«Vogliono possedere l’artista»: dentro il making of di ‘The Brutalist’ con Brady Corbet | Rolling Stone Italia
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«Vogliono possedere l’artista»: dentro il making of di ‘The Brutalist’ con Brady Corbet

Abbiamo incontrato il regista e sceneggiatore (e la sua partner Mona Fastvold) per parlare del lavoro sul suo "film della vita" durato sette anni e sul perché questo racconto della battaglia tra arte e business sia molto personale

«Vogliono possedere l’artista»: dentro il making of di ‘The Brutalist’ con Brady Corbet

Brady Corbet sul set di 'The Brutalist'

Foto: Trevor Matthews

Entrate nell’atrio degli uffici di A24, la società di produzione cinematografica che si è guadagnata la reputazione di studio e distributore pro-autori, nel centro di New York. Allontanatevi dall’ordinata reception e attraversate la hall arredata con gusto, superando il lungo tavolo da conferenza a forma di lastra, i divani sorprendentemente comodi e i tavolini da caffè in vetro. Avvicinandovi alle grandi finestre panoramiche che offrono una splendida vista su Herald Square, guardate alla vostra sinistra. Quello che sembra un pannello di legno chiaro è in realtà una porta che conduce a una biblioteca semi-segreta. L’intera stanza è fiancheggiata da librerie retroilluminate, la maggior parte delle quali ospita una collezione di oltre cento libri sul cinema, raccolte di fumetti e tomi di grandi dimensioni su tutto, dal design moderno ai pittori postmoderni. Il resto degli scaffali è pieno di Blu-ray e copie rilegate di sceneggiature. È il sogno erotico di un cinefilo hipster introverso di Dimes Square.

È qui che troverete Brady Corbet, ex attore, oggi regista e soprattutto attuale forte contendente al titolo di ambizioso salvatore del cinema americano. Lui stesso ammette di essere esausto dopo aver fatto ininterrottamente conferenze stampa dalla fine dell’estate. La prima volta che ci siamo parlati era settembre. Il suo nuovo film, The Brutalist, era stato presentato in anteprima negli Stati Uniti al New York Film Festival la sera prima, poco meno di un mese dopo che gli era valso il premio come miglior regista alla Mostra di Venezia. Siamo ormai all’inizio di dicembre e lui è ancora lì. La sua co-sceneggiatrice e partner professionale/privata di lunga data Mona Fastvold sta ordinando il pranzo per entrambi tramite un addetto stampa e tornerà a raggiungerlo tra poco. Ma per ora Corbet fissa intensamente le librerie appese alle pareti. Non i libri in sé: non ne estrae né ne sfoglia nessuno. Se ne sta lì a gironzolare davanti agli scaffali, osservando in silenzio l’arredamento, soppesando ogni cosa e annuendo in segno di approvazione tra sé e sé. Immagina una miriade di angolazioni di ripresa che gli turbinano nella testa.

Nessuno può dire cosa penserebbe di questa stanza László Tóth, l’emigrato ungherese e architetto di fama mondiale interpretato da Adrien Brody che sta al centro di The Brutalist. Ma è una biblioteca, dopotutto, a cambiare le sorti di Tóth al suo arrivo negli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale. Il figlio di un ricco industriale lo assume per ristrutturare la tana piena di libri del padre come sorpresa. Il risultato – elegante, raffinato e modernista – inizialmente fa infuriare il destinatario del regalo. Poi, pieno di ammirazione per questa persona che ha trasformato uno spazio semplice in qualcosa di trascendentale, il mecenate assume Tóth per supervisionare la costruzione di un centro comunitario nel modesto borgo di Doylestown, in Pennsylvania. L’architetto decide che questo edificio non sarà solo un’opera su commissione. Sarà il suo grande capolavoro americano, realizzato in stile brutalista. E per il resto del Capolavoro Americano di Corbet, osserviamo come l’arte e il commercio si scontrino a sangue, come sia l’amore che la violenza lascino cicatrici psichiche su tutti i soggetti coinvolti e come Tóth lentamente perda la testa.

Ogni somiglianza tra le lotte di un visionario che progetta edifici per i faraoni del XX secolo e quelle di un regista contemporaneo che aspira a brillare in un settore schiavo dei profitti non è, ovviamente, una coincidenza. Ma The Brutalist è un film che parla di molto, molto più di un singolo architetto o di un elaborato regolamento di conti. Con la sua durata di quasi quattro ore e il suo tributo alla portata, la scala e l’umore mutevole di quei film epici degli anni ’70 realizzati da Coppola, Cimino e Bertolucci, completi di ouverture e intervallo, questo dramma scava a fondo nell’esperienza degli immigrati americani, nelle agonie e nelle estasi dell’impulso creativo, nelle strutture che generano la lotta di classe, nelle conseguenze di coloro che sopravvissero al peggio della Seconda guerra mondiale e molto altro ancora. È un film per cui Corbet e Fastvold hanno lavorato duramente per quasi sette anni e, come il suo eroe, il regista è stato vicino al fallimento più di una volta nel tentativo di realizzarlo.

«Voglio dire, ogni film che viene realizzato è un miracolo», dice Corbet, mentre Fastvold torna e si siede accanto a lui. «Anche i film brutti sono miracoli. Perché la grande quantità di chiavi che devono girare affinché qualcosa abbia il via libera è semplicemente…». I due si scambiano un’occhiata e sospirano simultaneamente. «Immagina un film su un architetto».

«Con un budget davvero limitato…», interviene Fastvold.

«… e realizzato in uno stile che non è stato utilizzato per decenni», aggiunge Corbet (ne parleremo più avanti).

«Normalmente siamo molto pragmatici», afferma Fastvold. «Penso che i registi della nostra generazione debbano esserlo per forza. Ma ricordo che quando stavamo riflettendo su cosa volevamo fare qui, c’è stato un momento in cui ho pensato: “A questo giro voglio solo divertirmi”. Scriviamolo nel modo più ampio e completo possibile, e non parliamo nemmeno di come lo realizzeremo. Lo scopriremo poi. Per ora lasciamo che sia grande e ricco quanto vogliamo. Poi, più tardi, abbiamo dovuto capire come realizzare quello che avevamo inventato, e…». Sia lei che Corbet ridono. «Non è stato, ehm, facile».

Non è che non avessero esperienza nel realizzare grandi film con grandi idee e budget limitati. Corbet ha iniziato la sua carriera di attore quando era un bambino, lavorando in grandi film (Thunderbirds) e serie tv molto popolari (24). La sua passione risiedeva nei film d’autore internazionali più complessi e impegnativi e nel lato oscuro del cinema americano, molto simile a quello che divorava e di cui era ossessionato da cinefilo ancora minorenne. Un collega ricorda di aver incontrato Corbet quando era alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2004 con Mysterious Skin, il dramma onirico e innovativo di Gregg Araki su due giovani uomini che affrontano le conseguenze degli abusi sessuali subiti da piccoli. Tutti i suoi compagni di cast se n’erano andati, visto che la proiezione del loro film era passata, ma Corbet aveva in programma di restare ancora qualche giorno a sue spese: era in programmazione il nuovo film di Claire Denis e non c’era modo che lui lo potesse perdere. Aveva 16 anni.

Alla fine Corbet decise che, dopo aver avuto la possibilità di vedere come lavoravano sul set registi come Michael Haneke e Lars von Trier, avrebbe voluto davvero stare dietro la macchina da presa anziché davanti. È stato più o meno in questo periodo che un amico comune tra lui e Fastvold, l’attore Christopher Abbott, li ha presentati. Come Corbet, la regista norvegese aveva iniziato da attrice e condivideva gli stessi gusti per film audaci e meno mainstream. I due hanno iniziato a scrivere insieme, a partire dal film del 2014 The Sleepwalker (in cui ha recitato anche Corbet), e poi nel suo debutto alla regia del 2015 The Childhood of a Leader – L’infanzia di un capo. La storia del figlio di un diplomatico cresciuto in Francia alla fine della Prima guerra mondiale che alla fine si trasformerà in un fascista alla Mussolini è uno character study dark, sfacciatamente cupo e ambiguo, che però prende molto sul serio i suoi tratti da film in costume. Il lungometraggio è anche appassionante, e si sforza chiaramente di essere più del solito film indipendente realizzato con pochi spiccioli. La sua sensibilità si vedeva già dal principio.

Quando hanno iniziato a lavorare a Vox Lux, il dramma del 2018 su una popstar forgiata nel fuoco di una tragedia pubblica, Corbet e Fastvold erano anche una coppia; presto sarebbero diventati anche genitori. «Penso che, visto che scrivere insieme è stato il modo in cui ci siamo conosciuti, è per questo che siamo anche in grado di fare film insieme», dice. «Se fosse stato il contrario, se fossimo stati una coppia che poi inizia a lavorare su dei progetti… forse non sarebbe stato così efficace». I due condividevano anche la passione per l’architettura, e ciascuno di loro aveva un architetto in famiglia: il nonno di Fastvold ha progettato edifici in Norvegia, mentre lo zio di Corbet ha studiato nel “laboratorio nel deserto” di Frank Lloyd Wright, Taliesin West, in Arizona. Nessuno dei due riesce a ricordare chi per primo ha avuto l’idea di realizzare un film su un architetto, anche se entrambi ricordano un primo punto di riferimento fondamentale.

«Questa è l’abbazia di St. John», dice Corbet, tirando fuori il telefono e mostrando uno scatto della cattedrale modernista progettata e costruita da Marcel Breuer a Collegeville, Minnesota. «Ha iniziato a lavorarci negli anni ’50 e l’ha terminata nel 1961…».

«Quello che mi interessa, oltre alla bellezza di questo edificio», nota Fastvold, «è che Breuer è un emigrato ebreo, che arriva in America dall’Ungheria dopo essere fuggito dall’Olocausto, e uno dei suoi primi progetti su commissione è una chiesa nel Midwest».

«C’è questo fantastico libro di una casa editrice molto piccola, intitolato Marcel Breuer and a Committee of 12 Build a Church», aggiunge Corbet. «Avevamo già discusso di fare qualcosa sul rapporto tra le ricadute psicologiche del dopoguerra e l’architettura di quel periodo. Poi ci siamo imbattuti in queste memorie di un monaco che era lì, e si possono cogliere alcune implicazioni del bigottismo che Breuer si trovò ad affrontare mentre svolgeva questo compito. Ma nessuno dice a gran voce la storia rimasta sommersa, silenzio. Nel nostro film lo volevamo fare».

Adrien Brody e Felicity Jones in ‘The Brutalist’. Foto: Lol Crawley/A24

Né Corbet né Fastvold erano interessati a realizzare un film biografico. «Le storie immaginarie sono un contratto un pochino più onesto con gli spettatori», dichiara Corbet, «perché altrimenti sei schiavo dei dettagli: “Allora è andata davvero così con Napoleone?! Non credo proprio!”». Invece hanno cominciarono a creare un’amalgama. László Tóth ha in sé un po’ di Breuer, ma anche una buona dose di Louis Kahn, Paul Rudolph e Charles-Édouard Jeanneret, più noto come Le Corbusier. Quando hanno iniziato a inviare la loro sceneggiatura agli attori, una delle prime persone che l’hanno letta ha notato che aveva anche un legame personale con la trama.

«Penso che sapessero delle mie origini ungheresi», mi dice Adrien Brody, pochi giorni dopo la mia seconda intervista con Corbet e Fastvold. «Ma non conoscevano la storia passata di mia madre: Sylvia [Plachy], un’immigrata ungherese fuggita in America negli anni ’50. Negli anni ’60 divenne una fotografa di spicco: il Museum of Modern Art la ospita nella sua collezione. E continuavo a pensare: “Gran parte della storia di László è anche la sua storia”. Mentre leggevo, sentivo la voce di mio nonno. L’idea stessa di qualcuno che viene in America per essere libero, per essere un artista, e poi sperimentare la differenza tra la fantasia del Sogno Americano e la sua realtà: posso avere la vita che ho oggi perché lei ha vissuto tutto questo».

«Ma anche senza quell’aspetto personale», aggiunge, «avrei comunque voluto vedere questo film a tutti i costi. Si poteva già dire sulla pagina che Brady voleva fare un film più grande possibile, non importa quanti soldi avessero o non avessero, e che lui e Mona avevano scritto il tipo di epica cinematografica che ho amato crescendo nella New York negli anni ’70. Questi film sono uno dei motivi per cui ho voluto diventare attore. Nessuno osa più realizzarli. E loro ci stavano provando davvero».

O almeno Corbert e Fastvold stavano facendo del loro meglio per riuscirci. All’inizio, un produttore esecutivo ha detto loro che, per realizzare The Brutalist nel modo in cui volevano, avrebbero potuto probabilmente fare dei tagli e comunque arrivare a fine film con 28 milioni di dollari di budget. Loro hanno replicato che il loro budget era più vicino a un terzo di quella cifra, tanto meglio per mantenere il controllo creativo. Qualsiasi cosa che non fosse la versione definitiva sarebbe stata un fattore decisivo. Inoltre Corbet non aveva intenzione di limitarsi a girare su pellicola da 35mm, ma di filmare in VistaVision, un vecchio formato panoramico che non veniva più utilizzato dal 1961, quando Marlon Brando diresse il suo western I due volti della vendetta. Riteneva che, poiché il procedimento era stato ampiamente utilizzato negli anni ’50, sarebbe stata una scorciatoia per evocare l’epoca ritratta nel film. «Ricevevo i giornalieri delle riprese», ha dichiarato a suo tempo con entusiasmo, «e mi ritrovavo a pensare: “Oh mio Dio, sembra proprio Intrigo internazionale!”».

Così, armati di una lista di richieste e dell’impegno dei membri della troupe e di diversi attori tra cui Brody, Corbet e Fastvold, hanno iniziato a rivolgersi, cappello alla mano, a «quindici-venti società di produzione e a finanziatori che avrebbero investito in un film di quelle dimensioni e budget. Si chiama “vendere il film a potenziali investitori”». Corbet si gira verso la sua partner. «E quando abbiamo reso pubblico il progetto?».

«A marzo del 2020», risponde lei. «Letteralmente la settimana in cui New York è stata chiusa per il Covid».

«E una volta che hai presentato il film agli acquirenti, è estremamente difficile riproporlo loro anni dopo», osserva. «Pandemia o non pandemia, continuano a pensare che ci sia qualcosa che non va, altrimenti qualcuno l’avrebbe già fatto. Ci siamo davvero sparati sui piedi. Abbiamo dovuto dire un sacco di: “Sì, sappiamo che l’hai già letto. Ma fallo di nuovo”».

Alla fine sono riusciti a mettere insieme quel tanto che bastava per far partire The Brutalist. Il budget finale sarebbe stato di 10 milioni di dollari, ovvero circa un ventesimo del costo di Joker: Folie à Deux. Fastvold ha lavorato come assistente alla regia. Corbet e il suo storico direttore della fotografia Lol Crawley sono riusciti a ottenere le cineprese VistaVision senza comunque andare in bancarotta. I compromessi riguardavano cosa potevano e cosa non potevano riprendere con quelle macchine da presa; Corbet ricorda di aver detto al suo collaboratore che avrebbero potuto includere il pavimento o il soffitto, in una particolare inquadratura. Allestire entrambi però sarebbe troppo costoso. «Ricordo che dissi a Judy [Becker, la leggendaria scenografa]: “Per questo primo piano del mobile, possiamo usare la pelle”», racconta. «Per le riprese ultra-grandangolari, possiamo usare anche la similpelle».

The Brutalist | Official Trailer 2 HD | A24

Sia Brody che Felicity Jones, che interpreta la moglie di László, Erzsébet (che alla fine porterà lei e sua nipote dall’Ungheria in America), erano diventati irreperibili nel corso degli anni, per poi tornare disponibili giusto in tempo per l’inizio delle riprese. Per l’altro ruolo principale, quello di Harrison Lee Van Buren Sr., l’uomo d’affari aristocratico che assume Tóth per costruire il centro comunitario e che gli rende la vita un inferno per quasi un decennio, Corbet si è rivolto a Guy Pearce. Con il suo accento medio-atlantico, la postura rigida e la sensazione che il potere finanziario assoluto su una sola persona corrompa entrambe le parti, l’attore australiano offre quella che potrebbe essere la migliore interpretazione della sua carriera.

«È un po’ un incrocio tra Rockefeller e Salieri», dice Pearce in un’altra chiamata Zoom. Ciò che sorprende, aggiunge, è che il cattivo di The Brutalist sarebbe una fusione tra un industriale realmente esistito e il compositore di Amadeus che invidia Mozart. L’ispirazione arriva direttamente dal modo in cui è stato scritto il personaggio. «Hai mai letto un bel libro, un romanzo davvero bello, e sei riuscito a capire com’è una persona dalla costruzione delle frasi che la descrivono? Questa era la sceneggiatura che mi hanno dato Brady e Mona. E anche se abbiamo girato il film molto velocemente e con pochi soldi, Brady non ci ha mai fatto sentire sotto pressione. Se volevi fare una prova o avevi bisogno di un altro ciak, lui rispondeva: “Certo”».

«Mi ha detto qualcosa di veramente interessante», ricorda Pearce. «“Per alcune persone non è sufficiente possedere l’arte. Vogliono possedere anche l’artista”. E io ho pensato: “Sì, non solo capisco cosa intendi dire. Lo so”».

Quando Corbet cita questa frase, sottolinea subito che «quando abbiamo scritto la sceneggiatura, lo facevamo tanto per rabbia quanto per passione. Mona ha descritto il processo come qualcosa di simile a un esorcismo. Abbiamo avuto entrambi esperienze in cui siamo stati sfruttati e c’è una rabbia autentica che si riversa in questo progetto. Voglio dire, verso la fine c’è un vero e proprio atto di violenza…». Si ferma e lancia un’occhiata alla sua partner. Fastvold conclude il suo pensiero.

«Quel momento è sempre stato nella sceneggiatura», dice, riferendosi a quella che si è rivelata la scena più divisiva di The Brutalist. «È la rappresentazione di quella citazione che hai appena menzionato. Ed è stato catartico scriverlo, perché è così melodrammatico. Ma doveva esserlo. Doveva essere orribile».

«Doveva essere diretto, sfacciato», concorda Corbet. «Non potevano esserci mezze misure, ma d’altronde è così l’intero film. Sai, per noi il fascino del brutalismo come stile è il suo… minimalismo». Si guarda intorno tra gli scaffali della libreria, come se ne apprezzasse il buon gusto nella forma e nella funzionalità. Poi allarga le braccia. «Ma c’è anche molto massimalismo in questo. Amo il minimalismo e amo il massimalismo. Personalmente non mi piace mai la via di mezzo, in nessun mezzo».

Da Rolling Stone US