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Vent’anni di ‘Quasi famosi’

Il regista Cameron Crowe ricorda le sue interviste alle leggende del rock per 'Rolling Stone', racconta la proiezione del film per i Led Zeppelin e riflette sul perché sia ancora un cult

Foto: Neal Preston/Dreamworks Llc/Kobal/Shutterstock

Quando Jerry Maguire ha incassato più di 270 milioni di dollari nel 1996 ed è stato nominato per cinque Oscar, Cameron Crowe ha finalmente avuto la libertà di realizzare il suo film più personale: una cronaca delle sue avventure nei primi anni Settanta come giovanissimo giornalista per Rolling Stone, quando ha intervistato artisti come David Bowie, Led Zeppelin, Joni Mitchell e tanti altri. «Jerry Maguire mi ha dato credito», ricorda Crowe al telefono dalla sua casa di Los Angeles. «E ho pensato: “Lo userò, perché non sarò mai più in grado di fare questo film se non adesso. È una storia dolorosamente personale e cercherò di non spendere troppi soldi”».

Quasi famosi è uscito in sala nell’autunno del 2000 e, nonostante il plauso della critica e quattro nomination agli Oscar, ha fatto flop al botteghino. «Tutti sono andati a vedere la riedizione dell’Esorcista», spiega Crowe. «Il braccio lungo del 1973 era tornato per schiaffeggiarci». Vent’anni dopo, però, Almost Famous è diventato non solo un classico di culto, ma uno dei film più amati della sua epoca. «Eravamo underdog che hanno raccolto consensi nel corso degli anni», afferma. «Il film non è mai stato popolare come in questo momento».

Crowe ha lavorato a un adattamento per Broadway. E, in questi giorni che Quasi famosi compie 20 anni, lo scrittore e regista si guarda indietro con un misto di nostalgia e orgoglio: «Ho pensato semplicemente: “Ho la possibilità di girarlo, come ho avuto quella fare giornalismo, e voglio sventolare una bandiera per tutte le persone che mi hanno aiutato e hanno aperto la strada a un amante della musica come loro”. Penso che il pubblico lo abbia scoperto e ci abbia visto il proprio amore per la musica: è quello che mi rende più orgoglioso».

La stragrande maggioranza dei film che si definiscono “rock” non lo comprendono nemmeno lontanamente. Immagino che le persone inizialmente fossero scettiche nei confronti di Quasi famosi.
Peter Frampton ricorda che ridevamo di tutte le persone che cercavano di fare un film sul rock da un punto di vista autentico. Era come un gioco di società, bastava copiare tutti i titoli che non avevano mai avuto successo. Quindi quando gli ho detto: «Vieni a lavorare con noi in questo film, parla di crescere nella cultura rock nel 1973», lui ha risposto: «Cosa?! Sei diventato uno di loro! Proverai a catturare qualcosa che è impossibile afferrare!».

Quel discorso mi è rimbalzato nella testa per tutto il tempo delle riprese, ma ero sicuro che il cuore mio e dei miei collaboratori fosse al posto giusto. Non stavamo facendo un film sull’abuso di droghe e sugli eccessi da rockstar. Ci sono troppi lungometraggi che ci provano. Ho anche pensato che il film dei Mötley Crüe (The Dirt del 2019, nda) fosse buono in questo senso. Credo che Machine Gun Kelly abbia davvero catturato l’anarchia rock. Ma Quasi famosi non è mai stato questo. Parla di innamorarsi della musica in tenera età, quando non sei ancora sicuro di chi saranno i tuoi amici nel mondo, ma sono proprio quei dischi a essere tuoi amici. E poi vai là fuori e incontri persone che amano quegli stessi album, e con i quali condividi tutto. È un’esplosione di sensazioni di appartenenza. E quello era il timone di Quasi famosi.

Quasi famosi è uscito in un periodo di film per adolescenti e lungometraggi d’azione ad alto budget. Ti sei mai sentito controcorrente?
Assolutamente. Non è stata una sorpresa quando il film non è andato bene al cinema. Ma l’idea era che questo fosse un omaggio, dopo e grazie al successo di Jerry Maguire. Steven Spielberg stava iniziando alla DreamWorks e ha detto: “Spara tutto quello che vuoi dire”. E poi quando abbiamo perso Brad Pitt (che era stato scelto originariamente per il ruolo di Russell Hammond, nda), non c’era nessuna pressione per trovare un’altra star. Spielberg ha deciso: “La sceneggiatura è la star”.

Sì, era un’anomalia. Pensavo che sarebbe successo solo una volta, ed è per questo che cercavo di rendere ogni performance il più vicino possibile a quella dei miei sogni, perché non pensavo che avrei avuto la possibilità di fare un altro film del genere. Ed è così. È davvero una bella domanda, perché mi sembra ancora un miracolo che siamo riusciti a girarlo in quel modo e con quelle persone.

Kate Hudson e Cameron Crowe sul set di ‘Almost Famous’. Foto: Neal Preston/DreamWorks Pictures


Mentre facevi quelle interviste per Rolling Stone ai tempi, hai mai pensato che sarebbero diventate un grande film?
Mai. Perché il mio sogno allora era scrivere su Rolling Stone, e mi pareva incredibile anche solo pensare di firmare addirittura una cover story. Poi si è avverato tutto oltre ogni mio possibile desiderio. Non ho mai pensato (con voce impostata, nda): “Un giorno tutto questo diventerà un film autobiografico, che rifletterà proprio su questo momento storico”.

Ho lavorato a un memoir di quei primi giorni a San Diego e ho ritirato fuori dai cassetti tutte le mie cose. Ho trovato questo taccuino del 1973. Era pieno di roba tipo: “Intervista telefonica a Jimmy Page. John Prine, Bonnie Raitt”. Ogni giorno mi sentivo come un bambino in un negozio di caramelle a poter intervistare tutti quegli artisti di cui amavo follemente la musica. Ogni giorno avevo la fortuna di rappresentare tutti i fan come me. E a volte il ritorno non era granché. Alcuni dei capo redattori di Rolling Stone, per quanto gentili al riguardo, mi prendevano da parte e dicevano: “Dovresti scrivere di chi non ti piace. Mettiti alla prova. Vai a scrivere di qualcuno di cui non ti interessa la musica e fai pratica con un ritratto di quel tipo”. E io ho sempre risposto: “Ma perché perdere tempo con qualcuno che non mi interessa? Un altro, da qualche parte nel mondo, ci terrà a fare quell’intervista. Quindi mandate quella persona”. E questa era una conversazione che si ripeteva spesso.

Ma non li hai semplicemente lodato quegli artisti. Spesso facevi loro domande piuttosto difficili.
Se sfidi qualcuno come Joni Mitchell, più le fai domande anche spinose, ma che rispettino la musica, più lei è contenta. Sono felice che questo ti abbia colpito, perché sono sempre stato orgoglioso delle mie ricerche. C’erano un sacco di persone che scrivevano di musica, specialmente allora – molte meno oggi – che ne dubitavano. Tante persone hanno distrutto i Led Zeppelin. Quindi la band avrebbe aperto una rivista rock, incluso Rolling Stone, e qualcuno di loro non l’avrebbe capito. Quando vedevano qualcuno con un bel taccuino spesso e un milione di domande scritte a mano, dicevano: “Ok, beh, abbiamo una possibilità che conosca la nostra musica”.

Negli anni Settanta è successo qualcosa di così folle che non sei riuscito a metterlo nel film?
Ci sono molte cose che non sono accadute nel 1973, ho messo insieme un po’ di fatti di quel periodo. Non mai ho guidato fino ai 18 anni. Ero un po’ nervoso all’idea perché avevo avuto un incidente da piccolo, non me la sentivo. Perciò quando ho intervistato Bowie per la rivista e per Playboy, mi scarrozzava lui in giro. Rimaneva sveglio tutta la notte a registrare Station to Station e poi, a bordo di una Volkswagen gialla, mi accompagnava nel traffico mattutino a casa del fotografo Neal Preston, dove alloggiavo.

Mi guardavo intorno e c’era David Bowie coi capelli rossi seduto dentro un Maggiolino giallo, in coda accanto agli avvocati diretti al lavoro. E nessuno sapeva che era lui. Dicevo, “Guarda! Guarda! Guarda! È lui! È davvero lui!”. So che non è un eccesso rock, ma è qualcosa che non ti aspetteresti mai. Cose del genere sono successe spesso.

Ho anche riascoltato alcuni dei nastri dell’intervista a Bowie, nel corso della quale lui scrive una canzone per mostrare al giornalista di Rolling Stone come si fa. E c’è un brano su questo nastro che nessuno ha mai sentito prima e che ha composto per spiegarmi il suo mestiere. Non darò mai quei momenti per scontati.

In una prima bozza della sceneggiatura intitolata Ricky Fedora, avevi scritto un ruolo per David Bowie. Il personaggio non è finito nel film, ma stavi ancora cercando di utilizzarloper un nuovo progetto quando Bowie è morto.
Sì. E quel copione c’è ancora – devo solo trovare chi interpreterà David Bowie. In realtà ci stiamo lavorando (ride). Sono tornato sul personaggio e ho scritto una sceneggiatura per lui. Vedremo. Forse ci aiuterà dall’aldilà, ci guiderà nella giusta direzione.

Mentre facevi quelle interviste e venivi scarrozzato da una rock star, come hai convinto tua madre a farti uscire di casa?
Si fidava di Neal Preston, sapeva che lui si prendeva cura di me. Era anche a conoscenza del fatto che lui fumasse erba. E questo la turbava, ma sapeva che se Neal fosse stato nei paraggi, ci sarebbe sempre stato un fratello maggiore che si preoccupava per me. Come ha sempre fatto.

È grazie a lui se ho una carriera in questo momento, perché è andato alle Hawaii e ha recuperato i miei nastri degli Allman Brothers. Senza quell’incidente, Quasi famosi non sarebbe mai esistito. Non ci sarebbe stata nessuna carriera da scrittore, davvero. O forse sì, ma di certo non a Rolling Stone. Ben Fong-Torres mi avrebbe licenziato, lasciando i nastri a Greg Allman, che li avrebbe presi e sarebbe scomparso.

La storia dei nastri degli Allman Brothers è presente nel musical, ma non nel film. Alison, la fact checker, chiama la band per confermare i loro virgolettati. Era una cosa che succedeva al vecchio Rolling Stone?
Sì, amico. Non gli piacevo molto. Perché registravo David Bowie che mi accompagnava a casa la mattina. Gli facevo domande, non perdevo tempo. Ma queste registrazioni non sono di grande qualità in questo senso. E se ci fosse stato qualcosa di grosso, ma confuso nel rumore, avrebbero messo tutto in discussione: “Non lo riesco a sentire mentre dice quella cosa”. E io avrei risposto: “Fidati di me! L’ha detto!”.

Sono stati parecchio duri. Perché il mio metodo era poco ortodosso. Voglio dire, Ben Fong-Torres andava in tour, sulla strada, e Grover Lewis era uno da giornalismo immersivo. Ma i fact checker non sono mai stati contenti della qualità grezza e organica dei miei appunti. C’era anche un po’ di discriminazione generazionale, credo. Non dall’alto. Jann è sempre stato fantastico, e Ben, Tim Cahill, Paul Scanlon, Harriet Fier sono stati super. La prima squadra. Ma sembrava che i fact checker si alleassero sempre contro me.

Quali sono le principali differenze tra te e William Miller, il tuo alter-ego nel film?
Per compensare la differenza di età a scuola, a volte ero il clown della classe. Oppure provavo a dire cose oltraggiose per cambiare discorso. C’è un outtake nel film, dove stanno importunando il piccolo William Miller perché non ha i peli pubici. Gli chiedono: “Dove sono?”. Mi è successo davvero. Ricordo che mi accerchiavano in palestra e negli spogliatoi. Rispondevo: “Li avevo. Li ho rasati!”. E tutti iniziavano a ridere, tranne l’unico ragazzo che voleva terrorizzarmi. Ma l’umorismo ha alleggerito il mio essere troppo giovane.

Dubito di essere stato poetico come Patrick (Fugit, che interpreta Miller, nda) in termini di comprensione di quel mondo e di sentirne la meraviglia. Patrick lo interpreta benissimo. È solo qualcuno che cerca di adattarsi, che trova un posto nel mondo in cui inserirsi. Questo è il personaggio.

È assurdo che il nome originale di William Miller fosse Scott Stevenson.
È divertentissimo. Scott Stevenson suona come un ragazzo che non parlerebbe mai con William Miller a scuola. Non credo di essere mai stato Scott Stevenson, ma mi sento William Miller. Guarda come una decisione sbagliata può costarti tutto. Raramente hai la fortuna di avere un nome come Jeff Bebe. È raro.

Patrick Fugit è stata una delle ultime persone che hai scelto del cast. Com’è stato ingaggiare te stesso?
È stato davvero imbarazzante. Voglio dire, Joseph Gordon-Levitt è entrato ed era probabilmente un po’ vecchio per la parte all’epoca, ma è davvero bravo. Le persone che fanno il provino sono consapevoli di interpretare un personaggio basato su di te e ti studiano mentre parli con loro. È come guardarsi in uno specchio non attendibile, è un po’ imbarazzante per tutti.

E ovviamente vuoi anche un attore che abbia l’età giusta. È successo un paio di volte che gli anni fossero fondamentali, il ragazzino di Jerry Maguire è un altro esempio. Ti mostrano cose che hai dimenticato, perché non hai più quell’età. Patrick ce l’aveva. E il regalo più grande è stato il fatto che si stava innamorando di Kate Hudson mentre girava il film. Il punto era quello: io volevo davvero una ragazza, volevo che qualcuno mi notasse. Guardare Patrick recitare mi ha fatto tornare a galla tutti quei desideri. Stai vicino alla camera e dici: “Oh, mio ​​Dio! Grazie al cielo abbiamo un ragazzo che non è mai stato in un film prima d’ora, e che si innamora in tempo reale”. Voglio dire, è allora che diventa un po’ un viaggio, ma è molto soddisfacente.

Frances (McDormand, che interpreta la madre di William, nda) ha mandato in corto circuito tutta quella roba. Ha centrato mia madre all’istante. Diceva: “Ehi, questi non sono scacchi tridimensionali. Non sto interpretando me o te, ma un personaggio di nome Elaine. fatti da parte”. È l’unica che abbia mai visto mettere mia madre in riga.

Nel film ci sono diverse canzoni dei Led Zeppelin. Sei volato a Londra per farlo vedere a Jimmy Page e Robert Plant. Qual è stata la loro reazione?
Sapevamo che avremmo corso un rischio. C’erano quattro canzoni dei Led Zeppelin. Il produttore della colonna sonora Danny Bramson si è assicurato che la comunicazione fosse buona. Andavamo da loro con la coda tra le gambe. Avevamo programmato l’incontro per l’unico giorno dell’anno in cui Jimmy e Robert si trovavano, riascoltavano i nastri e parlavano degli affari dei Led Zeppelin. Alla fine di quella giornata, sono venuti a vedere il nostro film nel seminterrato di un hotel.

C’eravamo soltanto il montatore Joe Hutshing, Danny ed io. Stavamo in ultima fila, mentre Jimmy e Robert nella quarta, seduti insieme. Guardandoli da dietro, vedevi le loro teste incorniciate dal film, che era qualcosa di già iconico in sé. Si sporgevano e parlavano. Ci siamo guardati pensando: “Ok, siamo fottuti. Stanno cercando di capire come possono andarsene”.

Poi è arrivata la scena di “Sono un dio dorato!” e Plant ha iniziato a ridere. Era una risata di gusto: “Tutto ok, tutto ok”, ci rincuoriamo. Jeff Bebe spiega: “Russell, eri su un tetto che gridavi: ‘Sono un dio dorato!'”. E Billy Crudup afferma: “Non ho detto questo. O sì?”. E Plant: “L’ho fatto davvero!” (ride). E ci diamo dei cinque sottovoce.



Il film finisce e sorridono entrambi. Plant cammina lungo il corridoio, arriva nella nostra fila e ci fa (imitando alla perfezione Robert Plant, nda): “Cameron, tua madre era davvero così?” Ho risposto: “Di più”. Ride, e guarda Jimmy, poi continua: “Ho una bottiglia di quaaludes che è sul mio scaffale dall’inizio degli anni Settanta. Penso che andrò a casa e la aprirò stasera”.

Come ti sei assicurato i diritti sulla musica?
Ci hanno portato dall’altra parte della strada in un’enoteca. “Ok, per Stairway to Heaven dobbiamo dire di no, è troppo, non la concediamo mai”. Noi ci rattristiamo all’istante. Ma Page continua: “Vorrei darvi una canzone che abbia un vibe più acustico e da busker. Gratuitamente”. E ha sostituito Starway to Heaven con Bron-Yr-Aur.
L’ha fatto per avere quel mood nel film, il che è stato fantastico. E subito dopo ci siamo messi a correre per strada. Il resto dell’incontro lo abbiamo passato a parlare di quanto amassimo tutti Jeff Buckley. Ufficialmente la notte più cool di sempre, o quella meno cool, non lo so. Era un traguardo enorme, perché senza i Led Zeppelin non sarebbe stato lo stesso film.

Russell Hammond è stato ispirato da Glenn Frey. Cosa ne pensa lui del film?
L’ultima volta che ho visto Glenn, ne abbiamo parlato. Sarà stato otto o nove mesi prima che morisse, nel 2016. Stava pensando di fare uno show poliziesco alle Hawaii. Gli ho detto: “Grazie per averci fatto sembrare così fighi. È la mia battuta preferita in quel film, ed è grazie a te”. Ha fatto un sorrisone e ha detto: “È grazie a tutti noi”. Fantastico.

Hai detto che l’autentica atmosfera anni Settanta del film è merito del direttore della fotografia John Toll. Come ci è riuscito?
Possedeva l’anima dell’epoca. Era come ossigeno per lui, ci era cresciuto, ne conosceva l’atmosfera. Avevo un libro pieno di immagini. Le ha guardate e ha subito capito cosa stavo cercando. Se dicevo: “Facciamo ballare Kate Hudson sul pavimento dell’arena disseminata di rifiuti, ricordando lo spirito di quello che era successo in quella stanza”, lui rispondeva: “Ok. Che ne dici di qui?”. È stato magico lavorare con John. Quando cerchi di catturare qualcosa dall’esterno, è impossibile. E lui ha girato quel film dall’interno, rivolgendo il suo sguardo fuori.

All’inizio Neil Young aveva un ruolo, giusto?
Neil sarebbe tornato nel backstage a Cleveland con una moglie molto più giovane di lui. Avrebbe interpretato Harry Hammond, il padre di Russell. Non si vedono da secoli, “complimenti per lo spettacolo”, ma la ragazza continua a guardare Crudup. Lui guarda lei e si rende conto che suo padre cavalca il suo successo e viene preso in giro. È un momento straziante su quello che la carriera in ascesa di un figlio può significare per un genitore ormai quasi estraneo. Ecco la scena. È subito dopo quella della maglietta.

(Legge) Russell passa davanti a un uomo felice dai capelli d’argento che tiene banco con una birra in mano. È vestito troppo da giovane per la sua età. Fine anni Cinquanta. È papà.
“Papà”.
“Figlio!”
Russell, con rispetto: “Ciao, Harry.”
Papà presenta una donna molto più giovane di lui, che guarda insistentemente Russell.
“Ha i geni giusti, eh?”, dice Neil Young. “Ti presento Diedre. Ci sposiamo a luglio”.


Ecco qua. Era una scena breve, ma molto interessante. La costumista Betsy Heimann aveva trovato l’outfit perfetto per Neil Young, gli abiti e tutto il resto. Poi lui ha cancellato la mattina stessa. Ma è stato il primo a regalarci una versione acustica di Cortez the Killer, e ha scavato nei suoi archivi per trovare la versione perfetta, l’ha mixata e ce l’ha donata.

Secondo te perché la scena di Tiny Dancer è così sentita dalla persone?
Prima di tutto è merito del capo macchinista Herb Ault, del tecnico delle luci Randy Woodside e della troupe che ha equipaggiato quell’autobus con un impianto, permettendovigirare dal tetto. Potevamo fluttuare tra le persone, il che significa che non c’erano molti tagli da fare ed sembrava tutto un po’ sognante. E poi Quasi famosi è un film sull’amore per la musica, è la musica che li riunisce di nuovo. In realtà sembra una risposta tecnica, ma non lo è. Poter usare la videocamera così liberamente, non doverla piazzare in faccia a nessuno… Era solo un apparecchio che si muoveva tra di loro. Sono stati in grado di farci sentire il tour, quanto erano uniti. E la telecamera ha soltanto catturato quei momenti.

È difficile pensare che le battute «Devo andare a casa» e «Sei a casa» siano state improvvisate.
Sono stato io a urlargli: «Provate a farla così». In realtà, è l’esempio perfetto di cosa vuol dire sentirsi a proprio agio nell’universo in cui il film e i personaggi ti hanno portato. Sentivo che avrebbero potuto pronunciare quelle parole. È tutto successo sul momento. Ero nei casini perché stavo chiedendo giorni di riprese extra. John Toll mi disse: «Se sai quello che stai facendo, allora fallo». Perciò ci siamo buttati nelle riprese di quella scena. La mia parte preferita, perdonami, è però quella con Noah Taylor, che interpreta il manager Dick Roswell. Il secondo giorno di riprese, Noah mi confessò il suo odio per Tiny Dancer. È un fan del punk-rock, non era proprio il suo genere. Sul set soffriva moltissimo: se lo guardi bene, glielo leggi negli occhi. Detestava l’idea di dover cantare quella canzone, che invece è perfetta.

All’epoca Tiny Dancer non era famosa come lo è adesso.

Non era ancora stata “istituzionalizzata” come hit, diciamo, ma catturava perfettamente lo spirito del tempo. Elton John vide il film e mi disse: «È bellissimo. Ho sempre amato Tiny Dancer, il fatto che tu l’abbia usata significa molto per me». E, quando poi suonava la canzone dal vivo, ci riconosceva sempre il merito di averla riscoperta: «Questa è un successo grazie al film Almost Famous». Nessuno lo fa mai. Lui invece sì. È un grande.

La turbolenza sull’aereo che prendono gli Stillwater è ispirata a due voli che hai preso tu stesso. Avevi paura di volare per colpa dell’incidente dei Lynyrd Skynyrd?
Assolutamente. Ci pensavo sempre. La turbolenza su un volo che presero gli Heart è l’altra ispirazione principale per quella scena. Ma ci fu un altro volo terribile: c’eravamo io, Neal Preston e un tizio che gestiva una sorta di merchandising ante-litteram: scatole di cartone con dentro magliette degli Who. Girava di data in data con queste scatole piene di T-shirt: poi sarebbe diventato un mercato enorme.

La tua prima band immaginaria si chiama Citizen Dick: è il gruppo che compare in Singles – L’amore è un gioco. C’è qualcosa di loro che ti aiutato nell’inventare poi gli Stillwater?

Mi dicevano tutti: «Non puoi trovare un nome migliore?» (ride). I Citizen Dick erano più una parodia, rispetto agli Stillwater. Gli Stillwater dovevano essere seri. I Citizen Dick erano quasi una gag, e la divertentissima registrazione di Touch Me I’m Dick lo dimostra. La lezione è stata non calcare troppo sull’ironia, nel ritratto degli Stillwater. È come se i Citizen Dick fossero la scuola media delle mie band immaginarie: gli Stillwater sono le superiori.

Hai mai immaginato il futuro degli Stillwater? Hanno avuto un periodo hair-metal, o magari hanno fatto un album con Rick Rubin?

Farrington Road, il terzo album degli Stillwater, è stato l’inizio della loro seconda vita. Per la prima volta non erano sulla cover del disco. Penso che, a partire da lì, avrebbero potuto fare un concept album: una specie di loro versione di Tales From Topographic Oceans, supportata da successi precedenti come Fever Dog e Love Thing. E poi magari un doppio album sempre composto da Jeff Bebe, ma con un sacco di arrangiamenti fighi di Russell. Non l’avrebbe probabilmente comprato nessuno. Quindi la band si separa, tenta varie reunion, magari ci scappa un nuovo disco negli anni ’80. E poi forse si ritrova per un tour itinerante promosso da House of Blues, e per altre operazioni più piccole, come la band del batterista Silent Ed. Silent Ed raccoglie l’eredità degli Stillwater. E Bebe continua con una carriera da solista. Non ho ancora ben chiaro il futuro di Russell. Magari entra negli Eagles (ride). Diventa il Joe Walsh di un altro gruppo.

Pensi che avrebbero fatto una versione via Zoom di Fever Dog, durante la quarantena?

Decisamente! Bebe avrebbe portato in giro una nuova versione del pezzo con la Jeff Bebe Band, e tra i tecnici della crew c’è anche suo figlio, che è identico a lui…

Riguardando il film adesso, non pensi che si viva una doppia nostalgia? Cioè, la nostalgia di quando eravamo teenager, ma anche la nostalgia degli anni 2000?
Sì. E c’è un terzo livello ancora, per via del musical a teatro. Rivivi tutta quell’emozione in tre step diversi. Penso sia arrivato il momento di fermarsi (ride). Anzi no: il momento di crescere. Il motivo principale per cui ne stiamo parlando ancora adesso è che io ho vissuto in prima persona le esperienze che poi ho tradotto in un copione. Quand’ero un giornalista, non avevo in mente tutto questo. Ero guidato solo dall’amore per la musica, dalle emozioni che la musica mi faceva provare. Con questo film e questa storia ho cercato di riconsegnare un po’ di quell’emozione. E all’amore che ho raccolto rispondo solo con un: «Grazie». È un messaggio a tutti gli amanti della musica. E del giornalismo, perché Jann Wenner mi ha permesso di seguire i Led Zeppelin. E anche un grazie a mia madre e a mio padre. Tutte queste persone hanno creduto in me. E io ho cercato di fare le cose per gli altri con quello stesso spirito. Almost Famous è la mia personale versione di quei momenti. Di quell’amore.

Da Rolling Stone USA

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