Jimi Hendrix che nel 1967 incendia la chitarra al Monterey Pop Festival e Johnny Cash che, un paio d’anni dopo, spara il dito medio nel carcere di San Quintino sono immagini passate alla storia della cultura pop grazie all’occhio sempre vigile e alla mano perennemente pronta a scattare di Jim Marshall, fotografo americano che ha vissuto in prima linea l’epopea rock’n’roll, diventandone prima gran cerimoniere e poi, come tanti altri nomi illustri dell’epoca, vittima.
La sua vita sulle montagne russe è ora raccontata nel documentario di Alfred George Bailey Show Me The Picture: The Story of Jim Marshall (il 2, 3 e 4 marzo al cinema): immagini d’archivio e testimonianze postume ricostruiscono ascesa e declino di un personaggio che aveva tre – anzi, quattro – grandi passioni. «Ho sempre amato automobili, pistole e macchine fotografiche», dice Marshall nel film. «Le auto e le armi mi hanno sempre fatto finire nei guai, le macchine fotografiche no». La sua quarta devastante passione era la cocaina.
Oltre alla voce in prima persona di Jim Marshall, morto nel 2010 a 74 anni, in questo documentario parlano amici, collaboratori, colleghi prestigiosi come Bruce Talamon, Michael Zagaris, Anton Corbijn, e celebrità ben assortite tra cui Peter Frampton, Graham Nash e Michael Douglas. Ed è proprio Douglas, che aveva conosciuto Marshall ai tempi della serie tv Le strade di San Francisco, a descriverne in modo estremamente semplice tutti i pregi e tutti i difetti: «Jim Marshall era rock’n’roll».
Piccoletto dal grande talento, «nano stronzo» come lo ricordano in molti, Jim Marshall era emigrato da Chicago a San Francisco da bambino: sempre con la macchina fotografica al collo, una Leica di cui si era innamorato sui banchi di scuola, aveva cominciato a scattare la scena musicale nera tra jazzisti e musicisti blues – John Coltrane, Miles Davis, Dizzy Gillespie – offrendo al mondo un’inedita testimonianza dei cambiamenti sociali e culturali dell’epoca, deflagrati con il movimento hippie e la Summer of Love.
Monterey, Woodstock, Altamont: Jim Marshall era lì, le immagini che vi compaiono davanti agli occhi pensando a quegli eventi sono sue. Per Jefferson Airplane e Grateful Dead era uno di famiglia; per lui, le porte dei camerini di Jim Morrison, Janis Joplin, Rolling Stones non erano aperte, ma spalancate. Il pass per il backstage? Lo spiega lui stesso in un’intervista d’epoca: il rispetto per l’intimità degli artisti, e un’incredibile bravura nel catturare il fuoco sul palco e la quiete dopo la tempesta. Le band lo riconoscevano come uno di loro, un outsider borderline, una rockstar della fotografia.
Jim Marshall è stato l’unico a fotografare i Beatles in pieno relax dopo l’ultimo vero concerto della loro carriera, a San Francisco nel 1966. Bizzarra l’omonimia con un altro pilastro del rock&roll, il papà degli amplificatori Jim Marshall, e infinite le leggende sulle sue foto, sulla sua vita. È di Marshall il ritratto di Bob Dylan che fa rotolare uno pneumatico lungo un marciapiede del Greenwich Village nel 1963, ma non è vero che la canzone Like a Rolling Stone sia stata ispirata da quell’immagine. E chissà se Dennis Hopper si ispirò davvero a Jim Marshall per il proprio ruolo da fotoreporter nel film Apocalypse Now: certo è che Marshall e Hopper si conoscevano, erano amici e trascorrevano giornate apocalittiche in compagnia di Nico e Brian Jones dei Rolling Stones, tutti carburati a dovere.
Marshall non ha fotografato solo la musica, ma la storia di un intero Paese, gli Stati Uniti degli anni ’60: dai movimenti pacifisti in marcia contro la guerra del Vietnam ai cittadini americani spaesati, distrutti dopo l’assassinio del presidente Kennedy. Sogni e incubi. E le sue foto sono finite sulle copertine dei giornali più importanti di allora, Newsweek, Esquire, Life e, naturalmente, Rolling Stone: Brian Jones (in edicola il 9 agosto ’6), Hendrix (15 ottobre ’70), Janis Joplin (29 ottobre ’70), solo per citare tre star ritratte senza filtri da Jim Marshall.
Il giocattolo si è rotto con l’evoluzione-devoluzione del music business: quando a metà degli anni ’70 le etichette discografiche e i manager hanno cominciato a proteggere maniacalmente le star, le porte aperte per uno come Marshall sono diventati muri invalicabili. Irascibile, era uno che, più che alle mani, veniva alle armi. E tra coltelli e fucili collezionati con tanto amore, è andato lentamente alla deriva finendo nei guai con la legge: arrestato, schiacciato dalla cocaina.
Le voci più profonde che ricordano e provano a spiegare chi fosse in realtà Jim Marshall appartengono a due donne entrate nella sua vita negli anni ’80, quando era ormai lontano dallo star system: Michelle Margets, allora studentessa di giornalismo alle prese con una tesina della serie “Che fine hanno fatto?”, e Amelia Davis, diventata poi la sua assistente.
Entrambe tentano di mettere insieme i pezzi del puzzle Marshall, un maestro di contraddizioni, pazzo furioso capace di penetrare cuore e anima di chi gli stava intorno: nei momenti peggiori si chiudeva in casa, lontano da tutti per non ferire nessuno. Aveva un desiderio: non essere ritrovato morto in condizioni orrende – ucciso dai propri eccessi – dalla sua assistente e, per sua fortuna, se n’è andato pacificamente a 74 anni, da solo, nel sonno, con un libro appoggiato sul petto in una stanza d’albergo di New York.