Rifare un capolavoro è sempre un’impresa più che rischiosa, anche se ti chiami Steven Spielberg e di capolavori ne hai già sfornati, nella tua vita, almeno una decina. Figuriamoci poi se il capolavoro in questione è un musical, genere cinematografico che, salvo plateali eccezioni, viene oggi percepito come “datato”, e se tu, Steven Spielberg, un vero musical non l’hai mai fatto prima.
E invece, eccoci: dopo l’uscita al cinema a Natale, il 2 marzo arriva su Disney+ la nuova spielberghiana versione di West Side Story, rifacimento scritto dal premio Pulitzer Tony Kushner a partire dal libretto dello spettacolo teatrale del 1957 oltre che dal celebre film, ricoperto di Oscar, del 1961. Il quale, a sua volta, si ispirava a un altro immortale capolavoro, il Romeo e Giulietta di William Shakespeare: il librettista Arthur Laurents, il coreografo Jerome Robbins, i compositori Leonard Bernstein e Stephen Sondheim (ognuno un gigante a sé) riambientarono la più tragica delle storie d’amore nella propria contemporaneità, la New York degli anni ’50 in cui si parlava sempre più insistentemente di delinquenza giovanile e di lotta tra bande di quartiere. Romeo e Giulietta diventano così Tony e Maria: il primo è il migliore amico del capo dei Jets, gang di ragazzi bianchi che controlla le strade del West Side di Manhattan; la seconda è la sorella del leader degli Sharks, i nuovi arrivati portoricani che contendono ai Jets il dominio sul territorio. Tony e Maria s’incontrano, s’innamorano al primo sguardo, e il loro destino è fatalmente segnato.
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La scelta di un melodramma come West Side Story come primo vero musical in carriera potrebbe sembrare quantomeno curiosa per il papà di E.T., Indiana Jones e Jurassic Park, ma ancora una volta una delle ragioni della scelta è rintracciabile in un ritorno all’infanzia. «Nel 1957 i miei genitori comprarono il disco con le canzoni del musical registrate dal cast originale di Broadway. Non avevano visto lo spettacolo, naturalmente, tutto ciò che potevano fare era ascoltarlo: portarono il disco a casa nostra, a Phoenix, Arizona; io avevo dieci anni e un piccolo giradischi, nella mia cameretta. L’ho sentito mille volte, lo sapevo a memoria dall’inizio alla fine! A tavola, a cena, lo ri-cantavo, e arrivato a Gee, Officer Krupke! una volta me ne sono uscito con “Mio padre è un bastardo, mia madre una figlia di…” e i miei erano ovviamente scioccati!», ricorda Spielberg ridendo. «“Chi ti ha insegnato queste cose?!”, hanno esclamato… “Ma siete voi che avete comprato il disco!”, rispondevo io, che l’avevo ascoltato con molta più attenzione di loro».
Settant’anni dopo, un ultra settantenne Spielberg decide finalmente di tentare l’impresa, riportando sul grande schermo quello che ha sempre dichiarato essere il suo musical preferito. «La prima persona che ho contattato quando ho iniziato a cercare di ottenere i diritti è stato Stephen Sondheim», dice con un filo di commozione, perché il leggendario compositore è scomparso a fine novembre, una manciata di giorni prima del debutto americano del nuovo film. «Ci eravamo già incontrati, in passato, io e Stephen: alla prima di Sweeney Todd, che la mia compagnia aveva prodotto, e alla Casa Bianca, quando entrambi abbiamo avuto l’onore di ricevere la Medal of Freedom… Ogni volta sentivo il desiderio irrefrenabile di dirgli quanto avrei voluto provare a rifare West Side Story, ma non trovavo mai il coraggio. Quando infine il progetto è partito, Stephen è salito subito a bordo, sia nella fase di riscrittura della sceneggiatura, sia soprattutto in quella delle nuove registrazioni musicali: non se n’è persa una, per tre settimane è stato in studio ogni giorno. Un grande onore, per me e per tutti noi».
A proposito di riscrittura, non sarebbe stato fuori luogo ipotizzare un ulteriore adattamento, cioè quello alla nostra contemporaneità: dopotutto, già l’originale trasportava Romeo e Giulietta dalla Verona rinascimentale alla Manhattan degli anni ’50. Ma lo sceneggiatore Kushner dice che l’idea non ha mai sfiorato nessuno, nemmeno per un momento. «Penso che le ragioni siano essenzialmente due. Non c’è nulla di datato nella colonna sonora, quelle di Leonard Bernstein per West Side Story sono musiche senza tempo, e Sondheim è stato uno dei più grandi scrittori di versi di sempre, un maestro in quel tipo di specificità che riesce a cogliere l’universale. Ma la lingua in cui sono scritte le canzoni è indubbiamente quella che si parlava nel 1957, avrebbe creato un contrasto strano piazzarla identica nel XX secolo», spiega Kushner. «Steven mi ha detto fin da subito che i nostri protagonisti avrebbero dovuto avere davvero l’aspetto di ragazzini di strada, emaciati, pallidi, “piccoli”, non trentenni che interpretano diciottenni, dovevano essere credibili in tutto. È stato fondamentale per noi trovare interpreti giovani, cercare in loro quella certa “durezza da strada”. E durante questo processo ci siamo interessati molto alla storia del quartiere in cui West Side Story è ambientato, un’area molto ampia che, poco dopo gli eventi raccontati nel musical, è stata distrutta dall’urbanista Robert Moses per edificare quello che oggi è il Lincoln Center. I Jets e gli Sharks, in sostanza, sono stati tutti buttati fuori di casa da un giorno all’altro, le loro case sono state demolite: oggi quel West Side non esiste più». «Abbiamo sempre pensato che, anche se dicevano di star combattendo per il controllo del proprio quartiere, il vero motivo dello scontro era razziale», aggiunge Spielberg. «Ma il territorio che ufficialmente sarebbe il loro oggetto del contendere è interamente oscurato dall’ombra della palla da demolizione, ed è per questo che il film comincia proprio così, con un’inquadratura di quella wrecking ball». «Una delle mie immagini preferite è quella su cui si chiude la canzone dei Jets, quella in cui i ragazzi cantano “sono il re del mondo” ma stanno letteralmente scalando un cumulo di macerie», chiosa Kushner.
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«È un film politico, più ancora dell’originale», interviene Rita Moreno, leggenda vivente di Hollywood, che nel West Side Story del 1961 interpretò il personaggio di Anita diventando la prima attrice latinoamericana a vincere un Oscar, e che in questa nuova versione incarna un nuovo carattere creato ad hoc, oltre a fare da produttrice esecutiva. «Passare il testimone non è stato facile, lo ammetto», confessa la diva, che ha compiuto 90 incredibili anni solo pochi giorni fa. «Dire che non ero invidiosa sarebbe una maledetta bugia: vorrei essere ancora così giovane e rifare tutto da capo, mille volte. Ma è ovviamente impossibile, e comunque in cambio ho ricevuto la parte di Valentina, scritta meravigliosamente per me: amo me stessa in questo film, amo ogni singola scena in cui compaio, e non sono cose che dico con leggerezza. L’unica scena che condivido con la nuova Anita (impersonata dalla stella in ascesa Ariana DeBose, nda) è stata però davvero disturbante, straniante. Lì ho faticato a entrare nel mio personaggio, perché in un certo senso quel che dovevo fare era salvare la vita di Anita, cioè una versione di me stessa in una vita precedente. È stato stranissimo».
«Quando Steven mi ha chiesto di lavorare alla sceneggiatura di una nuova versione di West Side Story, ho detto a mio marito Mark: “Mi ha chiesto qualcosa di impossibile, di totalmente folle. Come farò?”», ricorda ridendo Kushner. «Pensavo che, anche se fossi riuscito a fare un ottimo lavoro, non sarebbe stato nemmeno paragonabile all’originale. Ma Mark mi ha subito risposto: “Dovresti accettare, invece, e dovresti trasformare il personaggio di Doc in una donna portoricana, e chiedere a Rita Moreno di interpretarla”. Steven è stato entusiasta dell’idea, e Rita per fortuna ha accettato, una volta rassicurata che non si sarebbe trattato solo di un cameo». Come dicevamo, il nuovo West Side Story è, per molti versi, filologicamente fedele al materiale di partenza, ed è proprio sull’adattamento, su alcune variazioni, sulla rilettura di quel testo che hanno lavorato Spielberg e Kushner, portando maggiormente alla luce questioni e criticità che nell’originale erano taciute o scorrevano sottotraccia, soprattutto quella razziale, che negli Stati Uniti polarizzati di oggi risuona attualissima. Un esempio evidente di questo processo è la presenza nel film di diverse parti dialogate in spagnolo, che, proprio come le battute in inglese, in originale, non sono sottotitolate, per non rimarcare nessuna superiorità di una lingua su un’altra. «È una scelta che si fida molto del pubblico», conferma Moreno. «Lascia allo spettatore la responsabilità di decidere se impegnarsi a capire di più, a decifrare una lingua che magari non conosce… anche perché praticamente è tutto comprensibile, o deducibile dal contesto, prestando un po’ d’attenzione». «La mia speranza è che chi non parla spagnolo, vedendo il film, magari chieda qualche spiegazione in più a chi invece lo parla. Mi piace l’idea che persone con diverse lingue madri siedano insieme nello stesso cinema a guardare lo stesso film, fatto per loro: l’America non è un Paese monolingua».
Oltre alla grande Rita Moreno, il resto del cast è composto da volti abbastanza nuovi: Ansel Elgort nel ruolo di Tony e Ariana DeBose in quello di Anita sono probabilmente i più noti, mentre la protagonista Maria è un’assoluta debuttante, la giovanissima Rachel Zegler che, quando ha cominciato il processo di casting, aveva solo 17 anni. «Abbiamo fatto quattro mesi e mezzo di prove intensissime, durante le quali perfino io ho ballato e cantato, ovviamente stonatissimo e come se avessi tre piedi sinistri», rivela Spielberg. «Restare fermi era impossibile, c’era una tale vitalità nell’aria, e il nostro coreografo Justin Peck è riuscito a ritrovare lo stile di danza muscolare dell’originale, così coinvolgente e trascinante. Durante le riprese poi abbiamo avuto tre giorni di caldo intollerabile, ed erano proprio gli unici giorni in cui ci avevano concesso di chiudere al traffico le strade di Harlem per girare America», uno dei numeri più spettacolari e mozzafiato. «C’erano 39 gradi percepiti, la giornata sembrava infinita, bisognava ripetere la coreografia molte volte per effettuare anche tante riprese di copertura… abbiamo tolto un sacco di sudore grazie alla magia digitale in post-produzione! Uno dei pochi interventi digitali che abbiamo apportato, insieme alla cancellazione, per esempio, dei condizionatori dalle finestre dei palazzi. Comunque, girando America, nonostante il caldo soffocante, tutti i ballerini accoglievano con un entusiasmo travolgente ogni revisione collettiva dei filmati. C’era un’atmosfera gioiosa e unica. Ma per il giorno seguente ho deciso che avrei coperto di tasca mia i costi e spostato a un altro momento le riprese: non me la sentivo di sottoporre questi ragazzi straordinari a una tale tortura intollerabile per un’altra giornata».
Ancora una volta, come sempre nella filmografia spielberghiana, anche West Side Story è dunque diventato un affare di famiglia. «La lavorazione di questo film è stata per me la più piacevole dai tempi di quella di E.T.», confessa il cineasta, in conclusione. «Girando quel film mi ero sentito come un papà per tutti quei ragazzini, nonostante nella realtà non avessi ancora avuto figli… Anzi, fu proprio E.T. a farmi venir voglia di diventare genitore. Ecco, sul set di West Side Story per la prima volta da allora mi sono sentito davvero parte di una grande famiglia, molto variegata. E senza esserne per forza il centro, ma una parte del tutto». E in effetti, a lasciarsi trasportare, questa nuova rutilante versione di West Side Story farà sentire parte dello spettacolo anche i suoi spettatori.