Veleno è stato il primo podcast di successo in Italia e, dopo un libro edito da Einaudi nel 2019, oggi si appresta a prendere forma anche in tv. Il 25 maggio, infatti, arriva su Amazon Prime la docuserie ispirata all’audio-inchiesta di Pablo Trincia e Alessia Rafanelli uscita nel 2017 per Repubblica, e che – in sette puntate più una “speciale” successiva – ricostruiva il caso giudiziario dei “Diavoli della bassa modenese”. Era il 1997, quando nei paesi emiliani di Mirandola, Finale Emilia e Massa Finalese, sedici bambini furono tolti ai genitori per presunti abusi e riti satanici. Venti anni dopo, l’inchiesta di Trincia metteva in dubbio l’intera vicenda in virtù di nuove, scioccanti rivelazioni. In contrapposizione alla ricostruzione del podcast, negli anni si sono poi alzate le voci delle famiglie affidatarie e di alcuni dei bambini coinvolti, ormai adulti. La serie di Amazon (ri)parte da quei fatti e da queste voci “di protesta”. Cinque episodi, prodotti da Freemantle, curati da Ettore Paternò e sceneggiati e diretti da Hugo Berkeley, a cui Trincia ha preso parte come collaboratore.
Per prima cosa, Trincia: perché dopo un podcast e un libro, era necessaria anche una serie televisiva su Veleno? Che cosa aggiunge rispetto a quanto (non) sapevamo già?
Dà un volto a dei protagonisti che non avevamo mai visto e fa vedere luoghi che avevamo solo immaginato. È la terza via, quella della prospettiva visiva. E poi racconta un finale diverso. È passato del tempo e ci sono dei protagonisti che qui parlano per la prima volta, come la psicologa Valeria Donati.
Perché adesso parlano e prima no?
Ah, bella domanda. Alcune ragazze si erano lamentate “Trincia non ci ha dato voce”, ma in realtà erano loro che non volevano parlare. Io avevo contattato tutti. Forse certe persone hanno sentito l’esigenza di dire la loro perché la storia che prima era solo ‘sussurrata’ è diventata pubblica.
Magari, all’inizio, neanche si capiva che cosa fosse un podcast.
Può darsi! Ancora oggi lo devo spiegare: la settimana scorsa ero in Toscana a fare delle interviste e molti mi chiedevano ‘un podcaste, ma che l’è?’”.
La novità della serie è anche che i protagonisti poi quel racconto lo hanno sentito. E mentre alcuni dicono “mi ha fatto venire il dubbio”, altri accusano di aver minato la credibilità delle vittime.
Ma non sono io ad aver gettato discredito sulle loro testimonianze, è stata la magistratura a farlo prima di me: sono stati i tribunali ad assolvere alcuni accusati perché non riteneva credibili certe testimonianze, non io.
Altre volte le ha ritenute credibili, però. E parliamo degli stessi testimoni.
Infatti è questa la cosa strana, per non dire altro. Lo stesso testimone a volte viene creduto, a volte no. Ma chi decide che cosa è vero e che cosa no di ciò che una persona racconta? Un testimone o è credibile sempre o non è credibile mai, penso.
Sei stato definito senza mezzi termini un “negazionista di abusi”.
Mi fa sorridere perché chi mi conosce sa che cosa ho fatto in passato, su questo stesso argomento: le mie inchieste alle Iene sul Vaticano, sui preti ecc…. Io qui ho solo acceso i riflettori su quelle che per me e molte persone prima di me erano imprecisioni e anomalie: chi mi accusa di fatto accusa tutte quelle persone che muovono dei dubbi.
La serie rispetto al podcast risulta un po’ meno manichea, sull’onda – forse – del documentario SanPa di Netflix. Questa scelta preponderante di obiettività non impedisce di trovare una verità, alla fine?
Io la storia l’avevo presa da un angolo diverso, è vero. Dopo essermi documentato ho deciso che ne avrei dato una mia interpretazione. Tuttavia, anche se la serie sembra un po’ più garbata nei modi, a guardarla ci si accorge che c’è una roba strana dentro. La testimonianza sui falsi ricordi di una professionista come Giuliana Mazzoni un dubbio te lo fa venire. In altre parti del mondo la storia si è ripetuta uguale, può davvero essere solo una coincidenza?
La serie finisce per fare inevitabilmente anche un collegamento con la vicenda di Bibbiano, che è successiva al podcast.
Gli investigatori di Bibbiano mi hanno detto di avere utilizzato Veleno come materiale di studio mentre facevano le indagini, perché ha dato loro una prospettiva diversa della storia. E qui le prospettive sono fondamentali.
Detta così è un po’ inquietante.
Ma la magistratura è fatta di persone. Ci può essere il giudice che si accanisce contro alcune persone perché si convince che siano colpevoli e un altro che invece si fa delle domande diverse. È successo anche qui: hanno indagato tre diverse procure – Modena, Reggio Emila e Mantova – e due su tre hanno detto che la storia non aveva senso. Solo Modena è stata più unidirezionale sulle accuse. È la dimostrazione che purtroppo dipende da chi ti capita e da che tipo di domande si fanno i professionisti.
Veleno avrebbe potuto essere una serie televisiva sin dall’inizio?
Io dopo aver trovato tutto il materiale video ci avevo provato, ma poi per fortuna non si è concretizzata.
Per fortuna?
Perché alla fine è stato giusto farlo prima così, entrando nella storia solo con l’audio, che è più discreto, e anche più esaustivo.
Veleno è stato il primo podcast di successo in Italia. Quali sono, secondo te, i vantaggi del formato?
Ha il vantaggio che si infila nei momenti morti della giornata e per questo ha una prateria incontrastata. L’unico limite è quello linguistico, perché non puoi tradurlo all’estero. In più, però, nessun film o regista può competere con il prodotto della tua immaginazione, con ciò che pensi quando ascolti una storia ben raccontata. È un fascino senza tempo che tutti stanno riscoprendo.