Il traditore è un grande film, solido e potente. Lo capisci dalla prima sequenza, una scena di festa a metà tra Coppola e Scorsese: è il giorno di Santa Rosalia del 1980 quando a casa di Stefano Bontade le cosche dei palermitani e dei corleonesi si riuniscono. Lo capisci dal primo sguardo dello strepitoso Pierfrancesco Favino nei panni di Tommaso Buscetta, in bilico tra la famiglia e La Famiglia, convinto di essere ormai in qualche modo condannato: “La cosa più affascinante per un attore é interpretare un personaggio che prima di tutto tradisce se stesso, sfugge da se stesso sempre. E questi continui cambiamenti sono la cosa più bella in cui calarsi”, spiega l’attore.
“Io sono stato e resto un uomo d’onore. Per questo non mi considero un pentito”, ripete Buscetta nel lungometraggio. “Ovviamente non è un eroe, è solo un uomo coraggioso che vuole salvare se stesso e i suoi cari”, afferma Marco Bellocchio, che con mano sicura e tocco d’autore personalissimo mette in scena un film di mafia come non se n’erano mai visti. “È un conservatore, è pieno di nostalgia per la Cosa Nostra in cui è cresciuto e che ora sta tradendo quei valori. Non fa parte della schiera di traditori rivoluzionari alla Fidel Castro o alla Che Guevara, che tradendo il passato vogliono cambiare il mondo. La portata del tradimento di Buscetta si è compresa nel tempo: il maxi-processo è stato una pietra miliare, una vittoria parziale dello Stato contro la mafia”.
“Traditore e tradizione vengono dalla stessa radice”, aggiunge una degli sceneggiatori, Ludovica Rampoldi, “quindi è come se Buscetta avesse tradito la tradizione per salvarla, è su questo punto che abbiamo scavato”. Ci sono voluti più di 2 anni e 11 stesure di copione. “Abbiamo ricreato gli eventi della sua vita per trasformali in tragedia, siamo stati guidati dalla visione e dalle ossessioni di Bellocchio”.
Le parole chiave del film sono tre: tradimento, rapporto padre-figlio e melodramma. L’Aula bunker del carcere dell’Ucciardone è un teatro, un palcoscenico e il maxi-processo è uno spettacolo in cui ognuno interpreta un ruolo e indossa una maschera. Buscetta ovviamente è l’attore principale: “Ero attratto dalla sua figura, tutti lo descrivono come un uomo dalla personalità forte, che non aveva paura della sua poca cultura. Questa sua teatralità molto costruita è la cosa che mi ha affascinato di più”, racconta Bellocchio. “C’è una grande dimensione tragica del personaggio. Sono partito dai dettagli come la lingua, che era una costruzione tutta sua, e dalla convinzione che per vivere Buscetta abbia costruito una precisa memoria di sé. È stato un fine stratega della comunicazione, figlio di vetrai, un uomo ignorante che però non si vergognava di esserlo”, spiega Favino.
“Ammetto di essere stato affascinato da tante cose”, continua Favino. “Buscetta sembra un gangster degli anni ’50, era un playboy, è una di quelle figure, una di quelle facce che segna un’epoca. Ovviamente stiamo parlando di un criminale però condivido con lui il senso di famiglia, è un uomo romantico. Trovo che sia molto più interessante raccontare il male in maniera reale, noi oggettiviamo talmente tanto quel mondo da mitizzarlo, credo che in questo film non venga mai fatto”.