Il primo film da regista di Charlotte Gainsbourg è, inevitabilmente, un film su sua madre. Un dialogo tenero e impossibile fra loro, e anche con il film che meglio ha compreso l’attrice la musa l’icona (lei sì), cioè Jane B. par Agnès V., firmato da Agnès Varda trentacinque anni prima. Quello della figlia s’intitola specularmente Jane by Charlotte e ci dice, molte stagioni d’arte e di vita dopo, che in realtà Birkin non si può raccontare, (non) l’ha potuto fare la regista più grande di Francia nell’88 e (non) lo può fare sua figlia oggi, il che rende ancora più imprendibile il suo mistero.
Jane Birkin forse non voleva essere Jane Birkin, non voleva essere niente, ed è stata tutto. La donna più bella del mondo. La moglie di. La cantante sospirosa e scandalosa che oh oui, je t’aime. L’attrice di Blow-Up (per un attimo: “la ragazza bionda”), della Piscina (per sempre: la ragazza di Alain Delon, e di tutti), dei blockbuster gialli, gli assassini sul Nilo e i delitti sotto il sole, e poi degli autoroni Nouvelle (e post) che l’hanno capita più di tutti, da bella scontrosa qual era, Rivette, Resnais, Tavernier, ancora Varda, pure Godard. È stata pure una borsa di lusso (Hermès), lei che era sempre stata hippie, anche in quest’ultimo documentario che la ritrae e da cui si sottrae, con i suoi camicioni bianchi, i capelli spettinatissimi, la casa di campagna disordinata come lei.
Non si vuole far riprendere, Jane B., dalla figlia né da nessuno, andate via, non c’è più niente da dire, forse non c’è mai stato. E poi però concede tutto, dà tutto, come negli ultimi recital, come nell’ultimo meraviglioso album Oh! Pardon tu dormais, “scusa, dormivi”, detto forse a sé stessa, animale dormiente e però sempre vigile del cinema, della musica, della (contro)cultura dagli anni ’60 ad oggi.
È sopravvissuta agli scandali del e col suo Serge, ai lemon incest di famiglia, agli amori, alle tragedie, il suicidio della figlia Kate, avuta dal compositore inglese John Barry, quello del tema di James Bond, per dire gli attraversamenti, l’essere sempre capitata dove c’era quello che oggi si dice, malamente, iconico. È sopravvissuta alla sua stessa bellezza, alla sua voce sbagliata e per questo favolosa, al suo appartenere sempre all’occhio di qualcun altro, al suo essere sempre “di” qualcun altro.
E se questa, invece, fosse stata la sua libertà? La libertà di scomparire essendo sempre presente. Di darsi così tanto agli altri perché, in fondo, sapeva di appartenere solo a sé stessa. Forse è successo questo, succede anche a noi ancora adesso, ogni volta che rivediamo una sua foto, la camicia, il cappello di paglia, Saint-Tropez, l’estate, il Novecento. Succede ancora che Jane B. è – per un attimo, per sempre – nostra, come lo era stata di Serge Gainsbourg, di Agnès Varda, di Charlotte Gainsbourg, quella a cui, alla fine, si concede più che a tutti, più di tutto.
Era stata – faccio come tutti i giornalisti mitomani di questo mondo, che s’illudono sempre d’aver preso un briciolo di quella polvere, di quelle stelle – anche mia, in un’intervista al telefono di qualche anno fa. Era inevitabile, nella mia piccolezza, ricordare “di chi” era stata, lei mi disse: «Ma una può accorgersene, di essere stata una musa? La musa di Picasso, in quel momento, sapeva di esserlo?». E rise, come solo Jane B. sapeva, poteva, ridere.