I film italiani Voto: 8
Cinque film italiani in concorso sono troppi? No, se la selezione è questa. E poi a Cannes i francesi la fanno sempre questa cosa di infilare centordici titoli nazionali in competizione: e quasi mai sono tutti all’altezza. Il direttore Alberto Barbera, anche quest’anno, non ha fallito, e il risultato è una selezione “patria” che spazia da autori già affermatissimi (lo stavolta doloroso e personale Sorrentino di È stata la mano di Dio, il napoletanissimo e centratissimo Martone di Qui rido io), nuovi nomi – si fa per dire – che nelle ultime stagioni hanno cambiato le regole del gioco (Mainetti qui con il kolossale Freaks Out, i Fratelli D’Innocenzo al battesimo veneziano con America Latina) e sguardi duri e puri più da critici che da pubblico, ma apprezzabili per il loro rigore (Michelangelo Frammartino con Il buco). Ma anche nelle sezioni collaterali si affacciano conferme interessanti: vedi, su tutti, Lovely Boy di Francesco Lettieri. Fuori concorso, invece, un altro titolo che ha folgorato la stampa italiana: Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, starring Toni Servillo e Silvio Orlando. La cosa che si sente ripetere più spesso in questi giorni è: «Meritava il concorso». Verissimo, a riprova della ricchezza del nostro panorama e, soprattutto, alla faccia di chi ci vuole male, come ha detto Maria Nazionale sul tappeto rosso di Martone. Nella fattispecie: il giornalista spagnolo che, uscito dalla proiezione di un film “made in Italy”, ha urlato: «Il cinema italiano è morto». Parla per te.
Le quote rosa Voto: 6
Se hai Jane Campion in concorso, le quote rosa (per capirci: sappiamo anche noi che l’espressione è bruttissima) sono comunque ampiamente coperte. The Power of the Dog non ha convinto tutti, ma è un dramma d’Autrice (maiuscola) inappuntabile e benissimo recitato (Benedict Cumbermatch ha già opzionato una nomination ai prossimi Oscar), nonché la riprova del talento di uno dei più grandi nomi del panorama cinematografico degli ultimi trent’anni. Il resto è, quantomeno, contestabile. Qualcuno, all’annuncio dei titoli in gara, ha accusato Barbera di non aver incluso abbastanza registe donne. Ma l’attenzione nei confronti delle autrici è, da parte della Mostra, indiscutibile: vedi la presenza, nella giuria del concorso, di Chloé Zhao, qui vincitrice del Leone d’oro l’anno scorso con Nomadland (e poi del doppio Academy Award per film e regia). Il resto della competizione non ha veri e propri picchi: Mona Lisa and the Blood Moon di Ana Lily Amirpour è piaciuto a molti, ma resta un detour un po’ prevedibile rispetto al solito immaginario già sfoderato in The Bad Batch, premiato qui cinque anni fa; L’événement di Audrey Diwan, tratto da Annie Ernaux, ha un’idea di cinema radicale ma non certo originalissima, nel raccontare una storia di aborto quando l’aborto era vietato; Maggie Gyllenhaal, all’esordio con The Lost Daughter (based on Elena Ferrante), non mette d’accordo tutti, ma rappresenta la quota divismo – oltre a lei dietro la macchina da presa, nel cast ci sono Olivia Colman e Dakota Johnson – che a un festival serve per altri (e ovvi) motivi.
Alla fiera dell’Est Voto: 3
Venezia grandi film e grandi nomi? Sì, per quel che riguarda la Biennale. Ma tutto ciò che è “off” è, molto spesso, una sagra della porchetta lunga undici giorni. Se hai un qualsivoglia progetto e non lo porti a Venezia, non sei nessuno. E allora ecco l’invasione nella posta dei comunicati stampa su qualsiasi presentazione o evento (o pseudo tale). In ogni pavilion, altra parola abusatissima da queste parti, puoi trovare l’annuncio del film starring Lino Banfi e Ronn Moss (tutto vero) come il panel, pure questo immancabile, della Maremma Film Commission (quest’ultimo l’abbiamo inventato noi, ma è molto verosimile). Purtroppo, tra Covid e barriere, c’è meno struscio di quel “generone” affezionatissimo al Lido: ancora non abbiamo avvistato il sosia di Pavarotti che va avanti e indietro sul lungomare tra Excelsior e Palazzo del cinema. Forse, meglio così.
Il red carpet de-americanizzato Voto: 7
Se nella prima settimana sul red carpet hai Timothée Chalamet, Zendaya, Kristen Stewart, Anya Taylor-Joy (e altra mezza Hollywood), è ovvio che poi ti chiedi: e mo’, non c’è più nessuno? Per “colpa” del festival di Telluride, dove tutti i titoli caldi della prossima Awards Season sono fuggiti dopo la première mondiale veneziana, il tappeto si è svuotato della presenza ammerigana. Ma svuotamento non ha significato impoverimento: dai nostri divi italiani (Claudio Santamaria, Benedetta Porcaroli, Pietro Castellitto, Valeria Golino, Elio Germano, il presentissimo Toni Servillo e il lanciatissimo Eduardo Scarpetta) e una leggenda come Jamie Lee Curtis, splendida leonessa alla carriera, la mancanza di glam non s’è sentita troppo. E manca ancora (stasera) la pattuglia di Ridley Scott: Matt Damon, Ben Affleck, Adam Driver, Jodie Comer, protagonisti del drammone medievale The Last Duel. Hai detto niente.
Le cene sempre impossibili Voto: 4
Rispetto all’episodio 1, ci siamo fatti furbi: ormai abbiamo imparato quali sono i posti che ti fanno sedere anche dopo le 22. Restano pochissimi, anzi quest’anno l’impressione è che siano ancora meno. Ma qualche anima pia pronta ad accogliere noi poveri accreditati in cerca di uno spaghetto alla malamocchina a tarda (insomma) sera ancora c’è. L’importante è presentarsi tutti insieme: se il quarto del tavolo s’attarda al bagno dopo la proiezione, rischia di non mangiare. «La cucina chiude MASSIMO alle dieci e mezza» è la frase che abbiamo sentito ripetere più spesso in questi dieci giorni di digiuno (in)consapevole.