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Cola e pop-corn: il pagellone cinematografico della settimana

Tutto il meglio (e il peggio) fra tutte le uscite al cinema: da un grande Matthew McConaughey a Maradona, D10S anche al cinema

Difficile trovare un senso alle uscite ossessivo-compulsive di fine primavera, quasi che in quel giugno che pure vedrà titoli clamorosi come Wonder Woman, Transformers 5 e Baywatch (ovvio che sia quest’ultimo ad essere atteso quasi come dono divino) si celi una sorta di buco nero destinato a inghiottire incassi e pubblico. I ponti appena passati avevano già regalato molti titoli e l’impressione è che come quantità e qualità si andrà peggiorando di qui a settembre. Questa settimana, però, non possiamo lamentarci e allora daremo le pagelle solo ai migliori. O quasi. Torneremo (più) cattivi la prossima settimana.

Maradonapoli: 10

Che voto dare a un film su D10S se non appunto il suo 10? Diego Armando Maradona è cinema puro, ma dal vivo. Lo hanno capito geni che hanno plasmato i nostri immaginari senza aver paura del pop come Kusturica e Sorrentino. Tanti hanno provato, con documentari e lungometraggi di finzione, a raccontarlo, mostrarlo, indagarlo, sviscerarlo. Solo Alessio Maria Federici ha capito però che la sua magia più grande è stata far innamorare una città, un popolo, tanto da plasmare la sua cosmogonia moderna su di lui. Un popolo che non era il suo – gli argentini sono molto più laici nei suoi confronti – ma lo è diventato. Maradonapoli è il questionario di Proust declinato al Maradonesimo, è la gente comune che racconta un uomo e un sentimento eccezionale. E un regista acuto e sensibile che sa capirlo, raccontarlo e finalmente restituirlo senza (pre)giudizi, per far capire che quell’emozione è umana, spirituale, politica, fraterna. Ma, soprattutto, unica.

Sole Cuore Amore: 9

Daniele Vicari non ha paura. Ha una consapevolezza intellettuale e creativa del ruolo del cinema, e del regista, nella modernità che quella sì, incute timore a chi non ha le spalle abbastanza grandi per sopportare la verità che ci mostra. Diaz e Sole cuore amore non potrebbero essere più diversi – anche se una certa ambizione visiva, il lavoro con Benni Atria e l’uso della macchina da presa, della fotografia e dei colori si parlano – eppure sono legati a doppio filo dalla potenza etica ed estetica di un autore che non accetta il mondo in cui viviamo, questo capitalismo cannibale che ci schiaccia nella nostra rassegnazione ineluttabile. E’ romantico questo film nel raccontare un amore stanco eppure forte, un’amicizia dolce seppur smozzicata per pochi istanti al giorno, nel sorriso di un’attrice (Isabella Ragonese, mai così brava e coraggiosa, ottima anche Eva Grieco), nell’impotenza di uomini di buona ma non sufficiente volontà (Francesco Montanari, uno che riscopriremo presto, e Francesco Acquaroli). È impietoso ed epico nel dirci che ora che sappiamo non possiamo più nasconderci: Eli siamo noi. E non stiamo granché bene, anche se facciamo di tutto per non farlo notare.

Merci Patron!: 8,5

Il mezzo voto in più lo diamo perché in un pianeta malato e in un immaginario collettivo convinto che ormai il cinema sia marginale, scopriamo grazie a Francois Ruffin che non sono la Settima Arte può cambiare il mondo, ma che lo fa qui e ora. Ruffin entra nel bel mezzo di una trattativa – che poi tale non è – tra un colosso del lusso (LVMH, lo conoscete bene) e i suoi operai spazzati via dalla delocalizzazione (e non solo). Prova a fare da mediatore, cronista, paciere, ghost writer di un altro finale. Prova a cercare le ragioni dei padroni, sistematicamente fals(at)e, e quelle di chi ha perso il lavoro ed è destinato a lasciare per strada molto altro. Ruffin è un personaggio alla Voltaire, un Candido che scende negli inferi di un’economia e di un Sistema (lo stesso di Sole cuore amore, per intenderci) che ci sta stritolando in barba alle regole e al buon senso. Questo regista, però, ha un guizzo, non solo creativo. Ha dalla sua la rivista Fakir – pensate bene al nome – e la storia perfetta di dolore e redenzione di una famiglia sotto la soglia della povertà. Ha dalla sua il candore, la purezza di chi sta facendo, diabolicamente, la cosa giusta. Perché il mondo del lavoro ora è un labirinto senza uscita in cui è il marketing sociale, un vocabolario da imbonitori e l’inganno la ragnatela che uccide noi comuni mortali. Ruffin però non ci sta e ci mostra quanto siano mediocri questi uomini che decidono le nostre sorti. Quanto facilmente possono essere ingannati anche loro e come, squallidamente, cerchino exit strategy. Senza dignità né ritegno. Sapete poi cos’è successo? La Francia, dopo aver visto questo film, è scesa in piazza. Certo, pochi mesi dopo si è affidata a Macron e Le Pen, ma nessuno è perfetto.

East End: 8

Fresco, cattivo, capace di puntare su un’animazione non facile da sostenere, per tratti e movimenti, per poco meno della durata di una partita. Uno spoiler ve lo facciamo: la dimostrazione che parliamo di una storia di fantasia sta nel fatto che il derby Roma-Lazio che diventa il pretesto per dei bambini di dirottare un satellite Nasa e fare lo sgambetto alla lotta al terrorismo, è che Francesco Totti, in East End, segna una tripletta alla Lazio. Che sia poi una satira sociale politicamente scorrettissima è dimostrato sempre da quel numero 10 che avrà un ruolo fondamentale nel finale (e che è ottima metafora di quello che gli stanno facendo). Ma parliamo di cinema e non di calcio e lo diciamo: Luca Scanferla e Giuseppe Squillaci, allievi di Rambaldi, dimostrano che l’animazione è un mezzo che può diventare ponte geniale verso una sceneggiatura sfrenata, uno sguardo sul mondo altro, un modo di fare cinema diverso. Non ci sono limiti in East End. E questo lo rende irresistibile.

Adorabile nemica: 7

Shirley McLaine. Verrebbe voglia di non scrivere altro: è talmente brava, ancora adesso (e forse soprattutto adesso) che persino Amanda Seyfried, godendo della sua luce riflessa, sembra saper recitare. Questa anziana sarcastica, sola, capace solo di giudicare e controllare, è portentosa nelle sue staffilate contro il mondo quanto nei silenzi che ci riportano a L’appartamento (di Adorabile nemica vi renderete conto che già solo i primi minuti valgono il biglietto). Il soggetto è un’arma a doppio taglio: un’ottantenne, che è stata molto potente e reduce da un tentativo di suicidio, vuole sapere cosa si scriverà nel suo necrologio e così assume chi li fa nel “suo” giornale. Ovviamente, indagando su come amici e parenti lo comporrebbero, oltre che confrontarsi con(tro) un’altra generazione, le sorprese non saranno piacevolissime. E la prevedibilità è continuamente dietro l’angolo. Shirley però, la dribbla sempre: con gli occhi, con un dialogo detto come sa, spiazzandoci insieme ad Anne Heche in un rapporto madre-figlia affatto scontato.

Insospettabili sospetti: 6,5

Diciamolo, il cinema della terza età ormai è un gioco a carte scoperte. Che rimpianti per Harold e Maude, in cui si era capaci di indagare un’età difficile in maniera altra, senza per forza arrivare alle vette di Oltre il giardino. Rassegnamoci, non è più nemmeno il tempo di Irina Palm, al massimo di Quartet o di Sarah Polley. Adesso dobbiamo accontentarci dei pacchetti tutto compreso di Hollywood, che dopo Last Vegas raccoglie tre assi (Morgan Freeman, che era anche nell’altro, Alan Arkin e Michael Caine) e si diverte a metterli in un heist movie che funziona, anche grazie alla regia discreta ma capace di valorizzare la comicità naturale della storia e dei tre mattatori, oltre che di giocarsi la giusta dose di critica sociale (banche, lavoro, media, forze dell’ordine). Dietro la macchina da presa c’è Zach Braff (sì, proprio il dottor John Dorian di Scrubs) che a volte sembra fare l’occhiolino alla serialità televisiva e ai suoi tempi ma che alla fine la porta a casa. Non un capolavoro, ma vi farà passare una gradevole serata. E per una volta, al cinema, potete portarci pure i nonni.

Gold – La Grande Truffa: 5,5

Matthew McConaughey riesce a essere uno, nessuno e centomila in questa seconda parte di carriera. Bravo, bravissimo, geniale. Ok, ma ora se ne stanno tutti approfittando: se hai un interprete in stato di grazia non è un buon motivo per non scrivere, dirigere, fotografare un film, peraltro classico e di genere (quindi piuttosto facile) come merita. Eppure Gaghan è quello di Syriana: uno sì bravo a cucire opere attorno a protagonisti ingombranti, ma anche a dire la sua e per giunta a scrivere. Non è tutto Gold ciò che luccica insomma: vale per la truffa (vera) raccontata nel film e per il lungometraggio stesso, che vampirizza l’ispirazione del buon Matt.

Tanna: 5

È quel tipo di film che un critico, per dormire tranquillo, dovrebbe elogiare senza incertezze. Ma questo documentario che è film di finzione girato da due documentaristi che vanno a pescare due che un film non l’hanno mai visto ma che lo interpretano con fin troppa naturalezza, non convince. Almeno noi. Sono troppo perfetti questi Romeo e Giulietta nell’isola di Tanna, appunto, ma di due tribù Vaunatu diverse. Antropologicamente interessante, naturalisticamente imprescindibile, in ogni immagine senti però l’artificio di due autori che forse è pure vero che hanno vissuto a lungo in quel contesto e son stati bravissimi a mimetizzarsi, ma che non riescono a togliere al tutto un patina di colonialismo visivo, di visione da acquario. Tanna, trionfatore alla Settimana della Critica e ignorato agli Oscar, ha tutto per farsi applaudire a scena aperta. Ma noi, forse, siamo troppo cattivi per crederci.

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