Sparare sul cinema italiano è uno sport molto praticato. E, non di rado va detto, anche giustificato. Nelle ultime settimane, però, lo sentiamo vibrare di un’energia speciale, di coraggio e scarti in avanti sorprendenti. O forse no, perché in verità il problema non è il Sistema – che rimane asfittico creativamente e produttivamente (tranne qualche eccezione come la Indigo, non a caso tra le poche in Europa con una strategia industriale e artistica chiara e che ora è in sala, e a Cannes, con due gioielli) -, ma la forza dei singoli autori. Perché la rivoluzione parte da loro e dal pubblico che sa premiarli. Anche se la filiera penalizza entrambi, rimangono fondamentali. E, alla fin fine, la parte migliore di questo mondo folle.
Fortunata: 9
Sergio Castellitto e Jasmine Trinca: che ci fosse, tra i due, una modalità di comunicazione e di creazione altissima e stordente lo avevamo già capito in Nessuno si salva da solo, tappa importante di una seconda parte di carriera dell’attrice cominciata con Miele, in cui il talento purissimo e il rigore di un interprete sempre capace di dare qualcosa in più hanno visto aggiungersi una libertà espressiva e interpretativa prima trattenuta (quasi comica in Slam, melodrammatica e sensuale in Nessuno si salvi da solo, “fisica” in Gunman, leziosa ed elegante in Mouret). La crescita, ulteriore, degli ultimi quattro anni di questa interprete coraggiosa, selvaggia e allo stesso tempo delicata e capace di offrirti sfaccettature anche negli eccessi, è evidente, quasi violenta in Fortunata. Si cala, Jasmine Trinca, in un personaggio scomodo, in una donna che fa i conti, senza sconti, con tutti i suoi sbagli, quotidianamente, ma anche con una voglia di vivere senza se e senza ma, con un’innocenza e una purezza che sembrano urlare al mondo quant’è sbagliato.
In una parlata romana ruvida ma mai macchiettistica, in costumi che sa indossare con naturalezza, in sguardi e in monologhi e battute (“la vita è sacra?” le dice un carabiniere, “la vostra forse, la nostra non se l’è mai inculata nessuno”) cesellate su un personaggio che è indomabile, c’è tutta quest’attrice che ti entra dentro ogni volta. E sempre in modo diverso. Uno splendido assolo in un’orchestra perfetta, Fortunata, che ci dice che vivere – come ci ricorda Vasco nel finale – è cadere, sbagliare, anche urlare, ma soprattutto amare. E mai arrendersi. E qui trovi il regista che il sentimento, totale e totalizzante, lo sa domare, che non ha mai avuto paura del melodramma, dei toni saturi, di cercare la vitalità di un cinema che un tempo sapeva anche prenderti per la collottola e che ora si nasconde dietro la sottrazione, perché a toccar di fioretto si sbaglia raramente.
Castellitto ha la capacità di prenderti le budella, il cuore, il cervello, di lasciarti sulla poltrona ad amare i suoi personaggi. E, o ad odiarli. Dà loro un carisma incredibile – Edoardo Pesce, attenzione, è un attore con i fiocchi: guardatelo, dolce e irresistibile ne La verità vi spiego sull’amore, e qui, bastardo e patetico, ma quasi epico mentre canta la sua L’amore è una cosa semplice -, oltre che consegnargli una fetta di film senza paura. E così ti ritrovi un Alessandro Borghi consacrato alla sua generosità espressiva e commovente – c’è qualcosa del giovane Al Pacino, in lui -, nella sua capacità di farti sentire addosso quel Chicano ferito e dolcissimo, così come un Accorsi che si prende, con la maturità degli ultimi anni, l’unico ruolo politicamente corretto e moralmente sconfitto, dandogli tutta la fragilità e sì, l’opportunismo di cui aveva bisogno.
E così capisci che quando Sergio Castellitto (e Margaret Mazzantini) non sono chiusi nei binari di un libro di lei, ma fanno scorrere vita e cinema direttamente sullo schermo, la magia aumenta. Sarebbe falso e ingeneroso non trovare nella bella cinematografia del regista e attore tante opere speciali che abbiano fatto il percorso pagina-immagine, ma Fortunata testimonia la forza della creatività dei due nella narrazione originaria, nativa, nei percorsi vergini. Lo vedi anche dalla regia, da una prima sequenza da maestro, dalle scelte mai scontate, da una visione che cerca l’umanità, misurandosi persino nell’altezza dell’inquadratura, quasi un film in 3D per l’uso degli spazi che il cineasta fa, nel riprenderli. E dei corpi, ovviamente, fondamentali, meravigliosi, pulsanti. E’ spudorato, Castellitto, perché il cinema è questo: carne, sangue, amore, lacrime, rabbia. Lo capisci dalla colonna sonora che non ha paura di Have you Ever Seen the Rain o di Let’s Twist Again.
Fortunata, che sembra film fratello di Sole cuore amore di Daniele Vicari (non a caso anche lì trovi una grande interpretazione femminile), pur raccontando la stessa classe sociale da due angoli opposti, ci dice che il cinema può e deve cercare la realtà, rimanendo se stesso. E che, anzi, è questa la strada maestra.
Orecchie: 8
Alessandro Aronadio è un cineasta e un cinefilo, nel senso che il cinema lo ama, e si vede. Quando si parla di grandi autori, poi, si deve parlare anche di chi, come lui, si mette nel team di sceneggiatori di Classe Z o I peggiori (commedie lontane dalla sua sensibilità ma in cui dà un ottimo apporto) ma anche del bellissimo e sottovalutato Che vuoi che sia di Edoardo Leo e poi da regista offre perle come Due vite per caso, in parte acerbo come esordio, ma estremamente interessante, e ora il cult Orecchie, un’opera di quelle che ti crescono dentro, di cui ne capisci il valore pian piano che sedimenta dentro di te.
Commedia surreale incentrata su Daniele Parisi, una specie di Troisi romano e più disincantato, con punte di Verdone, che ha due problemi: il sibilo all’orecchie che lo tortura dal risveglio di una giornata che sembra come le altre e la morte del suo grande amico Luigi, che la fidanzata gli comunica con post-it. Se solo si ricordasse chi sia Luigi, però. Iniziano una dozzina di ore assurde, in cui alla ricerca di una soluzione a entrambi i dilemmi, trova il senso della sua vita incontrando due suore, una vicina vedova, un medico, un artista, sua madre, un amico, un prete.
Aronadio gli cuce addosso il film, lo ricama su quelle espressioni geniali e spaesate, non ha paura di farci ridere, apertamente, per poi colpirci quasi a tradimento con una profondità e una visione altra. Il bianco e nero non è vezzo, ma esigenza visiva e creativa, quasi a voler sottolineare il talento quasi da cinema muto di Parisi e l’importanza di gesti e incontri e sguardi laddove le parole non di rado invadono (anche se quando le usano Wertmuller e Papaleo, sono da urlo). C’è un equilibrio nella precarietà del protagonista e nel film, che cammina su un filo di narrazione e di tono da cui sarebbe facile cadere, che Aronadio domina, capace com’è di bilanciare scrittura e regia, inquadratura e dialogo, montaggio e fotografia.
Sicilian Ghost Story: 7,5
Fabio Grassadonia e Antonio Piazza sono bravi, di quegli autori che corrono solo un pericolo. Di diventare “da festival”, di chiudersi nella propria grammatica e nel rassicurante alveo di una ristretta cerchia di appassionati, custodi gelosi della loro arte. Salvo, a Cannes, ci disse che avevano mano, sguardo e soprattutto guizzi da autori veri. Ci stupì quel noir accaldato, quel film sociale e di genere, per la sua capacità d’essere sinfonia di suoni e immagini. Così tanto, forse, da specchiarsi nella seconda parte, da piacersi, da sgonfiarsi.
Qui, quel talento si realizza in un lavoro più solido, compiuto, anche più ardito. Una favola ai tempi della mafia, i Grimm che percorrono l’orrenda e squallida realtà criminale e antropologica di un mondo che dimentica gli ultimi, quando non li massacra. Grassadonia e Piazza sono poetici e implacabili, suoni e immagini si sposano con una scrittura potente, soprattutto incentrata sulla giovane Luna, ci offrono un rimando di simboli, di strutture narrative antiche (mitologia e tragedia greca), con una modernità totale, nei colori e nell’uso della macchina da presa.
Quello che allora sembrava a volte forzato, qui è fluido: realtà e favola, grazie a Luna, alla sua cameretta, agli animali, a una ghost story che diventa horror neorealista per poi, appunto, essere favola nera, da Esopo appunto ai Grimm. I due registi così il salto di qualità lo fanno tecnicamente, dove sembrano ancora più consapevoli dei loro notevolissimi mezzi e della loro ispirazione, e narrativamente, e lo capisci anche da come dirigono Julia Jedilkowska (pazzesca) e Gaetano Fernandez. Rimane il difetto di piacersi un po’ troppo (qui lo capisci solo dalla durata, che poteva essere asciugata per rendere il ritmo, ottimo grazie al montaggio, ancora più efficace). Ma se lo andrete a vedere capirete che questo film parla prima di tutto e soprattutto al pubblico. Senza sottovalutarlo.
The Dinner: 5,5
La via di uscita più semplice nel recensire un oggetto cinematografico strano come The Dinner sarebbe dire: Ivano De Matteo, con I nostri ragazzi, ha trattato la questione meglio e con più passione. Ma sarebbe ingeneroso per entrambi. Perché Oren Moverman, che ricordiamo per il bellissimo The Messenger (su un soldato addetto a dare notizia delle morti dei commilitoni ai loro parenti e che finisce per avere una storia con una delle vedove di guerra che incontra), costruisce nel film un impianto morale, filosofico, valoriale estremamente coraggioso e coinvolgente.
Due fratelli che riflettono sulla responsabilità genitoriale e sui legami di sangue, due modi di vivere il fatto che le colpe dei figli possono ricadere sui padri, sulla responsabilità sociale e personale, riflettendo e (ri)vivendo sul proprio rapporto fraterno le rispettive contraddizioni, un carnage da tavolo con i toni eleganti e compassati di Richard Gere: sono tutti spunti meritevoli e interessanti.
Il punto è che Moverman, capace come pochi altri di affrontare i massimi sistemi, fatica a ridurli dentro una storia, a maneggiarli, spesso ne rimane schiacciato e con lui i suoi attori. Finché ti rendi conto che l’opera ti ha fatto pensare, ma non penare. Non ti ha preso, come avrebbe dovuto, ma diventa “solo” un elemento di discussione troppo astratto. Per scendere così a fondo, si deve scavare nel fango, non sfiorarlo né, semplicemente guardarlo.