«Per la seconda volta nella mia vita, mi sono dedicato alla musica per un film. È interessante perché mi permette di confrontarmi con qualcosa di completamente diverso. Quel che conta è sempre la ricerca. Se la mia musica interagisce bene con le immagini, allora sono riuscito a fare qualcosa di buono».
A parlarci via Zoom – felpa grigia con cappuccio, occhiali sottili a montatura dorata, orecchini ad anello ai lobi – è l’artista francese Vitalic, nome d’arte di Pascal Arbez-Nicolas, vera superstar della musica elettronica. Formazione classica, quando era ancora diciottenne rimase folgorato dalla musica dei Daft Punk. Cominciò a lavorare ai propri suoni e nel 2001 realizzò il primo EP, Poney, poi i due album (oggi di culto per gli aficionados di elettronica) Ok Cowboy e FlashMob, che gli diedero popolarità nella scena. Il suo ultimo progetto è Dissidænce Episodes 1 e 2.
Stava lavorando proprio a Dissidænce quando il regista italiano Giacomo Abbruzzese gli ha chiesto di comporre la colonna sonora del suo nuovo film Disco Boy, l’unico titolo italiano in concorso all’ultima Berlinale. Narra la storia di Aleksei (Franz Rogowski, il villain di Freaks Out), un ragazzo bielorusso che cerca di raggiungere la Francia insieme a un amico. Il suo compagno di viaggio muore nel tentativo di varcare il confine. Aleksei si arruola nella Legione Straniera. In una missione in Nigeria, l’uomo uccide un combattente del MEND (The Movement for the Emancipation of the Niger Delta). A Parigi, in una discoteca, incontrerà la sorella del ragazzo che ha ucciso…
I suoni di Vitalic si mescolano perfettamente con i suoni del film e le immagini di Abbruzzese. Potenti, immersivi, disturbanti, onirici. Anche gli show di Vitalic, al di là della forza totalizzante dei suoni, sono sempre estremamente cinematografici, per uso di immagini sintetiche, colori e luci. Sperimentatore di tecnologie, il musicista fa un uso delle macchine sonore e una mescolanza di melodie e beat che a me, come per la musica dei Daft Punk, fa pensare al cinema dell’autore polacco Zbigniew Rybczyński, un autore capace di usare le tecnologie per farne l’impasto di un puro linguaggio, fatto di accumuli infiniti, metatestualità, ripetizioni e sorprendenti detour continui. Puro linguaggio poetico in immagini, nel caso di “Zbig”, puro linguaggio in musiche e suoni nel caso di Vitalic. Vitalic sorride e ammette di non conoscere “Zbig” e che andrà a cercare i suoi lavori.
Dal 9 marzo Disco Boy è nelle sale, distribuito da Lucky Red. Prossimamente uscirà anche la colonna sonora (in digitale, su CD e in vinile). Qui sotto, invece, la nostra chiacchierata fluviale ed esclusiva con Vitalic.
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Sei a casa o nel tuo studio?
No, il mio studio è a Parigi, un piano sotto al mio appartamento. Quando voglio isolarmi, come in questi giorni, vengo nella mia casa vicino ad Avignone. In mezzo alla foresta. Non c’è niente e nessuno. Solo animali, oltre al mio cane. Restare completamente solo mi aiuta a fare musica.
Come sei stato coinvolto da Giacomo Abbruzzese nel progetto Disco Boy?
Circa tre anni fa, Giacomo mi ha mandato i suoi cortometraggi, dicendomi: “Guarda i miei lavori, sto per fare un film e vorrei che tu realizzassi la colonna sonora”. Durante il primo lockdown mi sono visto tutti i suoi corti e mi sono piaciuti molto. Allora gli ho detto: “Ok, farò la colonna sonora del tuo film!”. All’epoca stavo già lavorando al mio album Dissidænce. Giacomo e io ci siamo incontrati e gli ho fatto ascoltare alcuni pezzi. A un certo punto ha detto: “Questa canzone la voglio assolutamente nel film!”. Quella canzone è poi diventato il main theme della colonna sonora (Lost Time, da Dissidænce Episode 1, nda), insieme al brano che accompagna la lunga sequenza finale, fino alla “danza africana” (Winter Is Coming, da Dissidænce Episode 2, nda).
A parte i due pezzi già realizzati, come hai lavorato ai brani e ai suoni originali dello score?
È stato abissalmente diverso da tutto quello che avevo fatto fino a oggi. Giacomo sa esattamente cosa vuole, in ogni dettaglio. In qualche modo ero al suo servizio. Voleva il mio “tocco Vitalic”, ma aveva sempre qualcosa in testa che mi suggeriva e voleva riuscissi a eseguire.
In che modo?
Mi dava le scene e mi descriveva un suono possibile. Si è trattato di un lavoro fatto insieme per almeno due anni. Se c’erano 15 secondi di film da musicare, Giacomo me li mostrava e io cercavo una musica adatta. Poi magari quei 15 secondi si dilatavano a un minuto, e io dovevo trovare altri suoni per completare la scena. Creavo la musica quasi in contemporanea al film. Non ho mai fatto un pezzo alla cieca, per poi incollarlo alle immagini. Perfino i pezzi già fatti andavano cambiati.
Per esempio?
Winter Is Coming, che accompagna la danza africana finale. La versione “originale” che avevo già registrato era a 130 BPM, dunque troppo veloce, e abbiamo dovuto farne una versione più lenta e adatta a un ballo “africano”.
C’è stata una scena più difficile da musicare?
Forse proprio quella del ballo. Ho dovuto farne tantissime versioni. Giacomo e io avevamo una visione differente del suono che avrebbe dovuto avere la scena. Lui avrebbe voluto vera musica africana, io no, volevo pura musica elettronica. Alla fine, dopo quaranta versioni diverse (ride), penso che siamo riusciti a trovare il suono più adatto.
In che modo trovavi il suono, la melodia o la distorsione giusta per un’immagine?
Giacomo sa molto bene quello che vuole e te lo fa capire. Per esempio, per la sequenza con l’elicottero mi ha detto: “Qui vorrei un suono da disco anni Settanta, alla Giorgio Moroder, ma anche sentire le grida delle persone…”. E così ho proceduto. Se cambiavo anche solo un dettaglio, un’inezia o una cazzata minuscola in una canzone, il regista se ne accorgeva subito: “Cos’hai fatto? Hai rallentato un suono?!”. Mi sgamava sempre (ride)…
Cosa ti ha sorpreso di più di Giacomo Abbruzzese, oltre all’orecchio?
La sua sensibilità. Vede, sente e ascolta tutto. Ha un’immagine complessiva ben definita in testa e vuole raggiungere esattamente quella.
Avevi già realizzato le musiche per il film L’enigma di Kaspar Hauser di Davide Manuli, del 2012. In che modo è stato diverso lavorare ai suoni per Disco Boy?
Davide mi disse: “Puoi fare tutto quello che vuoi! Hai carta bianca, sei completamente libero”.
Preferisci lavorare così?
Sono state entrambe esperienze straordinarie e, ovviamente, completamente diverse. Mi piace molto Davide Manuli, penso sia un vero genio ed è stato più facile per me lavorare completamente libero, senza limiti. D’altro canto, però, non sono stato “parte” della creazione di quel film. Giacomo può essere un vero pain in the ass (ride), a volte dovevo dirgli (lo dice in italiano): “Restiamo calmi!”. Però penso che, lavorando in quel modo con lui, la musica sia diventata un vero e proprio personaggio di Disco Boy.
Una volta il musicista americano John Murry mi ha raccontato che se dimentica un suono che aveva in testa non sta troppo a pensarci: il suono o la melodia poi tornano. Ti succede mai di dimenticare un suono?
Se ho paura di scordarlo, canto e mi registro con il telefono. Ho moltissime registrazioni dove canticchio: “Dabadaba-dadà…“. Altre volte prendo appunti per iscritto su alcune idee. L’idea per una canzone può anche restare sospesa: a volte mi capita di tornarci un anno dopo, o anche due o tre anni dopo. Credo che un suono o una canzone trovino la loro forma quando è il momento giusto. Circa vent’anni fa, quando ho lavorato ai suoni per Poney, avevo in testa l’idea da un paio d’anni. La nostra memoria a volte ha bisogno di un po’ di tempo per sedimentare un’idea. Poi l’idea rispunta all’improvviso, più nitida.
Quando capisci che un pezzo è finito? Lavori molto all’aggiunta di dettagli?
Sì, troppo, a volte devo pormi dei limiti. Su un pezzo già finito mi capita di spendere delle ore a lavorare su un semplice clap (battito di mani, nda). A nessuno frega un cazzo se c’è un clap in più o meno o se è perfetto alla fine di un pezzo, con la compressione perfetta. Posso diventare ossessivo su alcuni orpelli e cerco di impormi di non esserlo.
Che macchine hai usato per Disco Boy?
Ho usato diverse macchine: un grande sintetizzatore italiano Grp A4 per la maggior parte delle sequenze, perché consente un suono molto anni Settanta. Poi un Dave Smith Pro 3 e infine un Erica Synths, per suoni molto anni Sessanta. Ma ho usato parecchie volte il mio iPad. Quando Giacomo girava le sequenze nell’isola tropicale de La Réunion (per le scene ambientate in Nigeria, nda), per pura coincidenza mi trovavo a suonare proprio là, dall’altra parte del mondo come lui. Vedendo girare alcune scene mi sono venuti in mente dei suoni che ho registrato subito nella stanza d’albergo, appunto con l’iPad.
È sorprendente come la tua musica si intersechi con il sonoro del film. Come hai lavorato con gli ingegneri del suono?
È stato un confronto continuo. Ci ha aiutato molto procedere tutti insieme contemporaneamente. Non c’era niente di finito o definitivo, ma un cambiamento costante realizzato insieme.
Le nuove tecnologie sono una delle anime della tua musica.
Sono parte del processo creativo, ma non punto tutto solo sulle nuove tecnologie. Essere anche in presenza sul set mi ha aiutato a percepire cosa creare. Non so cosa succederà con le possibilità digitali di realizzare musica attraverso un’intelligenza artificiale. Magari farò qualche esperimento, vedremo. Comunque uso sia nuove che vecchie tecnologie, dipende dal colore, dall’emozione, dall’impasto che cerco. Nonostante io utilizzi molte tecnologie nuove, amo molto un mio vecchissimo sintetizzatore sovietico. È uno strumento talmente datato che per poterlo usare devi aspettare che si scaldi, eppure quel sintetizzatore dà ancora suoni estremamente vitali.
Oltre al sintetizzatore sovietico, usi altri strumenti “analogici” o del passato?
Ho dei vecchissimi speaker Devialet! A volte registro cose con un registratore d’antan. E poi mi piace il cibo fusion, ma non potrei vivere senza le lasagne di mia madre (ride)! Quelle sono fatte totalmente a mano, e nessuna intelligenza artificiale potrà mai sostituirle!
Hai suonato in tanti festival, dal Sónar di Barcellona allo Sziget di Budapest. C’è una notte speciale fra le tante?
Difficile menzionarne solo una, suono quasi due volte a settimana da due decenni… Se devo scegliere una sola notte, dico la mia primissima volta al Sónar di Barcellona, nel giugno 2002, poco prima che nascesse mio figlio. Suonai che ero ancora sconosciuto; dopo quella notte, il mio nome iniziò a girare e la mia musica fu definita cool… Sono molto affezionato al mio primo Sónar.
I concerti che ti hanno ispirato di più da spettatore?
Jean-Michel Jarre, visto a Parigi quando ero ancora un ragazzino, a dieci anni, con un milione di persone in strada. Di recente, ho amato moltissimo (La)Horde Dance Show.
Che musica ascolti? Cosa c’è nella sua playlist in questo momento?
Mi piace musica che non diresti, tipo roba deprimente islandese o norvegese e diversi artisti folk contemporanei. In particolare, sto sentendo molto l’album Ålen di Amason: lo ascolto ininterrottamente da quasi un anno. Quando cucino o sto a bordo piscina a casa, d’estate, ascolto dell’hippy contemporaneo o un po’ di techno.
Stai lavorando a un nuovo album? Potrebbe esserci un Dissidænce Episode 3?
Non ci sarà un Dissidænce Ep. 3. Ora sto lavorando a due nuovi progetti contemporaneamente, uno con l’artista francese Rebeka Warrior e l’altro con la cantante tunisina Emel. Sono entrambe altre due cose diversissime che non ho mai fatto prima.
Ti vedremo in Italia prossimamente?
Sì, verrò sicuramente a Roma per Disco Boy e poi in Sicilia la prossima estate. Non ci sono però ancora date ufficiali.
In una scena di Disco Boy, due ragazzi guerriglieri del MEND si chiedono: “Cosa avresti fatto se non fossi diventato un combattente?”. Uno dice “il croupier”, l’altro “il ballerino”, ovvero “disco boy”. Tu cosa avresti fatto se non fossi diventato Vitalic?
Amo molto quella scena del film. Credo sarei diventato un cuoco, magari di cucina fusion. Oppure di lasagne, imparando da mia madre come si fanno.