Woody per caso
Da dove si comincia una chiacchierata con Woody Allen, non si può, troppa roba. Ecco l’intuizione: deciderà il caso. Ci diamo al ‘coup de chance’, al ‘Colpo di fortuna’, come vuole il suo nuovo film, ennesima variazione su un tema da lui (e da noi) amatissimo. Una busta con dentro le domande, stupide e intelligenti insieme: sarà lui a pescarle, e come va va. Ne è venuta fuori una conversazione che mischia passato e futuro, accordi e disaccordi. E una domanda cruciale: quest’opera numero 50 non sarà l’ultima, vero?
Illustrazione: Grazia La Padula
Da dove si comincia una chiacchierata con Woody Allen, non si può, troppa roba, e allora – un po’ paraculo, lo ammetto – ho un’intuizione: deciderà il caso! Ci diamo al coup de chance, al colpo di fortuna, come vuole il suo nuovo film, ennesima variazione sull’amatissimo (da lui, da noi) tema. Prendo una busta, ci metto dentro un po’ di bigliettini con le domande, stupide e intelligenti (si spera) insieme, shakero, e poi sarà lui a pescarle, come va va. Finirà che la chiacchierata sarà lunga, e che i bigliettini verranno fuori quasi tutti.
Sul tappeto rosso di Venezia, quando è venuto a presentare appunto Un colpo di fortuna – Coup de chance (nelle sale italiane dal 6 dicembre con Lucky Red), l’ho abbracciato come segno di gratitudine, a nome mio e di tutti quelli che gli sono appunto grati per i film, per tutto, per essere stato ed essere ancora Woody, ancora di più in questo momento in cui qualcuno (in patria molti) gli mostra, ingiustamente, solo ingratitudine.
Lo ritrovo, pochi giorni dopo, in un grande albergo di Roma, io ancora stravolto dal Lido e lui invece in tour con la sua jazz band per mezza Europa, instancabile, una rockstar. Il giorno in cui uscirà questa cover story di Rolling Stone, il 30 novembre, compirà 88 anni. Lo vedo da lontano, Soon-yi svicola in un altro corridoio, lui viene verso la stanza del nostro appuntamento accompagnato dalla sorella Letty Aronson, sua produttrice da tanti anni. Sembrano due vecchietti pronti per una visita guidata ai Musei Vaticani, invece insieme hanno creato mezza filmografia di lui, da Pallottole su Broadway a oggi.
Dico a Woody Allen del giochino. «Okay, okay… coup de chance questions. Okay». È divertito. Prima, però, parliamo di questo film, l’ultimo, e lui ha fatto sapere che sarà l’ultimo in tutti i sensi, Dio non voglia. Il colpo di fortuna (e sfortuna) è quello tra Fanny e Alain (Lou de Laâge e Niels Schneider), ex compagni di liceo, futuri amanti. Lo capiamo dalla primissima scena, senza troppi preamboli come sempre accade nel cinema di Allen: si ritrovano per strada a Parigi, lei è sposata bene a un riccone un po’ idiota (Melvil Poupaud), lui è rimasto un aspirante scrittore ancora spiantato, con una vita bohème. Ci sarà un amore, e quello che pare un omicidio, e un geniale match point finale per cui, a vincere la partita, è sempre Woody e la sua idea di cinema e di mondo.
Coup de chance è il suo primo film girato in una lingua che non è l’inglese, con un cast interamente francese. Gli dico che finalmente ha realizzato il suo sogno: diventare un regista europeo. «Sì, mi sono fatto un regalo, sono stato molto generoso con me stesso». Girare in Francia, e in francese, è stato diverso, gli chiedo. «No no, non è stato difficile per niente, avevo lavorato con troupe straniere tante altre volte, e tutto il cast parlava inglese, se dovevo dare delle indicazioni parlavo direttamente con gli attori. Loro capivano e seguivano le indicazioni, anche se gliene ho date poche, se mai erano loro a dirmi “Io magari la farei più così, più colloquiale”, e io gli lasciavo usare le parole che volevano, l’importante era che capissero il significato della scena. Se, per dire, il personaggio deve chiedere il divorzio alla moglie, non m’importa che l’attore usi le mie parole o le sue, m’importa che allo spettatore quella scena arrivi». Ma qualcuno penserà “Come faccio a cambiare le parole di Woody Allen?”, dico io. «Sì, ogni tanto succede, io gli dico “Sei libero di fare quello che vuoi, improvvisa”, loro rispondono “Grazie, fantastico”, ma poi quando giriamo la scena ripetono esattamente quello che avevo scritto io. Altri invece sono molto liberi, inventano, e a me non importa, se loro si sentono meglio verranno meglio anche le battute».
Siamo già dentro un film di Woody Allen, possiamo cominciare il giochino.
Mi scuso fin dal principio: ci saranno anche domande stupide.
Non si preoccupi, sono abituato alle domande stupide.
[Bigliettino #1]
Col primo mi è andata bene. Nell’Accademia del Sopravvalutato di Manhattan (lui sorride) cosa metterebbe oggi?
Ah, tantissime cose oggi sono sopravvalutate. Non voglio offendere nessuno, ma moltissimi aspetti della cultura contemporanea sono sopravvalutati, e invece la gente ne va pazza. Per esempio, e non farò nomi, ci sono tanti comici, e anche tanti registi di commedie, che passano per geni della comicità, ed è assurdo perché non solo non sono dei geni: non sono nemmeno bravi. E invece passano per geni perché il nostro tempo ha bisogno di eroi, e la stampa gli va dietro… ecco, tutto questo è decisamente sopravvalutato.
Mi tocca chiederle se lei si sente un genio della comicità.
Le persone mi hanno chiamato genio molte volte, ma io so di non esserlo. Ci sono molte persone divertenti, ma il genio comico è un’altra cosa. I geni sono degli incidenti della Storia, Leonardo da Vinci era un genio. È solo questione di caso, di fortuna.
[Bigliettino #2]
Questo foglietto speravo uscisse più tardi, mi ha chiesto un amico di metterlo nella busta. Vorrebbe sapere che scarpe indossa, perché gli piacciono molto.
Okay (si concentra molto). Allora, per anni ho sempre usato scarpe di pelle italiane molto pesanti, mi piacevano moltissimo. Poi due o tre anni fa sono andato dal podologo, e lui mi ha detto: “Lei non deve mettersi quelle scarpe, non vanno bene per la sua schiena, deve passare a scarpe più leggere”, e quindi così ho fatto. Poi un giorno il mio amico Tony Roberts (attore comparso in molti film accanto a Woody Allen, da Provaci ancora, Sam a Io e Annie e Hannah e le sue sorelle, nda) va in un negozio di scarpe per comprarsene un paio per sé e vede queste scarpe francesi senza lacci, con la zip, e ne prende un paio anche a me: “Sono la cosa più comoda del mondo, non devi neanche allacciarle!”. E sono davvero un’invenzione meravigliosa, anche solo per il fatto che non allacciarsi le scarpe ti fa risparmiare un sacco di tempo. Quindi ora, lo dica al suo amico, mi metto queste scarpe francesi con la zip, e ho scoperto che ne esistono altre addirittura senza la zip, le infili come delle pantofole: quelle forse sono ancora meglio.
[Bigliettino #3]
Direbbe che il cinema l’ha aiutata non a vivere, proprio a sopravvivere?
Oh sì, certo, ho fatto una vita bellissima grazie al cinema, fin da quando non avevo neanche trent’anni. Ho potuto fare un film dopo l’altro, ed è un bellissimo modo di lavorare, molto meglio che andare in ufficio, o fare il cameriere, o l’ascensorista. E fare cinema è stato anche meglio che continuare a fare il cabarettista e lavorare sei sere a settimana, fare due spettacoli a sera, e nel weekend anche tre, e poi andare in un’altra città e ricominciare da capo… Il cinema ti permette di fare una vita molto comoda a fronte di una paga anche artistica altissima. Non è come lavorare davvero.
[Bigliettino #4]
L’invidia è un sentimento che le appartiene?
Certamente. Ci sono registi, anzi direi artisti, che ho invidiato tantissimo, perché sono – loro sì – dei geni. Ingmar Bergman, Orson Welles… loro hanno fatto film molto migliori di quelli che sono riuscito a fare io. Ho sempre sperato di poter essere come loro, di fare film come i loro.
[Bigliettino #5]
Nella sua autobiografia, A proposito di niente, dice che, se è diventato quello che è diventato, è stato principalmente per fare colpo sulle ragazze. Si è messo a leggere Balzac e Tolstoj solo per poterli citare con loro.
È vero, quand’ero giovane non avevo nessun interesse per la lettura. Non sono mai stato un grande lettore, ho sempre preferito lo spettacolo, leggevo quando proprio non avevo nient’altro da fare. Da ragazzino leggevo i fumetti, quelli sì, ma mi piaceva di più la radio, i varietà. Quando son diventato più grande e ho iniziato a conoscere persone molto più colte di me non riuscivo a stargli dietro, e allora ho cominciato a leggere. Ma ancora adesso raramente leggo solo per piacere, se devo divertirmi allora vado a teatro, o a vedere un film, o ascolto musica. Se sono chiuso in una stanza d’albergo o sono su un aereo, e non posso proprio fare altro, allora leggo.
Che cosa?
Romanzi quasi mai. Un po’ ne ho letti, ma di base leggo quando non devo divertirmi: se mi diverto, penso che sto perdendo tempo. Perciò leggo cose pesanti, testi di filosofia, roba così, perché sono convinto che da lì potrò trarre qualche significato profondissimo. Probabilmente succederebbe anche con un bel romanzo, ma poche volte ho letto dei libri pensando che fosse un’esperienza davvero piacevole.
Quando è successo?
Con Il giovane Holden, quando l’ho letto la prima volta. E con Un bacio prima di morire di Ira Levin. Ah, anche A sangue freddo di Truman Capote mi è piaciuto molto.
[Bigliettino #6]
Invece oggi che film guarda?
Non tanti film di adesso, devo dire. Guardo vecchi film, e qualcosa di nuovo solo se un amico mi dice che devo assolutamente vederlo. A New York arriva ancora qualche bel film messicano, o iraniano, o israeliano, ma una volta trovavi centinaia di film francesi, italiani, europei… era meraviglioso.
Qualche film recente che le è piaciuto?
(Ci pensa su) Un paio di documentari che sono andato a vedere al cinema, ce n’era uno davvero molto bello su Tennessee Williams e Truman Capote (Truman & Tennessee: An Intimate Conversation di Lisa Immordino Vreeland, nda). Per il resto non saprei, mi sono sempre piaciuti molto i film di Scorsese, aspetto l’ultimo, so che mi piacerà anche quello. E so che mi piacerà anche il nuovo film di Sofia Coppola, perché anche i suoi film li trovo sempre molto belli.
[Bigliettino #7]
A Venezia Valérie Lemercier, che in Coup de chance interpreta il magnifico personaggio della madre di Fanny, mi ha assicurato che, a differenza di quello che ha dichiarato lei, questo non sarà il suo ultimo film.
Non lo so ancora se farò un altro film, e per due motivi. Il primo è che ho sempre problemi a trovare i finanziamenti, e sono stufo di andare in giro a chiedere soldi e faticare per ottenerli. Se qualcuno busserà alla mia porta e mi dirà “Finanzieremo il tuo prossimo film”, allora probabilmente mi verrà la tentazione di farne un altro. Ma non ho più voglia di andare in giro a cercarli da solo, cinquanta film sono più che sufficienti. L’altro motivo è che non voglio lavorare a un film che resterà nelle sale per due settimane e poi andrà direttamente in streaming: il cinema per me non è questo, non ho cominciato così, l’industria del cinema non era così, era molto più glamour, molto più divertente. Facevi un film e migliaia di persone correvano in sala, e il film restava nei cinema per sei mesi, e tutti facevano la coda per vederlo. Ora è diventato tutto anonimo, due settimane e poi il film scompare, le persone lo guardano in camera da letto, non hai più nessun contatto con loro. Ma se qualcuno mi dice che ha i soldi per farmi fare un film, come posso resistere? Sarebbe impossibile.
Se invece Coup de chance fosse davvero l’ultimo, non avrebbe rimpianti?
No, sono molto felice così. Potrei scrivere per il teatro, o scrivere dei libri. Se non facessi un film per anni, poi magari ne avrei nostalgia. Anche perché credo di avere ancora qualche buona idea.
[Bigliettino #8]
Il film, tra i suoi, di cui è davvero fiero.
Qualcuno c’è. Mi piace Match Point, mi piace Midnight in Paris, e La rosa purpurea del Cairo, Pallottole su Broadway, Mariti e mogli, Zelig. Ho fatto cinquanta film e forse, se sono davvero indulgente con me stesso, riesco a trovarne otto, facciamo dieci, che considero buoni. Ma non più di dieci.
Quello che proprio non le piace, invece?
Ma sa, fare un film dà sempre un grande piacere. Lavori con persone simpatiche, di grande talento, mettere insieme tutti i pezzi è bellissimo. Il brutto arriva quando il film è finito, lì provi una sensazione davvero terribile. È successo tante volte, anzi direi quasi sempre.
[Bigliettino #9]
La paura della morte peggiora, col passare del tempo?
Il fatto è che tutti abbiamo un istinto di autoconservazione, anche se non saprei darle le motivazioni. Vogliamo restare vivi, persino in questo mondo in cui la vita non è poi così divertente. Però non ti uccidi, proprio perché c’è quell’istinto misterioso che ti porta a voler sopravvivere.
[Bigliettino #10]
Ci sono attori che le hanno detto di no?
Tantissimi. C’è stato per moltissimo tempo questo mito secondo cui chiunque a cui avessi chiesto di lavorare con me sarebbe venuto di corsa, e invece non è mai stato vero. Anche gli attori che dicevano “Il mio sogno sarebbe lavorare con te” quando poi gli offrivo una parte rispondevano “Mi dispiace ma son già impegnato”, o “Non ci sono abbastanza soldi”. Sean Penn, per esempio, ha detto per anni che avrebbe voluto recitare in un mio film, io gliene ho offerti tre e lui ha sempre rifiutato, ce l’abbiamo fatta solo molti anni dopo (nel 1999 con Accordi e disaccordi, nda).
[Bigliettino #11]
Un altro bigliettino richiesto da un’amica. Torniamo a Manhattan: passati quarant’anni, Isaac cambierebbe idea? Voglio dire, adesso preferirebbe Mary (Diane Keaton) a Tracy (Mariel Hemingway)?
Dopo così tanti anni… sì, direi che potrebbe succedere.
In generale, oggi rispetto a certi suoi film farebbe scelte diverse?
Assolutamente, per questo non li rivedo mai. Prendi i soldi e scappa l’ho girato più di cinquant’anni fa e non l’ho mai più rivisto. Mai. Se lo rivedessi, sono sicuro che farei un milione di scelte diverse, e mi seccherebbe moltissimo.
[Bigliettino #12]
Direbbe che il mondo a cui appartiene davvero è la scrittura, ancora più della regia e della recitazione?
Di sicuro è più divertente e più comodo. Scrivo a casa, decido io i miei orari, quando non ho più voglia smetto, mi metto a suonare il clarinetto o vado a pranzo. Quando giri un film senti subito il tempo che corre, tic toc, devi fare tutto di corsa perché ogni minuto costa migliaia di dollari. Ti svegli presto tutti i giorni, sali in macchina, ti ritrovi in qualche posto buio e freddissimo. Dirigere un film è un duro lavoro, anche se certo non è come lavorare in un’impresa di costruzioni o guidare un taxi. È certamente più facile, però passi comunque tutto il tempo a lamentarti.
[Bigliettino #13]
Oggi siamo condannati a film lunghissimi, lei invece resta fedele – e di questo la ringrazio di cuore – alla sua durata tradizionale: un’ora e mezza.
È il mio ritmo. Tanti anni fa ho lavorato a un film di Paul Mazursky, un regista che amo molto, e il suo ritmo è due ore, due ore e dieci. Io invece, forse perché ho sempre scritto commedie, penso che i film debbano andare veloci (fa clap clap con le mani). Fin dall’inizio, anzi, il mio problema era che i miei film erano troppo corti, eravamo in sala di montaggio e ci dicevamo: “Oddio, abbiamo solo un’ora e dieci di film, dobbiamo trovare da qualche parte altri 20 minuti che non siano noiosi, e invece tutto quello che abbiamo è noiosissimo”. Ma io non riesco ad avere un altro ritmo, se il film non va spedito m’innervosisco, e anche se non lo decido mai in partenza, alla fine i miei film vengono tutti così, di un’ora e mezza, poco più poco meno.
[Bigliettino #14]
Dove si posizionerebbe, nella storia del cinema? Perché io – e tanti altri – la metterei quassù (faccio un segno con la mano ben al di sopra delle nostre teste).
Sono un regista che ha lavorato tanto, ho fatto cinquanta film e qualcuno mi è venuto bene, ma non ho mai fatto un grandissimo film. Sono solo stato uno di quei registi americani che hanno iniziato in un periodo fortunato, dopo che lo Studio system era crollato e potevi essere un regista indipendente, e prima che lo streaming rovinasse tutto. È andata semplicemente così.
[Bigliettino #15]
Guarda il profilo Instagram di sua figlia Bechet? Perché direi che ha ereditato l’umorismo da lei, mette queste foto deliziose di voi al ristorante vietnamita davanti al phở e sopra la sua faccia scrive: “Lui voleva la pizza”.
No no, su Instagram non la guardo, non saprei proprio come fare. Ma Bechet è molto divertente, è vero. Molto.
[Bigliettino #16]
Deve scegliere una sola cosa per il resto della vita: i film, il jazz o il baseball.
Oh… se la mette così, allora dico i film. Perché non potrei ascoltare il jazz all’infinito, o guardare partite di baseball all’infinito: sono due occupazioni piacevolissime e anche per molto tempo, ma non per sempre. Quindi sceglierei i film, perché lì hai delle variazioni, le trame cambiano… e poi amo fare film.
Grazie, Woody.
A lei. E mi raccomando, quella busta coi bigliettini non se la faccia rubare da nessuno.