di scrivere il brano ho pensato subito a lui. Questa è la mia prima canzone in napoletano dopo anni in America, e penso davvero che le canzoni abbiano vita propria: sono loro a dirti dove vogliono andare.

E tu come hai detto a Sorrentino che la canzone voleva andare da lui?
È stato quasi casuale. A un certo punto, quasi senza organizzarci, l’ha ascoltata.

Dove eravate?
In un posto che tengo per me. Un posto in cui ha potuto ascoltarla direttamente suonata da me. Quei giorni era in montaggio, evidentemente ci ha visto dentro una scena. Il resto è stato immediato, mi ha detto subito di lavorarci.

Valerio Piccolo. Foto: Renato Marcialis

Nell’album appena uscito, Senso, c’è anche una guitar version del brano. Sorrentino è intervenuto sull’idea iniziale?
Ha fatto una cosa molto bella, ha mescolato le due versioni che avevo composto. Il brano è nato chitarra e voce, poi il mio produttore Pino Pecorelli – che ha prodotto il disco uscito insieme al film – ha avuto un’intuizione per un altro arrangiamento, una versione pianoforte e archi che trovo molto lirica. Paolo ha voluto fonderle: i due minuti e mezzo che ci sono nel film sono inediti e creati da lui. Trovo molto bello il passaggio improvviso da chitarra e voce al pianoforte, è un bellissimo crescendo nella scena. Intendo questo, quando parlo di un regista che ha un tocco così chiaro e competente sulla musica. È il massimo che può capitare a un musicista.

Accanto al tuo brano originale, ci sono giusto un paio di mostri sacri: Sinatra, Paoli, Cocciante.
Era già tutto previsto sta già vivendo una seconda vita. Che succede in casi come questo? Certe volte la magia è già compiuta nella canzone. Quando parte quella di Cocciante, se la sai trattare come fa Paolo, l’impatto è inevitabile. L’armonia dei passaggi di Cocciante è forte fin dall’inizio, la prima frase di questo pezzo è già tutto. E questa roba emoziona, perché pur sapendo che arriverà, ti coglie di sorpresa. Quando a un pezzo così forte regali un’immagine così potente, lo rendi ancora più immortale e lo leghi per sempre a Parthenope.

Vivere da songwriter a New York: la realtà è all’altezza dell’immaginario?
Nei primi Duemila era ancora così. Sono entrato subito in un circolo di songwriter perché ero amico di Suzanne Vega. Avevo collaborato alla traduzione del suo libro e avevamo fatto un duetto, come si chiamavano all’epoca. Sono andato a suonare nei locali “da americano”, ho frequentato posti in cui avevano suonato Joni Mitchell e Bob Dylan, e fa effetto entrare in questa roba qua, anche se chiaramente non è più quella degli anni Settanta.

Celeste Dalla Porta e Gary Oldman in ‘Parthenope’ di Paolo Sorrentino. Foto: Gianni Fiorito

L’immagine più alta?
Ricordo la casa di Jack Hardy, storico samurai del Village. Per cinquant’anni, una volta a settimana, faceva questo “songwriter exchange”: tutti gli artisti del gruppo andavano in un appartamento sgarrupato del Village dove c’erano un pianoforte fisso e una chitarra che ci si passava di mano in mano. Ognuno componeva una canzone scritta nell’arco della settimana, e poi se ne parlava tutti insieme.

L’immagine più bassa?
Qualche serata in cui sono venute davvero poche persone. Pensare che in una città piena di persone ne vengano così poche ad ascoltarti ti avvilisce. Succede, è successo a tutti, succede anche in Italia. Ma è diverso se ti succede in una città complicata e massacrante come New York, quando ti sei fatto un culo esagerato per tirare fuori le energie. Sono tutti lì e tutti sgomitano per riuscire ad emergere.

Oltre alla carriera musicale, hai tradotto e adattato i dialoghi di circa 350 film di grandi registi, tra cui Clint Eastwood, Steven Spielberg, David Lynch, Quentin Tarantino, Roman Polański. È sempre una questione di ritmo?
Sì, ed è l’altra grossa metà della mia vita, da cinefilo mi sembrava il lavoro destinato a me. Ci sono due cose che ritrovo e riporto a livello osmotico tra musica e adattamento: la manipolazione delle parole – allungarle, stringerle – e il senso del ritmo. Perché questo è un lavoro che si fa solo se hai un forte senso del ritmo, non bastano le qualità traduttive. C’è bisogno di entrare nello spirito musicale dell’adattamento per restituire l’illusione e l’inganno, per far credere allo spettatore che Bradley Cooper parli un perfetto italiano.

Il film più assurdo che hai curato?
Tanti, e sono quelli più stimolanti. Alcuni sono complessi a livello linguistico, penso a Ogni cosa è illuminata di Liev Schreiber. Altri sono difficilissimi a livello tecnico, magari perché gli attori parlano sempre in gruppo e con registri differenti, e penso a The Social Network di Fincher o Straight Outta Compton, con i rapper che parlano tutti insieme in slang.

Hai detto che il tuo rapporto con Napoli non è stato profondo e lineare, perché?
A casa mia non si parlava napoletano, si parlava italiano. Mio padre ascoltava Sinatra e Duke Ellington, non la canzone napoletana.

In Parthenope ci sono personaggi come quello di Luisa Ranieri che fanno a pezzi Napoli, perché la città li ha traditi, e altri, come quello di Silvio Orlando, che vivono dichiarandole amore. Con questo film e con questa prima canzone in dialetto, in qualche modo torni a casa anche tu: il tuo rapporto con Napoli dove si colloca oggi?
Bella domanda. Innanzi tutto perché l’amore di Sorrentino per Napoli è in tutto, anche nella parte di Luisa Ranieri: una dichiarazione d’amore ferito, che mi ha fatto immediatamente pensare al “Fuck you” di Edward Norton nella 25ª ora. Chi se ne va forse ha problemi con l’amore. Silvio Orlando resta tutta la vita con Napoli e con il figlio, forse perché ama veramente. La verità è che questa canzone parla di un ritorno a casa e mi ha un po’ fregato. Mi sta forzando a scavare là dentro, e infatti sto già scrivendo altro in napoletano. Sento un richiamo diverso che non ho mai sentito.

Hai trovato la risposta alla grande domanda di questo film? Tu ami troppo o troppo poco?
Io amo troppo.

Ci avrei scommesso.

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