«Johnny!». E urla, lacrime, scene di fanatismo. Per un film che neanche doveva fare, visto che la storia vera dell’americano-irlandese Jimmy “Whitey” Bulger, boss realmente esistito, era stata affidata sei anni fa a Jim Sheridan che per il ruolo pensava a Daniel Day Lewis. Il cinema però ha mille svolte, inversioni a U e sorpassi e alla fine è arrivato Scott Cooper che ha convinto Johnny Depp a vestire i panni di un criminale ambizioso e violentissimo, con una trasformazione fisica che ha cercato, chiaramente, l’icona di Marlon Brando.
Bigger than film, Depp
Foto, autografi, un bacio. Chiedono di tutto le fans, dai 14 ai 40 anni, che hanno passato un’umida notte a ridosso del tappeto rosso e poi almeno 12 ore al caldo per stringergli la mano per qualche secondo, nella migliore delle ipotesi. Potere dell’ultimo divo che a 52 anni ancora non è riuscito a staccarsi dalla maledizione dell’”attore costruito per finire nelle camerette delle teenager, sui poster”. Lo ha detto proprio lui, in una conferenza stampa in cui non di rado la sua sincerità è stata urticante. Bigger than film, Depp. Perché se Black Mass è un gangster movie piuttosto conformista, scelto dal direttore Barbera e dal suo comitato di selezionatori proprio per avere l’idolo di tutti e soprattutto tutte al Lido, lui tra ritardi, birre in mano durante l’incontro con la stampa e una fisicità ormai più bolsa dell’Elvis ultima maniera non nega nulla alla platea. Tanto è controllato – sorprendentemente, viste le ultime prove grottesche – e rigoroso sul set, quanto caotico e spiazzante fuori.
Sarebbe più facile, dunque, recensirlo oltre Black Mass, ma visto che è un festival del cinema, proveremo comunque a raccontarlo e a giudicarlo il lungometraggio di Scott Cooper sull’ultimo gangster. Uno che ha il fratello, Billy (un ottimo Benedict Cumberbatch), in politica, ma che non vuole dare né ricevere aiuti da lui, che comunque ama e rispetta, e un vecchio amico nell’FBI (Joel Edgerton, simpatico spaccone), con cui crea un sodalizio ambiguo per qualsiasi codice d’onore, mafioso o sbirresco che sia. Tutto gira intorno alla forma di Depp, che nella scena della cena a casa di John Connolly, il federale che gli ha venduto l’anima per debellare la Cosa Nostra di Boston (sì, ancora Boston e gli scoop del Boston Globe, dopo Spotlight!), si supera e sa terrorizzarci come ai bei tempi. D’altronde quell’empatia che crea con i supercriminali – da Blow a Dillinger – gli consente di entrare fin troppo dentro quei lucidissimi e violentissimi psicopatici.
Il problema è che fuori dal buon cast, c’è poco o nulla. La visione di Cooper, pur autore degli interessanti Crazy Heart e Out of Furnace, è limitata e legata ai grandi classici del genere, copiati con diligenza ma sempre originalità, la sceneggiatura è così piatta che ci si affida all’esecuzione brutale degli infami del boss per trovare quei picchi che, altrimenti, non avremmo. E così un buon film – intrattiene per due ore abbastanza agilmente, come potranno vedere gli spettatori italiani dal primo ottobre prossimo – lascia l’amaro in bocca, incapace di spiccare il volo nonostante le risorse umane e le potenzialità creative promettessero altro.
Vale la pena però ripescare Till it’s gone, targato Yelawolf. Laddove non arrivano regista e sceneggiatura, può la musica. Lì senti forse l’unica vera svolta. Che però arriva troppo tardi.