«In realtà il titolo di lavorazione era Capitalism for Boys». Lo ha detto, scherzando ma neanche troppo, Paul King durante una piacevole conversazione con David Yates, il regista degli Harry Potter e gli Animali fantastici, un Q&A tra amici successivo alla proiezione in anteprima di Wonka riservata agli iscritti della BFE, il sindacato montatori britannico. Che ci facessi là sono affari miei, ma vista la situazione più riservata il regista di Paddington e soprattutto di Paddington 2, il film preferito di Pedro Pascal e Nicolas Cage, si è lasciato più andare rispetto alle interviste ufficiali rilasciate nel corso dei mesi di una promozione rimasta quasi completamente sulle sue spalle a causa dello sciopero degli attori.
«Wonka per me non ha il sapore di una cioccolata, ma del pranzo della domenica a casa di mia nonna quando ero bambino». Ha detto anche questo, e le due frasi combinate sono la sintesi perfetta di quello che effettivamente è questa origin story del cioccolataio matto nato dalla fantasia di Roald Dahl, uno che di “cioccolata” deve averne mangiata tanta. A chi, e incredibilmente non sono pochi, dice che non si sentiva il bisogno di conoscere la giovinezza del personaggio si potrebbero dire molte cose, ma la risposta migliore l’ha data lo stesso King, realizzando un film che più classico non si può, e in questo mondo terrorizzato dalle intelligenze artificiali è un segnale quasi di speranza per il cinema del futuro. Come mi ha detto lo stesso Timothée Chalamet, «non abbiamo lavorato con sfondi verdi e palline da tennis: quasi tutto quello che si vede nel film è reale, Paul ha fatto costruire una città intera per immergerci nel mondo di Wonka, e questo ci ha aiutato a rendere il tutto ancora più vero».
Ed è così, perché che da qualche parte sia esistito questo ragazzo andato in giro per il mondo per imparare l’arte della cioccolata mischiandola con la magia alla fine ci si crede davvero, e non solo perché lo hanno interpretato quando già trasformato in Howard Hughes (o Elon Musk, se non sapete chi fosse il vecchio HH) Gene Wilder e Johnny Depp. A proposito di Gene, una spettatrice che ha fatto una domanda a Paul King lo ha confuso con Kelly, e mai errore fu più provvidenziale. «Gene Kelly che fa Willy Wonka, questo lo avrei voluto vedere», ha commentato lui. Ed è vero, perché è quello che ha fatto. Quando il giovane Wonka arriva in città, scende da un lampione esattamente come Gene in Cantando sotto la pioggia. Perché Wonka, sia ben chiaro, è un musical vecchio stile, con i protagonisti che a un certo punto iniziano a cantare di punto in bianco. E si balla pure, con numeri musicali che non hanno niente da invidiare ai film degli anni Cinquanta e Sessanta, quelli con quei bei colori pastello della nostra infanzia. Film per famiglie, ma molto cinefilo, come d’altronde i due Paddington che, Cage e Pascal a parte, sono effettivamente due grandi film, soprattutto perché King ha questa innata capacità di creare dei mondi ideali in cui immergere i suoi personaggi.
La Londra di Paddington sarebbe bellissima se esistesse davvero, come lo è d’altronde la città dei cioccolatai. Ma in entrambi i casi queste scenografie da sogno vengono sporcate dalla realtà dell’umanità, quella capace di qualunque meschineria. E in questo caso, come enunciato all’inizio, il lato politico, quasi sovversivo del film non viene neanche lontanamente mascherato. Wonka è un proletario a cui viene tolta anche la possibilità di sognare da parte di un cartello di biechi capitalisti che con il loro potere si sono comprati anche la giustizia, e solo quando il popolo si unisce è possibile sconfiggerli. Più che Capitalism è The Capital for Boys, condito da una bella dose di cinefilia, in cui il musical è solo la parte più appariscente e scintillante. King si diverte a disseminare le sue passioni, addirittura cita apertamente L’Atalante di Jean Vigo, mischia i generi e contamina le culture (i numeri musicali tradiscono anche una passione per Bollywood, ma senza mai eccedere).
Insomma, è proprio un bel film Wonka, e lo è anche grazie a Timothée Chalamet, che nel personaggio si cala con grande convinzione. E francamente, visto chi ha avuto nel ruolo prima di lui, non era semplicissimo. «Ovviamente ho sentito la responsabilità, ma il Willy che mi ha affidato Paul è un giovane uomo pieno di sogni, non il disilluso proprietario della più grande fabbrica di cioccolato del mondo», mi ha detto Timothée, oltretutto felicissimo di poter promuovere il film dopo i mesi di sciopero. «Ero davvero preoccupato, mi sarebbe dispiaciuto moltissimo non poterlo accompagnare, ma per fortuna è finito giusto in tempo e con una grande vittoria per la nostra categoria«. Ah, Chalamet, anche sindacalista!
Ma a parte ciò, il punto è sempre lo stesso: denaro e potere non danno la felicità. Willy vuole portare gioia al mondo con la sua cioccolata per una ragione ben precisa, che non svelo, ma che fa venire più di un luccicone. Wonka è un instant classic, uno di quei film che si vedranno nei Natali futuri con tutta la famiglia, in folle equilibrio tra Dickens, Minnelli e Karl Marx. E con Hugh Grant che fa l’Umpa Lumpa in acido stregatto. Ma cosa si può chiedere di meglio? Ah sì, che la storia non finisca qui. «Francamente mi piacerebbe fare un seguito», ha detto King. «Credo che Willy abbia ancora molte storie da raccontare prima di arrivare al punto in cui mette in palio la fabbrica con il biglietto d’oro. Lo scrive lo stesso Dahl nel romanzo che è arrivato a quel punto perché tradito dalle persone di cui aveva fiducia, sarebbe bello seguire la trasformazione del personaggio. Purtroppo non dipende da me, se il film sarà un successo allora ne parlerò con i signori della Warner Bros». E dato che anche Timothée ha detto che si rimetterebbe volentieri la palandrana viola e la tuba, aspettiamoci nuove avventure dal mondo della cioccolata in un prossimo futuro.