Primo giorno di riprese: una bisca a Napoli, mille persone accalcate fuori dal set, otto bambini da dirigere. Sulla sedia da regista c’è Marco D’Amore, che pensa: “Io m’accappotto”. Forse anche per questo seduto c’è stato pochissimo: «E da attore non mi sono mai azzardato a occuparla», confessa fumando una sigaretta, il modo migliore per farlo parlare. «Ma stare dietro quel monitor e avere la responsabilità della scelta di ogni singola inquadratura è pericoloso, perché in ogni frame ci sono soldi e fatica di tanta gente, e allo stesso tempo mi eccita come nessun’altra cosa al mondo, nemmeno recitare». La nostra chiacchierata è iniziata da una decina di minuti quando arriva una signora che chiede a Marco – sì, a Marco – se è possibile spostare un’automobile che blocca la sua.
“Ragazzi, potete spostare la macchina che sennò la signora non esce”, prende in mano la situazione D’Amore. Ridiamo. Ovviamente quella signora non l’ha riconosciuto, e probabilmente è l’unica rimasta in Italia a non sapere: 1) che Ciro Di Marzio, l’antieroe degli antieroi interpretato da Marco in Gomorra, è ancora vivo; 2) che, dopo aver diretto due episodi della quarta stagione della serie, D’Amore sta per debuttare con L’Immortale (in sala dal 5 dicembre), la sua prima regia al cinema, in cui racconta la nuova vita in Lettonia del miglior personaggio della serialità italiana, sopravvissuto al finale della terza stagione e al sacrificio fatto per Genny Savastano. E l’educazione criminale del piccolo Ciro nella Napoli degli anni ’80. Com’è finito quel primo giorno? Alla grande, ovviamente: «All’improvviso, succede: ti guardi intorno e vedi volti amici, persone che hai avuto la fortuna di poter scegliere, dici la parola giusta a uno, battezzi bene un’inquadratura, la fotografia ti funziona, il ragazzino che hai messo lì si gira e pronuncia quella battuta alla perfezione. Ecco fatto (schiocca le dita)».
Come si fa a tenere un segreto come quello di Ciro ancora vivo per tutto questo tempo?
L’ho tenuto per quasi tre anni, e non ho detto nulla nemmeno a Salvatore Esposito (che in Gomorra interpreta Genny Savastano). Durante la seconda stagione, mi sembrava di non avere più tanto da dare a questo personaggio, e con la terza avevamo trovato una bella chiusura shakespeariana… Quando ho proposto l’idea, all’inizio è stato un fulmine a ciel sereno, ma ha fatto arrapare tutti: ci abbiamo pensato su parecchio insieme a Sky, Vision, Cattleya, c’erano degli interrogativi legati all’etica e alla grammatica del progetto. E quindi il diktat era: quello che succede in questa stanza, rimane in questa stanza.
E poi?
Mi ha dato forza il fatto che gli altri non sapessero e mi continuassero a chiedere: è vivo o morto? Su quell’attesa ho costruito anche io un’attesa da spettatore, ripetendomi: “Quando risponderò a questa domanda devo avere tra le mani un progetto così forte che, anche a chi commenterà: “Che cazzata”, io potrò rispondere: “Vai a vedere il film e poi ne parliamo”.
Ma Salvatore come l’ha presa?
“Tu sei ‘nu piezz e mmerda, non mi hai detto niente!”. Ma dovevo tenere il segreto proprio con lui, anche per testare le reazioni. Quando hanno ricevuto la sceneggiatura alcuni dei miei collaboratori mi hanno chiamato chiedendomi: “Ok, ma è vero?!”. Con Salvatore poi avevamo condiviso quella notte sulla barca, dove le lacrime dei personaggi erano le nostre. Avevo messo in piedi una scena tipo Il tempo delle mele: lui stava a poppa, io ho preso il telefonino, ho fatto partire Doomed to Live (il brano-tema di Gomorra) con un auricolare a testa, ce la siamo sentita prima di girare. Siamo crollati, piangeva tutta la troupe.
La cosa più folle che hai sentito dopo la rivelazione nel trailer?
Una ragazza mi ha scritto: “Dovrei partorire il 4, ma ho detto all’ostetrica che deve posticipare la data perché io il 5 devo andare al cinema”. Pensa se nasce in sala, durante L’Immortale…
Abbiamo pianto Ciro fino a esaurire le lacrime, però abbiamo anche pensato che ti eri affrancato da un ruolo totale e totalizzante. E invece hai deciso di costruire proprio su Ciro un’altra parte della tua carriera. Perché?
Questo progetto nasce, più che da un’ambizione di attore che – ti assicuro – non c’è, dal desiderio di fare qualcosa di innovativo dal punto di vista produttivo e autorale. Forse mi sbaglio, ma non credo sia mai successo: una serie dà origine a un film che è insieme un prodotto indipendente, ma anche un tassello assolutamente fondamentale di un racconto che parte dalla tv, ti porta al cinema e ti rimanda alla tv. È una figata.
La sfida del film è quella di allargare il pubblico di Gomorra: hai dovuto lavorare sul linguaggio in questo senso?
Ci sono degli elementi di riconoscibilità che hanno reso la serie unica ma abbiamo operato un vero tradimento rispetto a Gomorra. In primis per non dare l’impressione a chi andrà al cinema di ritrovarsi davanti a due puntate di Gomorra, perché non è così, e poi perché sentivamo che, tradendo anche la grammatica con il racconto del passato, potevamo dare più aria al film. C’è un tocco di innovazione pure rispetto a questo: la tecnologia è quella che ha usato Todd Phillips per Joker, quel large format sta a metà tra i 35 mm e i 65 con cui Cuarón ha girato Roma. Volevamo dare respiro al film, epicità a questa storia, anche attraverso l’orchestrazione di alcuni must dei Mokadelic già usati nella colonna sonora di Gomorra.
Nel prendere un personaggio iconico e costruirci sopra una origin story, una storia parallela, L’Immortale può essere la risposta italiana a Joker?
(Si prende la testa tra le mani e sorride) Ho scritto esattamente questo a Todd Phillips! È un patito di Gomorra e ci sentiamo da anni. Ho visto Joker due volte, la prima come spettatore – perché non voglio pensa’ a niente, mi voglio far invadere dal film – e poi ci sono tornato come addetto ai lavori. Scherzando gliel’ho buttata lì, perché in entrambi i casi i personaggi sono stati estrapolati dal loro contesto di riferimento e intorno a loro è stato costruito un nuovo mondo. Joker in questo senso è stupefacente, per alcuni fan della saga di Batman quella del film è stata una svolta un po’ troppo empatica. Io però credo che ci sia bisogno di un lato emotivo e anche romantico nel racconto di certi personaggi, perché il pubblico ci si ritrovi.
Chi sono i tuoi registi di riferimento?
Diciamo che ce ne sono due di cui conosco vita, morte, miracoli: Orson Welles e Vittorio De Sica. A parte che sono stati due viveur, attori, comici, hanno lavorato in radio, in teatro, hanno fatto regia, hanno scritto, con una capacità di unire i linguaggi e di innovarli. E tutti e due erano controversi rispetto a se stessi e amatissimi dal pubblico: quello che facevano è arrivato immediatamente, perché avevano ‘la pancia’.
A proposito di maestri, che reazione ha avuto il tuo padre artistico, Toni Servillo, quando gli hai detto dell’Immortale?
Per l’umiltà che ha Toni, da una parte è sorpreso e dall’altra si sente emotivamente coinvolto in questa mia decisione di passare alla regia. Lui potrebbe passare dietro la macchina da presa domani, però non l’ha mai fatto e non lo farà mai perché c’è una tecnologia da padroneggiare, un altro modo di dirigere che non gli appartiene, non gli interessa. Quindi era curiosissimo, ha cominciato a farmi un sacco di domande, è stato il primo a chiamarmi dopo l’uscita del trailer: “Ciao, sono papà, è potentissimo”. Non sarà a Napoli per la prima, perché è in tournée a Parigi ma mi scrive spesso: “Lo devo vedere, lo devo recuperare, torno il 14, vieni a Caserta”. È super contento.
Da Servillo a Tarantino: quando l’hai intervistato per Rolling Stone, sei uscito dalla sala di montaggio per andare da lui e sei tornato al lavoro subito dopo. Quell’incontro ha cambiato qualcosa?
Non solo l’incontro con lui, ma anche l’aver visto il film prima, e una seconda volta dopo. Stiamo parlando di un mostro sacro, ma anche di un essere umano che è in una fase ben precisa della sua vita e del suo cinema: il suo lavoro ha raggiunto un grado di libertà, c’è una leggerezza grave, pensosa in quello che fa, dovrebbe essere l’ambizione di tutti quelli che fanno questo lavoro. E poi vederlo parlare con quella sfrontatezza, quella guasconeria… ha ancora voglia di raccontare, di mettersi in gioco. Poi Tarantino fa parte di uno star system in cui tutto quello che c’è prima e dopo il film è show, vedergli cambiare una camicia per fare un’intervista… è scuola pure quella.
Hollywood va pazza per Gomorra. Qual è l’episodio più clamoroso che ti è capitato?
Con un po’ di imbarazzo, facevo parte di questa cordata di attori italiani per il 40ennale della maison di Armani e c’era tutta Hollywood. A un certo punto arriva Leonardo DiCaprio con il barbone di Revenant, circondato da guardie del corpo. Si siede davanti a me, mi guarda e mi fa: ”Gomorra” (imita l’accento americano). Mi sono sentito Dio in quel momento, perché lo amo, e poi c’erano tutte quelle occhiatine intorno. Quello che mi dispiace di più di Gomorra e che non si racconta in Italia quanto sia amato dallo show-biz americano.
Anche Michael Fassbender è un tuo fan, o sbaglio?
Con lui ci siamo messaggiati mentre giravo in Lettonia! Era a Ischia con la moglie per un servizio fotografico, ha incontrato un giornalista amico comune che mi ha chiamato: “Questo è il numero di Fassbender, scrivigli perché sono due giorni che parla di te”. E abbiamo iniziato a sentirci. Ma pure Stefano Sollima, mentre lavorava a Soldado con Josh Brolin e Benicio del Toro mi ha telefonato: “A ci’ questi so’ matti de’ voi (imita l’accento romanesco), se so’ visti tutta Gomorra, nun te puoi immagina’…”. E poi mi è arrivata una voce, ma non so se è una cazzata: mi hanno detto che David Bowie ha regalato a Madonna il cofanetto della prima stagione di Gomorra.
Quindi prossimo obiettivo Hollywood?
Magari! Mi piacerebbe più come regista: un bel progetto ammeregano, sarebbe bellissimo.
Tipo?
Vorrei raccontare una grande storia d’amore un po’ torbida, tormentata.
Chi vorresti sul set?
Sogniamo?
Sì, sogniamo.
Benicio del Toro è uno dei miei attori di riferimento, se fossi una donna me lo magnerei vivo. E… Emma Stone. Che coppia, pure un po’ storta. Perfetti per una sorta di Ultimo tango all’americana.