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RIP

Addio Maggie Smith, nonna eterna e amatissima

Se n'è andata oggi a 89 anni colei che tutti ha tenuto a battesimo. E che da 'Harry Potter' a 'Downton Abbey' ci ha insegnato la cultura pop, quella di gran classe

Foto: Zak Hussein/Corbis via Getty Images

Diceva Goldie Hawn nel Club delle prime mogli che “a Hollywood ci sono tre età per le donne: bambola, procuratore distrettuale e A spasso con Daisy”. Ma Maggie Smith, che in quel film che allora veniva considerato femminista e di cui le femministe di oggi hanno probabilmente chiesto la radiazione (c’era persino Ivana Trump) appariva pure; dicevo, Maggie Smith era ancora giovanissima, seppur in quella Hollywood molto ageista, come si direbbe oggi, quando scendeva le scale di Hook – Capitan uncino di Spielberg. E lì, vecchia Wendy, diventava un po’ la vecchia nonna di tutti noi Early Millennial, sempre come si direbbe oggi. Aveva 57 anni, età in cui nelle serie di adesso le attrici sono primipare.

È da nonna che Maggie Smith è diventata una star, lei che aveva già vinto due Oscar – come miglior attrice protagonista nel 1970 per La strana voglia di Jean e come miglior attrice non protagonista nel 1979 per California Suite – restando però sempre un po’ defilata, di contorno per i più, non abbastanza bonona, certamente senza la fregola di americanizzarsi. Era l’inglese che, se mai, sbarcava in America per dileggiarla, venendo poi riacciuffata come epitome della Britishness da quelli che manco s’erano accorti, che li aveva presi per il culo per anni.

Sono gli anni dei gialli, da Agatha Christie (Delitto sotto il sole e Assassinio sul Nilo, dove riesce a essere una perfetta servetta, proprio lei che aveva una persona, nell’accezione inglese, così regale: ed è stata un po’ la chiave di gran parte della sua carriera) a Invito a cena con delitto, che si ricorda affettuosamente soprattutto per Truman Capote attore. E poi ovviamente Camera con vista di Ivory, La segreta passione di Judith Hearne del bravissimo Jack Clayton che nessuno sa più cos’è, fino appunto ai ruoli da nonna, Hook, Il giardino segreto, Sister Act (lì addirittura supernonna con il velo), e il kitschissimo (e sottovalutato) Un tè con Mussolini di Zeffirelli, che mi è molto caro anche perché probabilmente è l’ultimo film che ho visto nel cinema dove ora c’è Zara.

Ma può per un’attrice arrivare la consacrazione pop a settant’anni? Per Maggie Smith sì. Una volta il pop erano anche i film di Robert Altman, e l’inarrivabile Gosford Park, del 2001, è un po’ il ruolo che spariglia tutto. “È divertente avere ospite uno del cinema. Non si sa di cosa parlare una volta esauriti i convenevoli iniziali”, sospira la sua Constance, e potrebbe dirlo ancora oggi seduta da Rocco a Monti. Probabilmente senza quel film (e un’altra nomination agli Oscar) non sarebbe esistita la professoressa Minerva McGranitt di Harry Potter, né ovviamente la Lady Violet di Downton Abbey, scritto come Gosford Park da Julian Fellowes e con cui è diventata un meme vivente. Di questi non scrivo niente perché già sapete tutto.

Il tratto distintivo di Maggie Smith, tra i tanti distintivissimi, è sempre stato quello di non far pesare il suo essere una Dama della regina, né il suo venire da Shakespeare, nonostante apparizioni in capolavori moderni come il Riccardo III di Al Pacino, ma anzi l’essersi sempre divertita a sguazzare nel popolarone, forse per via di quel nome che da servetta lo era davvero. Si vedano, in anni recenti, i vari Marigold Hotel e le saghe già dette.

A parte il ritratto della National Portrait Gallery, che non piace a nessuno ma a me sì, e ogni volta ci sto davanti un bel po’, se devo scegliere due film un po’ dimenticati di Maggie Smith, allora dico Quartet, sempre di Ivory, dove si diverte a farsi mettere da parte, lei sciuretta già un po’ vecchietta, da una radiosa Isabelle Adjani; e ancora prima lo sfortunato Masquerade di Joseph L. Mankiewicz, un delirio camp dove in una finta Venezia si diverte a rifare il Volpone di Ben Jonson. E poi un bonus: Nothing Like a Dame (da noi Un tè con le regine) di Roger Michell, cioè il regista di Notting Hill, che mette allo stesso tavolo lei, Judi Dench, Eileen Atkins e Jon Plowright – dovrebbero farlo vedere a chi insegna la sisterhood oggi, solo a chiacchiere però.

A un certo punto è lei a dire “Non mi piace quando le persone ti chiedono: hai già pensato a come vorresti che fosse il tuo funerale?”, e come è sempre entrata in scena da grande signora (da gran nonna), anche questa bastava già come meravigliosa uscita preventiva.

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